“Il caso della morte di Giacomo Leopardi” – di Agostino Ingenito

Le reali cause della morte del poeta, il 14 giugno 1837 a Napoli, e le bugie di Antonio Ranieri.
Le ultime ore di vita del recanatese, nel suo ultimo domicilio napoletano in Vico del Pero, ricostruite con particolari inediti. Fu stroncato dal colera e non certo per una congestione dovuta all’ingerimento di sorbetti e di confetti.
L’intervento del medico Mannella e del padre agostiniano Felice.

Il caso Leopardi. A 174 anni della morte (14 giugno 1837), ancora molti i lati oscuri sulle ultime ore di vita del recanatese, tra le “finzioni” di Antonio Ranieri, il depistaggio di alcuni e le verità nascoste sulle reali cause del decesso in una Napoli colerica e rivoltosa. Giacomo Leopardi era giunto a Napoli il 2 ottobre 1833. Ad accompagnarlo nella capitale del Regno dei Borbone, l’amico Antonio Ranieri.

La motivazione ufficiale era l’esigenza di giovarsi di un’aria mite e salutare. Della città Leopardi alterna giudizi entusiasmanti ad altri di autentica repulsione, non disdegnando, nelle lettere inviate al padre conte Monaldo, di citare molti episodi di vita quotidiana tra le difficoltà economiche, le incomprensioni e le truffe di alcuni editori, del noioso circolo letterario partenopeo, delle ambiguità del “fidato” Ranieri, non dimenticando le belle gite sul golfo e il profilo austero dello sterminator Vesevo.

Se è chiaro che, in quella Villa Ferrigno a Torre del Greco, il poeta avesse trascorso molto meno tempo di quanto fatto credere per anni, è altrettanto indubbio che il suo ultimo domicilio fu a Napoli in Vico del Pero 2. Lì anche la sua morte, sopraggiunta non certa per una congestione di sorbetti e confetti di Sulmona, inviati dalla sorella Paolina, come purtroppo ancora insistono alcuni, ma per la peste del momento, il terrificante colera che non diede scampo a Leopardi, consumato dal male, in quell’afoso giugno del 1837.

Nella vicenda del Leopardi due uomini soltanto brillano per la loro onestà: il medico Nicola Mannella e l’agostiniano scalzo, padre Felice; tutti gli altri disonesti, corrotti, corruttori, mentitori e falsificatori. Eppure, non si crederebbe, non c’è stato nessuno che non ha creduto in tutto o in parte alle menzogne di Antonio Ranieri che fu artefice decisamente di un’autentica messa in scena creduta per anni. Al momento del trapasso, sempre se è vero ciò che scrive Ranieri (perché di questi occorre prendere tutto con le molle), erano le ventuno italiane, vale a dire le cinque del pomeriggio. Ranieri lo ribadì nel 1845, poi in un “supplemento”, nel 1847, e infine nel Sodalizio nel 1880, sempre per sostenere che il suo amico non morì di colera e che la salma fu risparmiata dall’essere gettata nella fossa comune, mentre in realtà le cose andarono proprio così: il Leopardi morì di colera e la salma nella fossa comune andò a finire.

Con la complicità dei suoi familiari e della servitù, fin dal mattino del 14 giugno, per allontanare il sospetto che in casa sua ci fosse un coleroso, Ranieri fece sostare la carrozza con il cocchiere “Danzica” all’angolo del Vico Pero sulla strada di Santa Teresa, per far credere al vicinato che si era in procinto di partire per Torre del Greco, mentre invece il povero Giacomo stava morendo di colera.

Occorreva inventare qualche altra cosa, ed ecco che il Ranieri scrive che Leopardi la notte avanti il 14, aveva sgranocchiato tre libbre (963 grammi) di confetti di Sulmona e che, mentre stava in procinto di “partire” … per Torre del Greco, ingurgitava una specie di brodaglia alternata con un’abbondante granita fredda, cose impossibili per un ammalato di colera.

