“L’uomo è morto” di Wole Soyinka: il memoriale del più occidentale degli artisti africani
“Ho udito il suono con molte diverse voci del passato e del futuro. Mi è sembrato che questa sia davvero la condizione sociale della tirannia: l’uomo è morto, un cane è morto, la faccenda è morta. L’uomo muore in tutti coloro che conservano il silenzio di fronte alla tirannia.”

“L’uomo è morto” del nigeriano yoruba Wole Soyinka, il maggior drammaturgo africano Premio Nobel per la letteratura nel 1986, è considerato una pagina che va a collocarsi nel museo degli orrori del nostro non lontano Novecento.
Nasce come opera di denuncia di un uomo, attivista nel suo Paese, che è stato imprigionato alla fine degli anni Sessanta. Egli ha quindi patito torture fisiche e mentali in prima persona, e si è proposto di condividere col lettore quei “brogli elettorali” che avvenivano in Nigeria.
A cinquant’anni dagli avvenimenti e ad una trentina dalla prima pubblicazione, la casa editrice Calabuig ne ha dato alle stampe una nuova edizione, con una Prefazione dello scrittore e giornalista Oreste del Buono e un testo “appassionato” di Luigi Sampietro, professore di lingue e letterature anglo-americane presso l’Università degli Studi di Milano.
La traduzione dall’inglese è di Carla Muschio, che credo sia riuscita a rendere la scorrevolezza di una prosa sempre accorata che, nel suo incalzare, assorbe totalmente e non concede tregua.
Questo diario di prigionia, se così lo possiamo chiamare, pone subito di fronte ad un uomo, uno scrittore, che ha fatto una scelta ben precisa, ovvero quella di stare dalla parte degli oppressi. E un letterato famoso in tutto il mondo, che si schiera apertamente, non può di certo passarla liscia. Il suo atto è reputato pericoloso, e porta a delle conseguenze.
Nel 1967 infatti, Wole Soyinka – vero nome Akinwande Oluwole Soyinka, classe 1934 – viene arrestato. L’intenzione è quella di togliere dalla circolazione un intellettuale che ha la possibilità di denunciare ai giornali la tragedia che incombe sulla Nigeria, ponendo l’accento sulla corruzione e rinfacciando gli eccessi.
In una sorta di racconto che appare come un studio sull’umanità, lo scrittore parla della sua esperienza di carcerato, a partire dall’arresto; degli interrogatori e del suo essere detenuto in condizioni disumane e per ingiusta causa. Non manca anche la parte che lo vede in cella d’isolamento, a fare lo sciopero della fame, e ad inventarsi mille espedienti per poter fare ciò per cui è portato: mettere tutto nero su bianco, affinché altri uomini possano usufruire di queste vicende.

Il dominio di sé e soprattutto sul suo corpo, appare come una grossa conquista, un motivo per cui rallegrarsi. La storia non di un prigioniero qualunque, quindi, ma di un uomo che è divenuto il simbolo di una nazione e il “paladino della libertà”.
“L’uomo è morto” appare come un dossier interessante sulle barbarie subite durante la guerra nigeriana, nel periodo che va dal 1967 al 1969: gli anni della prigionia dell’autore. Wole Soyinka non ha mai smesso di denunciare il marcio del sistema politico, anche se negli anni si è dedicato alla poesia e soprattutto al teatro. Condannato addirittura a morte, in contumacia, e perseguitato dal dittatore nigeriano Sani Abacha, oggi vive negli Stati Uniti.
Come scrive Luigi Sampietro, nel suo commento introduttivo all’opera: “La saggezza di Soyinka è quella di chi guarda a un passato dissolto dalla barbarie di coloro che credono di poter accumulare il potere al modo in cui si accumulano le ricchezze; ma non si avvedono che, quando il potere di un uomo sopra un altro uomo è assoluto e arbitrario, chi è a rischio di disumanizzazione non è il prigioniero”.
Sono gli usurpatori, semplici pedine di una storia che li ha colti sconfitti.
Written by Cristina Biolcati