Agosto è il mese in cui il tempo rallenta, si allunga tra le ombre lunghe del pomeriggio e le onde che battono piano, come un metronomo stanco. È il mese in cui la nostalgia s’incolla alla pelle insieme alla salsedine e si riaprono vecchi dischi con le copertine rovinate dal sole.
Brian Wilson Beach Boys
È un mese perfetto, se mai ne esistesse uno, per ricordare Brian Wilson, scomparso l’11 giugno 2025, a un passo da quegli 83 anni che sembravano impossibili, eppure alla fine troppo pochi.
Wilson non è stato solo il cuore deiBeach Boys, è stato l’architetto della California dei sogni, il demiurgo che ha scolpito un’America ideale fatta di onde, armonie vocali, hot rod e malinconie sommerse.
Dietro la leggenda, l’uomo era un intreccio di luce accecante e ombre dense: la sordità a un orecchio, forse dono amaro di un padre brutale; le droghe come scorciatoie per viaggi interiori vertiginosi; la psicosi e i fantasmi che spiavano da dietro le tende mentre i nastri giravano.
Ma tutto questo è solo cornice. Il vero centro gravitazionale di Brian Wilson è la musica. Un flusso continuo, profondo e sorprendente che dal 1962 a oggi non ha mai smesso di parlarci, di stupirci, di consolarci.
Fin dai primi bagliori di Surfin’ Safari o In My Room, Wilson scriveva canzoni che erano polaroid dell’anima adolescenziale americana, ma anche minuscole sinfonie pop. I Beach Boys divennero in breve l’ideale americano tradotto in canzoni da due minuti e mezzo, destinati a rimanere inchiodati nella memoria collettiva. Ma mentre il mondo ballava “Fun, Fun, Fun“, Brian aveva già iniziato a guardare altrove.
E fu proprio in quel momento, con i Beatles in arrivo, la competizione che si faceva ossessione, che Wilson si chiuse in studio e scoprì la sua vera voce da adulto. A fianco della Wrecking Crew (musicisti turnisti che in quegli anni suonavano con i più grandi musicisti dell’epoca) e di un pugno di parolieri ispirati, cominciò a costruire paesaggi sonori che si spingevano ben oltre la sabbia e il surf.
Con Pet Sounds, Wilson cambiò le regole. Creò un album che ancora oggi è considerato uno dei vertici assoluti del XX secolo, un diario emotivo musicato con la grazia di un’orchestra da camera e la precisione di un alchimista pop. Wouldn’t It Be Nice, God Only Knows, Caroline No… Ogni nota era una confessione, ogni armonia un abbraccio. Paul McCartney non ha mai nascosto la sua ammirazione: “La canzone più bella mai scritta”, disse di God Only Knows. E chi siamo noi per contraddirlo?
Poi venneGood Vibrations, il singolo-mondo, la canzone-puzzle. Wilson la montò come un film di Kubrick: sezioni, take, intuizioni incastrate fino alla perfezione. Voleva che il pop diventasse arte, che fosse un’esperienza sinestetica. E ci riuscì. Ma il sogno successivo, Smile, si ruppe sul bordo della sua stessa ambizione. Troppo grande, troppo bello, troppo fragile per l’industria e per la sua mente in bilico.
C’erano baracche musicali, risate registrate, elementi della natura, suite sul destino dell’America. C’era Surf’s Up, forse il suo capolavoro assoluto, l’elegia postmoderna di un’intera generazione. La cantò davanti a Leonard Bernstein, emozionando anche il rigore classico della TV americana. Ma le crepe nell’anima si allargavano, e Smile restò sepolto per decenni.
I Beach Boysproseguirono, con Dennis e Carl che col tempo si fecero avanti, lasciando in quegli anni ’70 e ’80 alcuni album bellissimi e sottovalutati. Brian andava e veniva, prigioniero di un medico-carceriere, poi finalmente libero e di nuovo creativo. Il suo Love You del ’77 era strano, sincero, perfettamente Wilsoniano. Le macchine cominciavano a cantare come gli esseri umani, ma sempre con armonie celestiali in sottofondo.
Negli anni 2000, la giustizia poetica: SMiLE rinasce. Wilson, ormai più fragile ma sempre geniale, lo incide per davvero, vince un Grammy, torna in tour. Lo fa anche a Boston, lo fa davanti a un pubblico che non smette di amarlo, anche quando deve essere accompagnato sul palco, anche quando la voce non è più quella di un tempo. Perché il cuore, quello sì, non lo ha mai perso.
E ora? Ora che anche l’ultimo fratello Wilson se n’è andato, il falsetto limpido di Brian vive ancora. Nelle cuffie di chi cammina sul lungomare, nei DJ set notturni, nelle playlist che qualcuno mette per accompagnare un viaggio d’estate. È agosto, e anche se le spiagge si svuotano piano, le sue canzoni restano lì, sospese come aquiloni sulla costa del tempo.
Brian Wilson è stato un genio silenzioso, un compositore che guardava dentro l’anima, uno che ha trasformato la tristezza in bellezza, la semplicità in meraviglia. Uno che ha dimostrato che l’amore non ha bisogno di spiegazioni, ma solo di accordi giusti.