Intervista di Teodora Mastrototaro al poeta Daniele Giancane: Poeti si è o si fa?
Daniele Giancane vive e lavora a Bari. Insegna all’Università di Bari.
È autore di numerose opere di poesia, critica letteraria e teatrale, letteratura per l’infanzia. Ha curato molte antologie di poesia e narrativa. Collabora a diverse riviste culturali e alla pagina culturale della “Gazzetta del Mezzogiorno”.
È direttore di tre riviste culturali: “La Vallisa”, “Future shock”, “Opinioni baha’i”. È assai vasta la bibliografia della critica attorno alle sue opere di poesia. È citato nell’Enciclopedia La civiltà letteraria in Italia (Utet) a cura di Giorgio Barberi Squarotti.
Per la sua opera di inesausta collaborazione con la letteratura dell’Est e jugoslava in particolare, ha ottenuto la cittadinanza onoraria dalla città di Nis e il premio Vuk (Belgrado, 2001). Sue opere sono tradotte in Jugoslavia, Albania, Spagna, Croazia, Slovenia, Canada, Malta, Cile, India.
Il suo volume La letteratura per l’infanzia in Italia (traduzione in serbo di Dragan Mraovic) è testo di studio nelle università jugoslave.
Daniele Giancane, come si evince da quanto letto, fa tanto nell’ambito professionale e culturale ma direi, prima di tutto, che Daniele Giancane è un poeta.
T.M.: A tal proposito ti chiedo, Daniele, in questa secolo durante il quale si ha forse la tendenza a immedesimarsi troppo in quello che si fa tralasciando la propria essenza di individuo, tu sei poeta o fai il poeta? Poeti si è o si fa? E c’è secondo te una differenza tra i due concetti?
Daniele Giancane: Devo dire che io mi sento completamente -totalmente (forse inevitabilmente) poeta, nel senso che il mio approccio al mondo è ‘poetico’. Significa che vedo il mondo attraverso il pensiero, le emozioni, i sentimenti, le relazioni umane. Attraverso la tensione verso l’altrove. Verso il segreto che si cela dietro le cose, dentro le persone, negli accadimenti quotidiani. A volte mi sento a disagio nel mondo,perché devo adattarmi a modelli, comportamenti, astuzie che io non ho. Faccio fatica a ‘stare nel mondo,per cui spesso sembro distratto (e passo per distratto), ma in realtà la distrazione è il momento di passaggio dalla meditazione (in me) al quotidiano (fuori da me).
Poeti si può solo essere. Poi, ovviamente, non sta a me dire se ciò che scrivo è mediocre, valido o molto valido. Penso -al fondo- che se un poeta lancia nel mondo dei versi validi, questi resteranno. Si tratta di energia: l’energia positiva non muore, ma si propaga.
Certo, c’è anche chi ‘fa’ il poeta, ma in questo caso è solo narcisismo e i suoi versi sono destinati a perdersi nelle cose morte del tempo.
T.M.: Tu, poeta, sai di poter essere l’accendino che sfregando il cervello e i sentimenti del lettore gli dà fuoco (permettetemi la metafora) Come vivi questa responsabilità? tu la senti come responsabilità?
Daniele Giancane: Sento, sin da ragazzo (sarà un’illusione, un sogno, una patologia, forse), che mi è stato dato un incarico. Un compito. Che il mio compito (e il senso della mia vita) è spandere nel mondo poesia, non soltanto la mia ma quella di tutti i poeti con cui vengo in contatto. Perché con la poesia devo lavorare per rimediare al vuoto dell’età moderna. In certo senso -come dice Heidegger- per aprire una radura e far ritornare gli dei fuggiti. La poesia provoca, fa pensare, mette finalmente in crisi.
In certi momenti fa intuire altre dimensioni. Davanti a una grande poesia,io tremo.
Sento che un segreto è stato quasi svelato. Che siamo vicini a una soglia.
Noi -i poeti- abbiamo il compito di rinverdire questo segreto.
