“La morte corre sul fiume” film di Charles Laughton: storia vera di un manipolare psicopatico
“Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi travestiti da pecora, ma che dentro sono lupi feroci. Li riconoscerete dai loro frutti.” ‒ Matteo 7,15-20
Tratto dall’omonimo romanzo di Davis Grubb pubblicato nel 1953, “The Night of the Hunter”, “La morte corre sul fiume” di Charles Laughton lascerà una traccia profonda nella filmografia di genere grazie anche alla superba performance di Robert Mitchum, capace di donare un fascino sinistro e distorto a un manipolatore psicopatico che sembra portare sigillata nel corpo una tara ereditaria sul punto di scatenarsi, reclamando il suo spazio nel copione della vita.
Se possiamo definire iconici quei personaggi al tempo stesso reali e metaforici che, accorpando caratteri fisici e narrativi, sono destinati a rimanere nella memoria cinematografica condivisa, allora il pastore Harry Powell rappresenta una sorta di quintessenza dell’iconicità.
Ispirato a una storia vera (quella di Harry Powers, condannato per l’omicidio di due vedove e tre bimbi a Quiet Dell, Virginia Occidentale, e giustiziato nel 1932 nel penitenziario di Moundesville, città natale e dimora dello stesso Davis Grubb), il nucleo narrativo del romanzo (e del film “La morte corre sul fiume”) ruota intorno a un bottino di diecimila dollari, frutto di una rapina a una banca che il colpevole, Ben Harper, affida a suo figlio John, affinché lo nasconda e lo custodisca.
Dopo l’arresto Ben Harper, sulle tracce della refurtiva si pone il “reverendo” Harry Powell, compagno di cella di Harper, un sedicente predicatore che si diletta a irretire e sedurre giovani vedove per poi ucciderle e derubarle. Stessa sorte capita alla moglie di Ben Harper Willa (a cui dà corpo e sentimenti Shelley Winters), ma il piccolo John e sua sorella Pearl, grazie all’aiuto di Rachel, una donna che ospita i trovatelli nella sua fattoria, riusciranno a sfuggire al Predicatore, facendo fallire il suo progetto criminoso.
Girato in meno di un mese, prima e unica prova dietro la macchina da presa dell’attore Charles Laughton (interprete nella sua carriera di alcuni indimenticabili personaggi cinematografici, dal viscido Capitano Bligh ne “La Tragedia del Bounty” di Frank Lloyd, del 1935, a Quasimodo in “Notre-Dame” di William Dieterle, del 1939), “The Night of the Hunter” è un apologo sulla dimensione salvifica dell’infanzia, un regno a parte in cui la dimensione temporale non coincide con quella lineare di passato, presente e futuro; in tal senso, il prologo ammonitore della pellicola che abbraccia il lieto fine, sorregge un universo narrativo che “si contrappone al mondo della verità, e appunto perciò le assomiglia tanto quanto il caos alla creazione perfetta” (Novalis, Frammenti 1258).
È il patrimonio della fiaba, con il suo ventaglio espressivo che rinvia ad archetipi universali, quello proposto da Laughton; dall’eroe positivo (il piccolo John) all’antagonista (il Predicatore), fino al donatore (Rachel, interpretata dall’ex star del cinema muto Lillian Gish, che alla fine regala al bambino-eroe un orologio, quasi a simboleggiare, con quel dono, l’entrata in un nuovo tempo, quello dell’età adulta).
La prospettiva dei bambini è l’occhio del regista, una prospettiva che rende giustizia al romanzo di Grubb, in cui significativamente si legge: “Che Dio salvi i bambini! Perché per ciascun bambino c’è un momento in cui gli è forza correre per luoghi bui, per via senza uscite, con un cacciatore che l’insegue facendo risonare sulla pietra i passi dietro di lui. Per ognuno di loro c’è un Predicatore in caccia a spingerli giù per il buio fiume della paura. Essi resistono”. E la “resistenza” di John è il sottile filo rosso che si dipana attraversando i novantatre minuti della proiezione, una pellicola dai contorni espressionisti, con una monocromia che esalta certe sequenze rendendole quasi magiche, come quella, celebre, che immortala la fuga dei due bambini attraverso il fiume, con i primi piani sugli sguardi degli animali, mentre il fiume fluisce come il sangue della terra, a simboleggiare l’inesorabile scorrere del tempo.
