“Uscita per l’inferno” di Stephen King – recensione di Alessandro Vigliani

Spulciando in casa di mia madre trovo un Richard Bachman d’annata, lasciato in libreria a decantare come il migliore dei vini. Di certo Uscita per l’Inferno, terzo romanzo di King con lo pseudonimo di Richard Bachman, non è il migliore dei suoi lavori, ma come accadde per Rumore Bianco di De Lillo, aperto durante la psicosi da nube nucleare giapponese, anche questa volta la lettura di Uscita per L’Inferno capita in un periodo in cui le gesta del personaggio principale, George Bart Dawes, rappresentano qualcosa in più di una semplice costruzione artificiosa per raccontare una vicenda.

La storia narrata da King, è quella della disperazione dell’individuo data dalle scelte di altri in nome del profitto e del dolore inconsolabile e insuperabile, di cose come feticci cui è impossibile rinunciare poiché parte integrante di un vissuto che resta imprigionato nei luoghi in cui la quotidianità prende forma. E non solo.
Vi è, nella disperazione di Dawes, l’abbandono di ciò che è sacralità. Lavoro e casa. Ma se del primo se ne può anche fare a meno, sacrificando stabilità economica, e come è evidente, affettiva, per la casa, abbandonarla vuol dire lasciarsi quanto resta imprigionato tra le mura.
Stephen King fa denunce politiche, le sue non sono solo storie e in questo caso il sovrannaturale non c’entra niente. E terrorizza per l’appunto poiché tristemente vero, tangibile e reale. Non incubi ma realtà.
C’è tanto dietro, il lavoro dell’autore di Portland è meticoloso e appassionante, perché tra le righe, in ogni pagina, si può leggere (concordi o meno, certo) il suo punto di vista politico e una critica spesso dura, aspra, contro il mondo che avanza nelle sue logiche mosse contro l’individuo in favore del profitto.
Dawes, protagonista indiscusso, è una delle vittime della crisi americana, uomo pacifico, metodico, con un evento tragico da superare: la morte del figlio per un tumore cerebrale. Come se non bastasse, mentre cerca di razionalizzare la grave perdita, viene a sapere che nella sua città ci sarà il prolungamento di un’autostrada, la 784, che prevederà l’esproprio da parte dell’amministrazione del tratto di strada in cui sorge la sua casa e la lavanderia in cui egli stesso è operaio.
Da questa situazione, in lui scatta qualcosa. Di colpo interrompe il suo rapporto con i colleghi e con sua moglie Mary (taglio netto alla quotidianità e al cordone ombelicale della tranquillità) e comincia una serie di avventure che lo porteranno alla conoscenza con Olivia, giovane ragazza scapestrata con cui fa sesso (e che lo inizia a droghe allucinogene) con un paio di malavitosi, con un missionario e al continuo dialogo con Fred, secondo nome del figlio deceduto, alterità che lo asseconda in un ogni sua azione.
Di qui, la sconfitta davanti quel dolore che ha la meglio, rendendosi dunque insuperabile e anzi, trasformandosi mentre qualcosa, come un’ombra nera, si fa strada in George, prendendo il sopravvento verso un tragico epilogo di cui si ha sentore già delle prime pagine, quando il protagonista sta già acquistando un fucile e delle munizioni. E lo fa in modo totalmente irrazionale, distaccato, come se già ad agire fosse un più drammatico alter ego.
George nel corso dei due mesi narrati nel libro (scanditi per ogni capitolo da una data) si chiude sempre più in se stesso fino al fatidico giorno, 20 gennaio 1974, in cui il governo decide di sgomberarlo da casa sua. In una strenue resistenza si consuma la vita di George, con il ritmo serrato di capitoli corti e frenetici, una caduta in un vortice di emozioni, di avvenimenti che danno il senso di inevitabile baratro o estrema e compiuta libertà, esplosione di ribellione.
Per concludere, di sicuro non è il migliore dei romanzi di King, il ritmo spesso si perde rendendo la lettura, nei primi capitoli è più evidente, più soporifera. Eppure, questo testo è il più attuale, diretto per malessere come un calcio nei denti. Perché è nella disperazione quotidiana di processi che non riusciamo a superare, che la vita partorisce uomini nuovi, alterità maligne, disperatamente libertarie, che senza più nulla da perdere si aggrappano al poco che hanno, difendendolo con i denti.
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