T.M.: La lettura delle tue poesie, le parole da te scritte che, nel corso degli anni, sono cambiate, maturate insieme a te, sono lo studio da cui parte questa intervista. Cambiato e maturato è il tuo modo di percepire le esperienze della vita stessa di riflesso, visto che la Poesia è “La percezione della vita resa in versi” (questa è una mia personalissima visione),si è modificato, ti chiedo, il tuo modo di scrivere poesie? Come? Ci vuoi parlare della tua “evoluzione”?
Daniele Giancane: Ho sempre seguito due itinerari,quasi contrapposti eppure sempre esistenti nella mia anima: la poesia/metafisica e la poesia/sociale e credo che la mia poesia pencoli continuamente fra questi due estremi. La disposizione dello spirito è questa,ma naturalmente v’è un mutamento continuo nel linguaggio. Non so se però sia un progresso o un regresso. C’è chi mi dice che la mia poesia più autentica e coinvolgente era quella dei primi anni(anni Settanta). Io non lo so. Il linguaggio è divenuto più affilato ed esperto, ma sarà davvero -ripeto- più poetico? Bisognerebbe intendersi anche sul significato profondo di ‘poetico’. Non sarà che -come credo- il primo Ungaretti (più istintivo e immediato) è assai migliore dell’Ungaretti scaltrito degli anni successivi? E che il primo Montale (quello di “Ossi di seppia”) sia nettamente migliore di quello delle ultime raccolte?
T.M.: Tu sei un uomo che, come ha scritto Tommaso Fiore nella sua prefazione al tuo libro Vedere e non vedere (1969) è : “dolce e amaro”. Due estremi che leggiamo nella poesia contenuta nella raccolta “Ritrovarsi” (Vedere e non vedere, 1969)
“Hanno detto l’amore e la morte/ Il sogno e la via,/ e il dolore/ il piacere,/ la gioia e la malinconia./ Io non voglio dir nulla,/ voglio solo ritrovarmi,/ al diavolo marcus e mao/e buddha o cristo/al diavolo i feticci ossessi/ che sudano negli incubi,/ nel bivacco di una caverna/ e all’alba il solo giovane/splendore del mio rito a Dio;/ silenzio intorno delle cose,/ e la compagna sobria una cantilena intona,/ culla il vento le nuvole in cielo/e me seduto assorto/ sul corso del torrente.”
Sei un uomo che, ora, come tu stesso dici in una delle poesie della tua ultima raccolta, “La vita inconoscibile” , ha in sé “Il frammento e il poema”, come leggiamo nella poesia “Il frammento e il poema”
“In me/ il frammento e il poema,/ due facce/ della stessa verità.”
Se dovessi mentalmente disegnare questi due concetti “poetici” vedo la tua sagoma.. prima… con il concetto di dolce-amaro ai due estremi della tua figura, come se fosse uno alla tua destra e uno alla tua sinistra… al di fuori di te, poi… frammento e poema che coesistono a livello della tua pancia, dentro di te. E ti chiedo: Cosa ci dici in proposito? Sono una pazza visionaria ho qualcosa di vero c’è in questa mia immagine? E poi ti chiedo, ti sei ritrovato?
Daniele Giancane: La tua domanda mi dà modo di continuare il discorso appena iniziato. In effetti, da giovane ero affascinato da due concezioni opposte della poesia. Ci fu un dibattito serrato, negli anni Cinquanta, fra due poeti che amo molto: Juan Ramon Jimenez e Pablo Neruda: Jimenez affermava che la poesia è essenzialità, stringatezza, Neruda che è torrenzialità, passione impeto. Non ho mai saputo scegliere fra le due e quindi in sostanza le tengo in piedi ambedue. Hai ragione, entrambe le idee di poesia convivono in me, ma non me ne preoccupo: Pasolini aveva davvero ragione quando affermava che noi siamo contraddizione e che dobbiamo prenderne atto.
