Resoconto della mostra “Addio Anni ’70”, dal 31 maggio al 2 settembre 2012, Milano
La mostra Addio Anni ’70 visitabile gratuitamente per tutta l’estate a Palazo Reale a Milano non è una mostra d’arte, ma di filosofia. È un modo per salutare gli anni ’70 e celebrarne la parte più feroce. Poco essa ci dice e ci spiega, per capirla si doveva essere là, a Parco Lambro, ai funerali delle vittime di piazza Fontana o nel Collettivo Autonomo Pittori di Porta Ticinese, per comprendere ed apprezzare. Se siete nati troppo tardi, se avete meno di quarant’anni, non ci riuscirete, anche perché chi ha curato il tutto non si preoccupa che voi comprendiate.
I curatori della mostra, Francesco Bonami e Paola Nicolin, oltre a voler sottolineare il ruolo principale di Milano in tutte le manifestazioni del decennio, evidenziano anche il ruolo di verifica della memoria sia per coloro che hanno realmente vissuto quegli anni, sia per capire il segno che ha lasciato nelle successive generazioni.
L’ esposizione include ben 230 lavori tra fotografie, sculture, illustrazioni, libri, video e altro ancora, distribuiti in 28 stanze che occupano un intero piano del Palazzo Reale.
Milano è stata in quel decennio un crocevia di scrittori e artisti, un punto di passaggio, e anche di sosta, di gran parte del mondo artistico e letterario italiano, con la presenza, per nulla casuale o saltuaria di tanti autori, da Marquez a Foucault, dai Becher a Arakawa. L’idea che la mostra – una passeggiata intensa e al tempo stesso icastica – suggerisce è proprio quella di un caleidoscopio d’immagini e di vite, di opere e d’idee, di incursioni e di fughe, dentro una realtà sociale e politica in grande ebollizione; sullo sfondo la morte di Pinelli, i conflitti, gli scontri di piazza (ma qui niente terroristi o autonomi con la pistola), che tuttavia restano, almeno in parte, fuori quadro, poiché al centro della descrizione e della narrazione c’è l’arte visiva, in senso stretto.
Quello del paesaggio sociale e politico è come un inevitabile rinvio, una sponda, su cui sembrano rimbalzare le opere esposte da Agnetti a Baruchello, da Alviani a Castellani, da Alfa Castaldi a Cesare Colombo, da Claudio Costa a Luciano Fabro. Un posto a sé, poi, occupano poi le performance di Laurie Anderson, di Robert Wilson e Christopher Knowles, di Sonic Arts Union e di Franca Sacchi alla Galleria di Salvatore Ala a metà del decennio, ricostruite attraverso scatti fotografici e filmati d’epoca, ma anche i disegni per l’intervento di Gordon Matta-Clark a Parigi negli edifici abbattuti per far posto al futuro Beaubourg, i cui disegni sono esposti a Milano nel novembre del 1975.
Milano era la città di galleristi importanti in quell’epoca: Massimo Valsecchi o Carla Pellegrini, e di collezionisti privati.
Ci sono lavori che giganteggiano per la loro forza tellurica come le “Antropologie disseppellite” di Claudio Costa o i frammenti di cemento e vetro di Giuseppe Spagnulo, oppure le sculture di Guseppe Uncini, dove si specchia l’istinto di morte del periodo, e invece segni leggeri, aerei come quelli di Ugo La Pietra o Franco Vaccari che aprono già al decennio successivo. Ci sono scrittori che sono anche artisti visivi come Gian Emilio Simonetti, o lo stesso Balestrini, che evocano l’idea di una fusione e superamento delle arti e dei mestieri a venire.
Ci sono artisti nati a Milano (Emilio Tadini, Nanni Balestrini, Dadamaino), artisti che Milano l’hanno scelta (Emilio Isgrò, Arnaldo Pomodoro, Luciano Fabro) e gli stranieri, quelli che orbitavano intorno alla Galleria Ala e che con la loro presenza hanno contribuito a rendere internazionale il panorama artistico della città. Gli impacchettamenti di Christo, le sculture impregnate di minimalismo zen di Nagasawa Hidetoshi, i collage pop dell’inglese Richard Hamilton, le archeologie industriali dei tedeschi Bernd e Hilla Becher.
Citati, in mostra (anche se dir mostra è un termine forte: sono visibili per lo più fotografie, sia ritratti fotografici che immagini di archivio, pochissimi quadri e ancor meno sculture, in un totale di due tre opere per stanza, e tantissimi filmati di repertorio che, se voleste vederli tutti, restereste in Palazzo quattro ore) Gabriele Basilico (con il suo dossier sul Festival del Proletariato Giovanile al Parco Lambro), Shusaku Arakawa (con il video “For Exaple” in cui filma un bambino ubriaco che sta morendo in strada a causa dell’alcool), i ritratti fotografici di Carla Certai, “L’Uovo” di Luciano Fabro, Allan Kaprow, Isgrò (che lavorava sulla tecnica verbale), Ugo Mulas, Davide Mosconi, Hidetoshi Nagasawa che arrivò a Milano dal Giappone in bicicletta, Arnaldo Pomodoro, Giuseppe Spagnulo, Giovanni Testori (che non era solo un romanziere!) e molti, moltissimi altri. Foto in bianco e nero, disegni erotici, manichini, simulazioni, tavole usate e lasciate sporche (opera di Daniel Spoerri), avanzi, resti, sporcizia. “Cerchi progressivi” di Getulio Alviani, “Città Analoga” di Arduino Cantafora, le superfici tridimensionali di Enrico Castellani, le fotografie del Processo Calabresi, la complessa scultura (da guardare in senso verticale), “W la Libertà” di Alik Cavaliere. Le opere di antropologia (disseppellita) di Claudio Costa, in un ossessivo ritorno a cercare le radici, preferendole se sporche e con cadaveri in decomposizione al proprio interno.
Anni ’70 brutti e cattivi, rudi, forti, puzzolenti, senza mezze misure,. Anni ‘70 nudi, capelloni, barbuti, malvestiti, giovani. Tutto dissezionato come una fotografia di Hamilton, meglio se si intuisce che, al di là, è tutto falso e brutto. Alla fine, come per le opere di Isgrò, nulla è mai come sembra e l’autore non è lui e forse non esiste. Per chi, come me, gli anni ’70 non li ha vissuti, è così che li si immagina. Difficili, cattivi, in cui si cercava qualcosa di nuovo, ma lo si faceva con rabbia in corpo e con un desiderio di scandalizzare. Anzi, allora sì che si scandalizzava ancora.
Written by Silvia Tozzi
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