“Potando l’Euforbia” di Claudia Piccinno – recensione di Deborah Mega
“Potando l’euforbia” è la preziosa silloge di diciotto componimenti di Claudia Piccinno, contenuta nella raccolta Transiti diversi, edita da Rupe Mutevole.
Non ha il pregio dell’obiettività quanto sto per scrivere dal momento che conosco Claudia da molti anni ma non importa. Posso dire ad esempio che non gioca a fare la poetessa, lo è, da sempre, senza rimedio, fin da quando in una calda mattinata di settembre del 1983, me la sono ritrovata come compagna di classe.
E nel corso degli anni non è cambiata, forse è solo divenuta più consapevole di sé e del mondo.
Si sperimenta la varietà in questa bella raccolta, di stili, temi, significati, con versatilità si passa dall’aforisma a stilemi prosastici, dall’haiku al verso poetico tradizionale, dal proverbio alla riflessione meditata e saggia ma il tema del dolore resta, non è lenito neanche dalla potenza espressiva della parola, dal “prodigio” consolatorio della poesia, dall’infinito dentro sé sancito da versi intensi come “percepivo azzurro dentro”.
Allo stesso modo rimane la paura “di cadere a picco” o che l’ignoto e la “rabbia del disinganno” colgano impreparati nonostante sia un’arma di difesa la parola, lama tagliente che “fende le catene / e oltrepassa le frontiere”. Si utilizza la cromoterapia, “l’azzurro si lega bene al giallo sole, / concilia relazioni e ritmi interiori”, i colori infatti aiuterebbero il corpo e la mente a ritrovare il loro naturale equilibrio nonchè il linguaggio dei fiori, ricco di simbolismi e di corrispondenze; così le giunchiglie rappresentano il desiderio, l’erica la solitudine, le fresie l’amicizia, la frassinella il parto, e tale ricercata florigrafia concorre a scoprirsi e rivelare i moti dell’animo e del corpo.
La dote visionaria di Claudia, non a caso il sottotitolo della silloge è “Trasfigurazioni”, si ritrova tutta in Lettera in cui la poetessa apre il suo cuore al lettore. Con complicità, come se fosse un suo amico fraterno lamenta l’esplorazione senza aver saputo osare per giungere alla certezza che “quando il tempo avrà riconosciuto la purezza della perla, lei sarà sicuramente il tuo rimpianto”.
Si interroga sul senso del fare poesia, definendola “varco per anime sole”, “intimo codice di pensieri irrisolti” per poi descrivere scene di vita, che denunciano un’attenta osservazione della natura, per penetrare sempre il significato delle cose, senza tralasciare mai l’importanza dei dettagli, la stessa che ispira a classicheggianti associazioni mitologiche o a dedicare un’ode “Agli occhiali” che a me ha ricordato preziose odi di foscoliana memoria.
Si chiude la raccolta con il tema della morte o meglio dell’impotenza dei congiunti di fronte alla dipartita di una persona cara, ma dalla sofferenza “Io sorridevo falsa / e sanguinavo dentro” si passa alla dolcezza del ricordo, che si può ritrovare nella natura circostante, se solo lo si sa scorgere, “ti so ora abbracciato / alle fronde del pino, / esaudito l’ultimo / tuo desiderio, / ritrovo nel vento / il tuo sorriso”.
È un dono di Dio la perseveranza, quella che ci permette di combattere l’inerzia e di rompere le catene dell’abitudine. Per dirla con Saint-John Perse “Solo l’inerzia è pericolosa. Poeta è colui che spezza per noi l’abitudine. […] E dica a tutti chiaramente il gusto di vivere questo tempo forte. Perché l’ora è grande e nuova, nella quale conoscersi di nuovo.” Afferma Claudia con consapevolezza che la perseveranza, intesa come sforzo di volontà per migliorarsi sempre, nonostante le difficoltà, vada coltivata.
L’euforbia va curata, per dirla con la poetessa, va potata.
Written by Deborah Mega
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