T.M.: Leggendo: Oli eterei: (Vedere e non vedere)
“Indicibile ansia di sopravvivere,/ provo voglia di evadere/ dal mio mondo d’argilla/innalzato/ come un trofeo senza vittoria,/ chiuso perpetuamente/ dentro l’erma/ spelonca dell’anima./ Sognare pascoli nudi dove/ perdere il senso di me stesso/ il corpo affogato tra i granuli/ oro di eguale altezza,/ confondersi all’umore sacro/ della madre terra, sciolti/ presente passato futuro,/ vicini e lontani, morti e vivi,/ muti e parlanti,/ castelli di/ sabbia leggeri librati nell’aria./ Il sole pare un martello/ se picchia in testa da fabbro,/ ma/ volerò diafano più in alto,/ sempre più in alto,/ sempre più in alto,/ fino al punto che compie la circonferenza.”
Qualsiasi giovane penso si riveda un po’ in questi versi. E ti domando: ora, riascoltando questi versi, profondamente giovani, hai per caso un sorriso di tenerezza? Malinconia? Cosa senti dentro di te? Il te poeta, intendo.
Daniele Giancane: Sì, certo, tenerezza per quel che ero allora. Per questi miei pensieri e sensazioni di allora, così sfumati utopici eterei. Per questo coacervo di desideri, sogni, ambizioni.
Tutto era possibile. Tutto doveva avvenire.
T.M.: A 20 anni ti sentivi un “ Animale di città”, come si legge nella poesia “Io”: “Io, signori, sono un animale di città,/ la mia tana è una stanza quattro metri per tre/ e il/ letargo dura tutta la vita./ Sono libero, voi lo sapete, libero di scorrazzare/ Come un puledro selvaggio nelle immense praterie del so-gno,/ sedermi all’ombra delle acacie di/ questo spiazzo assolato/ con gli amici antichi, abbruttite domestiche/ bestie d’abitudine a/ discutere di quando ce ne andremo/ di qui, luridi luoghi di tanfo, alla ricerca di lidi deserti/ dove finalmente saremo quelli che siamo./ (….)”
Un animale e la tua prateria era il sogno. Penso che per tutti sognare sia la maniera più semplice e sana per evadere un attimo o più attimi. E ti chiedo: Questo tuo sognare che è stato come errare ti ha portato ad essere quello che sei?
Daniele Giancane: Sì, io vivo nel sogno. Sembra una ‘boutade’, ma non è così. La mia vita del sogno è talmente ricca, avventurosa, bizzarra che spesso non vedo l’ora di addormentarmi per entrare in quel mondo. Spesso non so se un avvenimento l’ho vissuto o l’ho sognato.
Penso che la vita intera sia stata un sogno. E poi io vivo nel sogno perché i miei pensieri sono quasi esclusivamente ‘poetici’ nel senso di scrivere poesia, organizzare readings di poesia, vedermi con gli amici poeti. Ho anche scritto che valuto le persone dalla loro vicinanza o meno alla poesia. Dalla loro vicinanza al sogno.
T.M.: Della poesia “Un uomo” mi ha colpito molto il verso “Un volto non ha tempo” . Mi ha fatto subito pensare ad una cosa che ti voglio chiedere, anche se il mio pensiero si è distaccato dal senso della poesia. Ti chiedo, ma il volto del poeta ha –Tempo-?
Daniele Giancane: In effetti non lo ha. Una poesia -se è riuscita- è per sempre. E se è riuscita (ma questo, naturalmente, accade raramente) ha toccato un diapason che va ben oltre il tempo presente. È un momento di felicità assoluta. Di perfetta armonia con l’universo.
T.M.: Tu sei un uomo che vive di parola. Si sa che la parola ha un potere molto grande. Come la si usa. Quando la si usa. Con quale scopo la si usa. Potremmo parlare e riparlare di questo concetto. Parlare della parola. La forza della parola ed il fatto che a volte vengono usate per riempire di suono l’aria, tu lo denunci nella tua poesia “Parole” in cui scrivi:
“Parole, parole, parole./ Parole per la vita./ Parole pel dolore,/ parole nell’amore./ Parole/ intere, mozze,/ intelligenti o no,/ sensuali e colorite,/ strascinate,/ impettite,/ sputate,/ invelenite,/ dolci e amare,/ stupite,/ essenziali,/ rapite,/ oceani di parole/ che non esistono/ perché non sono mai/ esistite,/ perché non esisteranno mai,/solo questo ci resta, non filosofia e storia,/ solo parole soffi consolatrici di bava, nullità ridicole se si potesse ridere,dramma e poesia,/ parole.
