“Song of All Ends” film di Giovanni C. Lorusso: sul campo profughi palestinese di Beirut
Il Trieste Film Festival è alla sua 36ª edizione, quest’anno in particolare il tema centrale è dedicato alla famiglia in tutte le sue sfaccettature, contemporanee e non.

“Song of All Ends” di Giovanni C. Lorusso è uno dei film in gara nella speciale sezione del Premio Corso Salani del Trieste Film Festival.
Giovanni C. Lorusso oltre ad aver curato la regia è stato anche sceneggiatore e direttore della fotografia. Protagonista de “Song of All Ends” è una famiglia di sei persone che vive nel campo profughi palestinesi di Shatila a Beirut, sedici mesi dopo la terribile esplosione del porto.
La capacità di osservazione e creativa del regista non smentisce mai le sue qualità espressive, in questo film filo conduttore della narrazione un elemento imprevisto che si palesa sin dalle prime immagini: un orsacchiotto di peluche, protagonista silente degli eventi che si manifestano in questa quotidianità di distruzione e guerra, e della sua esistenza in questa traccia di vita.
La prima inquadratura dell’orsacchiotto lo riprende tra le mani della sua prima padroncina o compagna di giochi, Houda, poi il buio totale, l’oscurità della morte e il sopravvissuto peluche a terra trovato da un piccolo gattino. L’orsetto è lì disteso supino su di un terreno arido, solo: lei non c’è più. Houda è morta, ma sempre presente nei pensieri della famiglia, torturati in questo dolore che esaspera la loro anima, anche se lei sembra guidarli con una presenza che si manifesta nella loro quotidianità come una guida amorevole.
“Perché Dio ha tenuto tutti e portato via Houda? Così ho detto a Dio: è finita tra me e te. Io non ti conosco e tu non conosci me. E questo è ciò che è successo. E a oggi siamo ancora in cattivi rapporti.”
Nonostante il tema spinoso e violento le immagini che ci dona il regista hanno una forza attrattiva, riuscendo così a catturare l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine, in un sospeso di vita dove tutto scorre tra le macerie, in una continuità di sopravvivenza tra galline da sfamare, pneumatici da trasportare in una lotta che sprona alla volontà di ritorno alla vita e nella volontà di abbandonare macerie materiali e morali per ricostruire un futuro nuovo, dal dolore della sottrazione e della perdita di una figlia e dal dolore incolmabile che li travolge in una sofferenza vortiginosa.
“Occhi miei, non gettate via il vostro sguardo stupito verso i raggi incandescenti della vita. Dormite, copritevi nel buio profondo, occhi miei. Non sopprimete la vostra forza abituale, perché vi mostrerò una luce più luminosa. E attraverso la notte tutto sarà più chiaro.”

Il contrasto del bianco e nero si sussegue come la lotta tra il bene e il male, con questo spiraglio di luce che contraddistingue le inquadrature, con il cielo che dona raggi di luce come filo di speranza. Poi si intraprende il viaggio, in fila, uno alla volta, con i bagagli stretti in mano, fuoriescono dalle mura distrutte per avvicinarsi ad un vecchio furgoncino che li condurrà lontani.
Il viaggio mostrato ne “Song of All Ends” è caratterizzato sempre dal contrasto del bianco e nero, esasperato però dalla luce del manto della neve caduta e ancora immacolata; neve che li accoglie nella nuova destinazione, nella sua totale purezza e nel candore che la contraddistingue, così come l’immagine finale, che si contraddistingue per una tonalità calda, in contrasto con le precedenti, della bambina che si addormenta abbracciando il piccolo orsacchiotto compagno di giochi e avventure, in quel tenero abbraccio che dona conforto e protezione e segno di speranza per un futuro rinnovato ricco di serenità.
Written by Simona Trunzo
Info
Leggi il programma del Trieste Film Festival 2025