“Giorni di neve, giorni di sole”, di Fabrizio e Nicola Valsecchi – recensione di Marco Albeltaro
Raccontare l’assenza. Note intorno a un libro su Patricia Dell’Orto, desaparecida argentina

La protagonista del libro “Giorni di neve, giorni di sole” di Fabrizio e Nicola Valsecchi è, allo stesso tempo, la sua grande assente. Patricia Dell’Orto è, infatti, una dei trentamila desaparecidos argentini. Strappata dalla sua casa, dalla sua bambina di venticinque giorni, dai suoi genitori e legata nel destino al marito («I militari hanno rubato loro una vita felice insieme», dice il padre). Patricia e Ambrosio – questo il nome del suo compagno – avevano l’unica colpa di insegnare ai bambini poveri, per provare a dare loro un futuro, per provare ad aprirgli una porta sul mondo. Lo facevano al tempo della dittatura e ciò bastò a firmare la loro condanna a morte.
Partito dall’Argentina per ritornare un’ultima volta nel suo paese natale, il padre di Patricia si abbandona al flusso dei ricordi. Quei ricordi tanto frammentari e astratti che affiorano nella mente di Alfonso Dell’Orto come un fiume in piena che fatica a stare dentro agli argini spazio-temporali della narrazione.
Alfonso se ne sta seduto in aereo tenendosi stretta una valigia colma delle tracce fisiche di quei ricordi: fotografie, lettere, disegni, oggetti: quella valigia è il tabernacolo nel quale si sono stratificate negli anni le reliquie della tragedia che ha colpito i Dell’Orto. E proprio l’assenza della tomba sulla quale piangere la figlia uccisa viene colmata dalla raccolta di quegli oggetti che testimoniano il suo passaggio nel mondo.
Il viaggio di Alfonso ha uno scopo preciso che verrà esplicitato soltanto nelle ultime pagine del libro: portare la memoria della figlia nel luogo nel quale risiedono le memorie della famiglia. In Italia, dunque, a Piazza Santo Stefano. Un ritorno alle origini, alla semplicità della vita di provincia per riallacciare con un ultimo atto quei fili della memoria che la migrazione, il passare degli anni, l’avvicendarsi di passioni, amori, tragedie e morti avevano spezzato.
Patricia avrà il suo monumento funebre nella patria d’origine: una fotografia appesa nella sala principale della cooperativa del paese. E una commemorazione. Anzi, un racconto pubblico della sua esistenza, ciò a cui il padre tiene particolarmente per lasciare una traccia della vita di sua figlia e dell’ingiustizia che l’ha spezzata: «è ingiusto, assurdo morire a ventun anni con un marito di ventitré e lasciare al mondo una bambina di venticinque giorni».
È come se Alfonso volesse sistemare le ultime cose per morire in pace, incasellare le ultime tessere della sua memoria per ricomporre, finalmente, il puzzle.
È così che il vuoto dell’assenza si riempie grazie alla socializzazione della memoria di un lutto e di una vita.
Il libro di Fabrizio e Nicola Valsecchi non è un romanzo, non è un saggio e non è nemmeno una raccolta di memorie perché a scrivere non è il protagonista. In fondo, non importa sapere di quale genere letterario si tratti. Perché in questo caso, come in altri, la scrittura fuori dagli schemi della ripartizione dei generi letterari, riesce a rendere molto meglio di eruditi saggi e di ponderosi volumi il significato della vicenda di cui tratta. E lo rende attraverso quella lente esistenziale che può far divenire strumento conoscitivo il flusso continuo di una memoria intima e personale.
Non è una storia quella che i gemelli Valsecchi hanno scritto. Si tratta, piuttosto, di una fonte per la storia di quella vicenda dolorosa e drammatica che vide protagonisti involontari tanti oppositori del regime dittatoriale argentino, ma anche tante persone che con la loro trasparenza, la loro determinazione, la loro opera quotidiana uscivano dallo schema totalizzante e freddamente calcolatore della dittatura.
La storia dei desaparecidos è anche la storia delle loro famiglie. E, paradossalmente, il racconto pubblico della storia di questi oppositori inizia nel momento della loro assenza. Si racconta di loro quando sono già stati rapiti, torturati e uccisi. La loro vicenda prende forma quando è stata archiviata da un atto definitivo come la morte. Gli oppositori della dittatura argentina acquistano – ed è un’amara costatazione – più forza da morti che da vivi. La stessa scelta di non farne ritrovare i corpi, di occultarli nell’oceano («La mente va a Pocha, una delle tante madri che non hanno più osato toccare l’oceano, sapendo che le sue onde si sono prese ciò che restava dei loro figli») o in fondo a profonde fosse, altro non è che il tentativo di farli scomparire dalla memoria pubblica del Paese e di occultarli agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.
In realtà la giunta militare fece male i suoi conti. E proprio la ricerca di quei destini perduti e scomparsi alimentò quel movimento che col tempo sarebbe andato ad assumere sempre più un carattere di massa, fino a minare le basi stesse della dittatura. Non bastò la repressione a fermare la richiesta di verità, non bastarono le torture, non bastò nemmeno l’ostentazione di una maschera democratica con la quale la dittatura celò il suo orribile volto durante la propria esibizione sul palcoscenico dei mondiali di calcio.
I desaparecidos lasciarono un’eredità troppo gravosa ai loro famigliari da essere messa da parte per un’instante di euforia, per la vittoria della coppa del mondo di calcio. Un’eredità involontaria, ma non per questo meno impegnativa per chi la riceveva: cercare la verità, cercare una persona che poi diventava soltanto più un nome fra tanti.
L’assenza di tante donne e di tanti uomini è diventata la presenza delle loro famiglie, di madri e di sorelle, soprattutto, ma anche di padri, fratelli, mariti, mogli e figli che hanno circondato le mura del silenzio della dittatura e le hanno, infine, abbattute, in un lungo e tortuoso processo che nasce però a Plaza de Mayo.
Written by Marco Albeltaro
(Università di Torino)
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