Cosa pensi della forza della tua parola! Della tua poesia…? E di quella dei poeti, in generale?
Daniele Giancane: Penso-in generale-che le parole contano. Che quelle dei poeti e dei mistici cambiano il mondo.In fondo Socrate, Gesù, Buddha, Dante e Leopardi hanno detto o scritto semplici parole. Ma che sarebbe il mondo senza il discorso della montagna, senza gli apologhi di Socrate, senza la ‘dottrina’ di Buddha, senza la Divina Commedia?
Noi siamo parola e viviamo di parola. Io spero che la parola della mia poesia abbia forza di entrare nei cuori di chi la legge. Che lasci un’orma sonora, perché i poeti vivono (questo è il loro sogno) per lasciare un’orma. Per durare al di là del tempo loro concesso. E per far durare la memoria di ciò che hanno visto, che hanno provato, che hanno desiderato.
T.M.: Ci racconti la tua diffusione della parola ? della poesia? tu l’hai portata nelle carceri, nelle fabbriche, nei paesini. Chi ha vissuto con te questa esperienza come ha recepito la poesia e se è stata per loro un personale inizio di qualcosa? Raccontaci… Ci parli anche dei “poeti della vallisa”?
Daniele Giancane: Troppo ci sarebbe da dire. Posso sintetizzare che tutto questo (la mia idea di poesia e di impegno culturale) nasce dal Sessantotto, da quegli anni straordinari che sono stati una grande rivoluzione in tutti i campi. Pensavamo allora -sull’onda del bellissimo slogan ‘La poesia al potere’- che nostro compito (dei poeti) era di contagiare il mondo di poesia.
Portare la poesia ovunque. Io -anche se sono passati tanti anni- ci credo ancora. Cioè credo che un mondo con più poesia è un mondo più pacificato, in cui l’utopia si realizza. Un mondo più vero e a misura d’uomo (e di donna).
Così con il gruppo degli amici di ‘Interventi Culturali’ prima(1975-1980) e de ‘La Vallisa’ poi (dal 1981 ad oggi) ho portato la poesia nelle carceri, negli Istituti di cura, negli ospedali, nelle comunità di recupero, riuscendo a contagiare poesia. Molti di quei carcerati hanno scritto poesie. Alcuni sono giunti persino a pubblicare libri di poesia e comunque hanno trovato un significato nella loro vita tramite la poesia.
La mia utopia va ancora più in là: abbiamo recitato poesie nei cimiteri di guerra per ricordare quei giovani caduti per la follia umana. Abbiamo recitato poesie di fronte al mare -sul lungomare di Bari- per lanciare i nostri verso verso l’Albania, quando lì si stavano vivendo momenti assai difficili. Siamo andati ripetutamente in Serbia- con cui abbiamo un ventennale sodalizio (ci sono state anche delle tesi di laurea su questo) -anche quando la Serbia era chiusa dall’embargo, attraverso viaggi pericolosi e avventurosi, sotto le bombe.
“La Vallisa” è tutto questo: poesia come arma sociale e forma di pacifismo universale; cooperazione coi Paesi dell’Est, in primis; apertura ai giovani talenti poetici; comportamento di vita, insomma, non solo solitaria (ed elitaria) scrittura.
T.M.: Nel 1978 a Roma nasce il movimento chiamato :”Movimento poesia” per iniziativa di alcuni poeti (di quel periodo) di un determinato spessore che come obiettivo aveva lo studio e la diffusione della poesia, e ora ti chiedo, dopo quasi 30 anni e soprattutto in un periodo come questo che stiamo vivendo che, senza fare troppa morale, sia diverso da quello dei tuoi 20 anni, a che punto è lo -studio- e la -diffusione- della poesia, e soprattutto il -sentire- della poesia da parte dei giovani?