Scrive ancora il Ranieri che Leopardi era vestito e, nel frattempo, che lui era andato a chiamare il dottor Mannella, il cui compito, si badi, si limitò soltanto a poche convenevoli parole e le ultime furono: mandate a chiamare subito un prete, perché di altro non c’è tempo. Il medico, che pur lo aveva in cura da quattro anni, non disse di che male stava morendo il suo paziente che, a dire del Ranieri, meno di un’ora prima s’era seduto a mensa più gaio del solito.

La verità, come sempre, è una soltanto, e Antonio Ranieri si guardò bene dal dirla: egli voleva che il dottore gli rilasciasse un certificato dal quale doveva risultare che Leopardi non era morto di colera. E, dato il carattere irreprensibile del medico, dovettero volare anche parole grosse. Un altro battibecco avvenne con il frate agostiniano, venuto per assistere il moribondo che intanto era già morto.

A Padre Felice non importava di che male era morto il Leopardi e, dopo aver pregato al capezzale del defunto, scrisse il biglietto da servire al parroco dell’Annunziata a Fonseca per la registrazione nel libro dei defunti. Lo riportiamo dalle “Memorie” dello stesso Ranieri: “Si certifica al signor parroco, qualmente istantaneamente è passato a migliore vita il conte Giacomo Leopardi di Recanati al quale ho prestato l’ultime preci de’ morti: ciò dovevo, e non altro. Firmato padre Felice da Sant’Agostino, agostiniano scalzo“.

Poche ore e il messaggio viene cambiato dallo stesso Ranieri rimediando la prima bugia. Bisognava completare il tutto con un finto certificato medico che Mannella non aveva voluto sottoscrivere e cosi interviene il compiacente e antiborbonico Stefano Mollica che dichiarerà il falso. Come artificiosa è la storia di voler Leopardi trasportato per miracolo alla chiesa di San Vitale a Fuorigrotta e colà seppellito, sfuggendo al rigore della polizia borbonica. Niente di più falso. L’epidemia di colera, per la prima volta in Europa, ebbe inizio a Napoli il 2 ottobre del 1836 quando un doganiere del porto fu colpito dal male. Immediatamente furono prese tutte le misure per arginare il diffondersi del morbo.

Primo provvedimento, preso personalmente da re Ferdinando Il, fu il divieto assoluto di seppellire i morti, anche se deceduti per qualsiasi altra malattia, oltre che nelle chiese, in qualsiasi punto della città, se non in due precisi luoghi appositamente allestiti: uno a Poggioreale e l’altro in una vasta cava di tufo abbandonata, sita nella zona detta delle Fontanelle. All’ordine rigorosissimo e alla fitta rete di controlli fissi e volanti non sfuggì nessuno. Morti di colera e non, tutti nelle fosse comuni, nudi e nella calce viva. Al giugno 1837 i morti per colera erano stati circa ventimila.

Difficile credere che Leopardi, come cita Ranieri aiutato dai suoi fratelli Luca e Giuseppe, avesse potuto avere in poche ore una cassa da morte in noce, una targa in ottone con scritte in oro, tre carrozze con la bara di traverso in una, la compiacenza del parroco di San Vitale, che se ci fu per la falsa tomba, e non ultimo il lasciapassare dal feroce generale Francesco Saverio del Carretto, proprio colui che lo aveva fatto arrestare cinque anni prima, appena sceso dalla diligenza al suo rientro a Napoli, perché sorvegliato politico. Il Ranieri era tornato a Napoli per un indulto di Ferdinando II, a patto che doveva risiedere in Napoli e non oltrepassare la cinta daziaria