Ma se “il regno dei bambini” è il contesto metaforico sia del romanzo sia del film, l’incombente aura di severità morale rimanda alle atmosfere di certa narrativa americana dell’Ottocento, in particolare alla “Lettera Scarlatta” di Nathaniel Hawthorne.
Ambientato in Virginia, la prima colonia britannica fondata dai puritani, profondamente anticattolica e impegnata a inseguire la purezza fino al più minuzioso dettaglio, nella pellicola “La morte corre sul fiume” alligna un rigore ipocrita che prende carne nel “reverendo” Powell (un circuit rider alla John Wesley, il predicatore itinerante fondatore della Chiesa Metodista Episcopale), col suo accento sull’infallibilità della Bibbia e sul rapporto personale con Dio (“Che religione professi, pastore?” gli viene chiesto a un certo punto. “La religione che Dio e io abbiamo elaborato fra noi”, è la laconica risposta di Powell). È la sessualità, il tabù, l’oscura forza del male che corrompe e insudicia (“Aiutami, oh Signore, a diventare pura come Harry mi vuole!”, invoca a un certo punto Willa Harper). Una sessualità inesorabilmente associata alla lussuria, il peccato capitale per antonomasia dei puritani riformisti, per i quali l’unica giustificazione al sesso è la procreazione.
Con indosso l’abito clericale e il cappello da puritano, con la Bibbia in una tasca e il coltello a serramanico nell’altra (“Io non vengo con l’ulivo, ma con la spada”), Harry Powell si aggira fra i villaggi predicando la morigeratezza dei costumi, mentre i suoi sermoni sono parabole allegoriche sull’eterna lotta fra bene e male nella storia della vita. La macchina da presa inquadra le sue mani, e quando leggiamo la parola Love tatuata sulle nocche della destra e la parola Hate su quelle della sinistra, il Predicatore diventa quasi un’icona ascetica, evocando una posizione manichea che, insieme alla malcelata misoginia che serpeggia qua e là (“Le donne sono sciocche”, è locuzione ricorrente, nel film), arricchisce la complessa polifonia della pellicola.
Il lungo prologo che precede la cattura del Predicatore è uno dei picchi lirici del film, con Laughton che sceglie l’inno religioso “Leaning on everlasting arms” per contrappuntare l’incombente senso di prossimità al baratro fisico e metafisico. Powell e Rachel lo cantano insieme (con la donna che aggiunge “Jesus” al canto salmodiante del predicatore), e sembra quasi che il Bene e il Male si tengano per mano, riconoscendosi e riconoscendo l’indispensabilità degli opposti nell’eterno fluire del tempo, con il satanico impegnato a operare nella terra di mezzo, in tutto ciò che sta fra la luce e l’ombra, nell’ambiguità, nella duplicità delle cose.
Ma ormai siamo al redde rationem, e la notte del cacciatore del titolo originale sorprende il falso profeta, che trova in Rachel l’opposizione di una forza contraria altrettanto risoluta. Ormai, per lui, il tempo della mistificazione è terminato. Ma questo tempo, l’antico tempo oscuro che scorre come un fiume, reca ancora con sé l’odio, che, fluttuando nell’aria, l’ammorba. E allora ci pensa John, a spezzarlo simbolicamente. John, che sembra l’unico a sottrarsi al giogo dell’eterna contrapposizione, e che al momento dell’arresto non vuole che si usi violenza contro Powell; John, che al processo contro l’assassino della madre non giudica il pastore (“Non giudicate se non volete essere giudicati” Matteo 7, 1-5), interrompendo, con il perdono, il ciclo della violenza.
Il piccolo John, che “sopporta e resiste”, e che da quel momento potrà dormire tranquillo, perché il “cacciatore notturno” si è dissolto, e non tornerà più a turbare i suoi sogni.
Written by Maurizio Fierro