Daniele Giancane: I giovani sentono la poesia.D’altra parte la poesia è costituzionalmente giovane, essendo emozione, sogno, desiderio. Poeti anziani non ne esistono (se non per l’anagrafe): anche il poeta anziano resta giovane, nel suo mondo interiore. Piuttosto ci scontriamo con alcuni limiti, in Italia: qui l’insegnamento della poesia a scuola è mediocre o inesistente.
I giovani leggono poco la poesia, perché ritrovano l’afflatus poetico nei testi delle canzoni o in altri luoghi (chessò, in un bel film). I testi di poesia hanno circuitazione limitata, la grande editoria non crede nella poesia. Epperò ci sono gruppi, associazioni, comunità (di giovani e non) che portano avanti l’universo della poesia. E quando andiamo nelle scuole scopriamo che i giovani sono sempre affascinati dalla poesia.
T.M.: I mass media oggi si interessano al linguaggio della poesia ?
Daniele Giancane: Per nulla! Avete mai assistito ad una trasmissione di readings di testi poetici in televisione?Tranne le performances magnifiche di Benigni, di poesia non si parla, è tabù.
Quando chiesi al direttore di Rai3 della Puglia di aprire degli spazi alla poesia, mi rispose che non era possibile, perché la poesia non ha audience.Ma non potrebbe essere che la poesia non ha audience perché nessuno gliela propone? È un po’ lo stesso discorso del teatro: in TV ce n’è poco perché non avrebbe molti telespettatori. Ma insomma, è lecito misurare la cultura secondo il numero dei teleutenti? Con questo metodo neppure Shakespeare sarebbe stato preso in considerazione! La Tv(e la radio, i giornali) devono avere anche una dimensione culturale-educativa, se no sprofonderemo sempre di più verso i programmi spazzatura, che -certo- ottengono una grande audience.
T.M.: Il poeta come si inserisce nella società di oggi? gli incipit esterni di “un tempo” erano “più forti” e “motivanti” di oggi?
Daniele Giancane: Non credo sia cambiato molto. Il poeta è sempre visto come un diverso,uno che vive sulla luna,un folle o giù di lì. Nella società capitalistica (materialistica) dei nostri giorni, darsi alla poesia -ovvero ad un’attività che non dà denaro né gloria -è un atto trasgressivo, surreale. Forse oggi i giovani hanno più possibilità (Internet,Facebook) perlomeno di farsi sentire, noi negli anni Sessanta eravamo isolati, con pochi maestri (il mio è stato Tommaso Fiore) e nessun pubblico.
T.M.: Secondo te il poeta stesso rende poetica con il suo modo poetico di percepire la realtà una società che forse tanto poetica non è? (scusa il gioco ridondante di parole)
Daniele Giancane: Certo. La società non è poetica,è pragmatica. Però, se non ci fossero i poeti, sprofonderebbe nel buio. Quasimodo scrisse che senza poesia il mondo perirebbe.
Ne sono convinto. Che saremmo senza gli aspetti emozionali e artistici?
Il mondo lo hanno inventato i poeti. Le parole le hanno inventate i poeti. Chi ha inventato per primo la parola sedia o tavolo o mare? L’inventore di queste parole non può essere stato indistintamente il popolo: è stato qualcuno che era poeta. Che ha creato dal nulla le parole, che poi sono state recepite dal popolo, perché avevano una forza a cui non si poteva resistere.
T.M.: Ho notato nella tua raccolta “Sulla collina” (1980) una poesia, un linguaggio più “pulito” ma “non scarno”. Un modo più oggettivo di vedere la realtà. E’ una mia impressione o è così?
Daniele Giancane: Non saprei. Sai, la poesia è sempre interpretazione. Forse è vero, lì c’era uno sguardo quasi realistico di vedere la realtà, ma è un realismo che nasconde la visione dell’altrove.