La verità sulla sepoltura di Leopardi verrà a galla soltanto sessantatre anni dopo, il 21 luglio del 1900, quando, finalmente, da una ricognizione risultò che la cassa conteneva due femori, altre ossa frammiste a terriccio e, non senza sorpresa, si notò l’assenza del cranio, la parte più nobile. Orrore! Si gridò allo scandalo, alla profanazione della tomba, alla sottrazione del prezioso cimelio. Quella cassa non racchiuse mai i resti di un corpo umano intero, tantomeno quello di Leopardi. Antonio Ranieri e i suoi parenti potettero inventare tutte le bubbole da raccontare ai gonzi, ma non poterono mettere nella cassa, perché impossibile a trovarlo, il corpo o un scheletro intero aventi le stesse caratteristiche del corpo del Leopardi doppiamente gobbo; né potevano introdurre nella cassa un teschio, facilmente identificabile tramite il calco della maschera rilevata dallo scultore Tito Angelini, dalla quale, poi, il pittore Domenico Morelli, ricostruì le sembianze approssimative del poeta e che i culturati chiamano “ritratto”.

Quale ritratto?! Quando morì il poeta, Domenico Morelli contava appena undici anni. Dalla cassa non mancava soltanto il teschio. Per le ragioni suddette mancavano ovviamente anche la colonna vertebrale e la cassa toracica, altri elementi dai quali sarebbe risultato evidente che i resti non erano quelli di Giacomo Leopardi. E alle tante balle se ne aggiunse un’altra: l’umidità della zona aveva disfatto le ossa che mancavano.

Se invece di una tomba falsa, il Ranieri, per onorare la memoria dell’amico, avesse elevato un cenotafio vero, proprio nel cimitero dei colerosi a Poggioreale o in quello delle Fontanelle, come avvenne per tanti uomini illustri, non avrebbe tolto alcun merito, né diminuita la grandezza del poeta, e non sarebbe passato alla storia per il più grande bugiardo e truffatore dell’Ottocento napoletano, e noi oggi, con l’approssimazione di qualche metro, sapremmo almeno il luogo esatto in cui fu sepolto Giacomo Leopardi, come sappiamo dove furono sepolti tanti uomini illustri, quali il grande incisore medagliere Achille Arnaud, il pittore olandese Antonio Sminck Van Pitloo, l’insigne musicista napoletano Nicola Zingarelli e tanti altri che non hanno nulla da vergognarsi per essere morti di colera.

 

Written by Agostino Ingenito

Studioso del pensiero leopardiano

 

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agostinoingenito@gmail.com

 

 

6 pensieri su ““Il caso della morte di Giacomo Leopardi” – di Agostino Ingenito

  1. MA dovevano vergognarsi per essere amanti… ed anche licenziosi… soprattutto Leopardi che confetti e granite ne prese, ma anche pidocchi, in compagnia di molti ragazzi napoletani…e questo è un altro mistero svelato…

  2. Io abito a Napoli(e dico “abito” perché dire vivere è offensivo e lesivo per la dignità di una persona)e di tante cose che abbiamo avuto l’onore di ospitare quella di Leopardi è fra le più significative.Non escludiamo sapienti francesi ed inglesi,pittori ed artisti attrattti dalla policromica versatilità di un popolo frutto di incroci genetici quanto mai belli ma deleteri.Mi duole che anche su questa grande figura la verità viene celata come un “monaciello”,un “corniciello” ,una manciata di sale.Mi vergogno.

  3. Prima di parlare del grande, unico ed intramontabile Giacomo Leopardi bisognerebbe effettuare una profonda detersione orale con detergenti di forte efficacia! Ritenerlo Poeta è alquanto dispregiativo in quanto lo si accomunerebbe a tanti rimatori da strapazzo che aspirano indegnamente a farsi eleggere poeti! Giacomo Leopardi é stato innanzitutto un grande FILOLOGO e questo certamente non sfuggi all’Editore Luigi Stella di Milano il quale di tanto approfittava affinché Giacomo recensisse lavori e saggi altrui per darne l’Imprimatur. Mi fermo. Ci sarebbe tanti da dire ma il tempo e lo spazio mi mancano.

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