Io in fondo non credo nel realismo. È sempre, anche la forma linguisticamente più ‘oggettiva’, una specifica visione del mondo. Lì magari era l’incantamento ritmico di una realtà, un monologo però anche sociale.
T.M.: Tu hai pubblicato nel 1982 “Il tempo rimasto. Canzoni popolari”, con l’augurio, da te stesso dichiarato nella prefazione, che il lettore possa –davanti al libro ritrovare qualcosa delle proprie radici-. Questo tuo augurio è stato l’incipit che ti ha fatto decidere di dedicarti ad un opera del genere o da quale altra pulsione sei stato spinto? E a tal proposito è doveroso chiederti dell’ultimissima tua pubblicazione “Poesie di rabbia sul Sud”.
Daniele Giancane: Il recupero della nostra cultura popolare mi è sempre stato a cuore.L’ho fatto-in versi-sia in ‘Il tempo rimasto’ che in ‘I santi in versi’, ma l’ho fatto anche su altri versanti come la pubblicazione di fiabe popolari pugliesi o come la riscoperta di personaggi teatrali o popolari pugliesi, come Don Pancrazio Cucuzziello o Coco Lafungia.
In generale penso che se è vero che dobbiamo andare incontro alle culture ‘altre’, contemporaneamente dobbiamo anche riscoprire la nostra fertile cultura. ‘Poesie di rabbia dal Sud’ riunisce poi versi di diversi autori pugliesi che hanno in comune il tono arrabbiato, malinconico, amaro sulla condizione meridionale. Mi è sembrato utile, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, dare un segno di vitalità: i poeti quaggiù ci sono e hanno armi affilate. E rileggono la storia meridionale e contestano la prevaricazione del Nord rispetto al Sud, sempre emarginato e colonizzato.
T.M.: La donna più bella per un poeta è la poesia? E lo sposo ideale della poesia chi è?
Daniele Giancane: È il verso. Risponderei con l’epitaffio che si trova sulla tomba di un grande poeta serbo: “Mi ha ucciso il verso troppo forte”. Ecco qual è lo sposo ideale della poesia.
T.M.: Da “Il resto del falò”(1990): Questo titolo è per me molto bello. A me piace pensare per immagini che racchiudano un senso che poi è personale e questo titolo mi ha fatto venire in mente: un falò. Un fuoco che arde si sa che via via si consuma. Il falò tende a spegnersi. Ma. sotto sotto sotto rimane comunque sempre un po’ di cenere che se alimentata fa riaccendere il falò. E poi ho pensato al poeta. Tutta questa passione che arde, nel momento in cui si scrive in un certo senso si “spegne”. La si regala. Ma dentro se rimane sempre quella fiammella che se alimentata … diciamo da… un nuovo ..inizio .. esplode nuovamente in una nuova poesia.
E ti chiedo: Il falò come il poeta?
Daniele Giancane: Sì, mi sembra una metafora azzeccata. Il poeta è un falò che non si spegne mai. Che non si può spegnere, perché il poeta è costituzionalmente così. Il suo compito è donare agli altri la sua energia cosmica. Il poeta è l’unico -in una società. Dello scambio ‘utile’-ad offrire un dono disinteressato.
T.M.: Una poesia, “Non credo alla mia età”, mi ha riportato alla mente una definizione fatta alla tua poesia da Angela De Leo nell’introduzione del tuo ultimo libro “La vita inconoscibile”: “Una poesia che non nasce dalla turbolenza dell’eccitazione ma dal torpore di un anima incantata”
“Non credo alla mia età:/ fuggirono gli anni/ come jet/ che luccica nel vento/ Ma io sono/ ancora un fanciullo/ che si incanta al verde più verde/ del noce del convento/ ingiurato dal tempo./ Si inumidiscono gli occhi/a un verso tenero/ come sul greto/ un fruscio d’acque.”
E ancora a ciò che è stato detto di te in un articolo non molto tempo fa: “Poeta, non solo perché scrive poesie, ma anche perché sa guardare la realtà in mille modi diversi e la sa vivere come un grande appassionato di avventure fantastiche.” E ho pensato… la poesia… è del 1990!.. è stato definito così ora, quindi il tuo animo da poeta non’è cambiato?
Daniele Giancane: Ti dico una mia convinzione:nessuno cambia mai del tutto. Io sono ciò che ero quando avevo tre anni. L’input della mia anima è sempre quello. E forse il compito del poeta è quello di recuperare il segreto dell’infanzia. Forse il poeta mette a fuoco costantemente ciò che è stato/ciò che è, perché la profondità dell’anima è misteriosa. Sono ciò che so, sarò ciò che sono, nel profondo (poi possono mutare atteggiamenti, gusti, scelte, ecc.)
T.M.: Daniele, cosa saremmo senza la poesia??? Cosa saresti, aggiungo io, senza la poesia?
Daniele Giancane: Credo nulla. Per noi poeti la poesia è tutto, al punto che la vita quotidiana stessa è una sorta di ancella della poesia.
T.M.: Tu dici sempre che: la poesia è come un messaggio in una bottiglia. La lanci, la bottiglia, e non sai che fine farà. Da chi verrà pescata. Letto il messaggio. Se mai verrà trovata. Questo per me è un concetto bellissimo. E ti chiedo… vuoi aggiungere qualcos’altro? La tua bottiglia è stata… continua tu…..!!! presa???…..
Daniele Giancane: Sì, credo che la poesia sia questa cosa leggera, quasi inconsistente, però fortissima, per la quale si può vivere e ci si può uccidere (dalla Rosselli a Silvia Plath). Spero che la mia bottiglia sia stata captata da qualcuno. Anzi, ne sono certo.
T.M.: Daniele, cosa ti senti di dire a tutti quei giovani che vogliono fare poesia?
Daniele Giancane: Credeteci! Credeteci contro tutto e tutti. Contro il mondo e contro tutti coloro che vedono soltanto ponti da costruire, aumenti di stipendio e vacanze sulla neve. Credeteci contro l’editoria che non vi pensa, contro i media che vi ignorano. Ma poi non pensate che la poesia sia solo comunicazione. No: è sudore, impegno, letture, confronto, meditazione.
È un cammino impervio. Come quello degli eremiti. Ma alla fine -e durante il percorso- proverete gioie inenarrabili.
T.M.: Cosa pensi della diffusione della poesia attraverso il web? pro e contro, se ce ne sono.
Daniele Giancane: Non sono né a favore né contro. Dico solo che non dobbiamo confonderci:il web può essere un’ottima forma di comunicazione,ma nulla al di là di questo. Leggo poesie sul Web, che quasi sempre sono delle sciocchezze. No, c’è bisogno -per fare poesia- non di narcisismo, ma di confronto serio con gli addetti ai lavori. Di dialogo e studio. Mettere una propria poesia sul web non significa nulla.
T.M.: Daniele, ti va di lasciarci con un verso scritto apposta per noi?
Daniele Giancane: Solo lo specchio ci rifrangerà l’immagine/ci dirà se poeti siamo sul serio/o cumulidi parole senza senso.
Written by Teodora Mastrototaro
Condivido tutto quanto detto dal Poeta. Aggiungo: poesia è stringatezza e torrenzialita’ verbosa. L’essenziale è che ciascun “verbum” sia ‘stringato’, cioè quello giusto in modo stretto nel luogo dove è stato messo. Che non vi siano ridondanze inutili. Per me poetare è partorire o evacuare, a seconda del risultato finale, che deve trasmettere l’emozione che ti ha spinto a scrivere, altrimenti, se non ci fosse stata, avresti fatto altro. Non provocare senza motivo, ma lasciare che il tuo impeto causi un cambiamento, in altri, dopo che ha cambiato te. Il poeta si evolve sempre, più della media degli altri, perché reagisce più spesso e con più anima agli stimoli esterni. E dirò di più: continua a mutare anche dopo morto, allorché viene letto. Ogni volta è un micro messaggio cardiaco che rianimerebbe una mummia tolteca. Chissà cosa diresti di tutto ciò, caro Paul (Valery) e maestro Jorge (Borges)….