L’arte astratta nel ventunesimo secolo: a spasso con Murakami, Cattelan ed Abramović
“Per quanto una situazione possa sembrare disperata, c’è sempre una possibilità di soluzione. Quando tutto attorno è buio non c’è altro da fare che aspettare tranquilli che gli occhi si abituino all’oscurità.” – Haruki Murakami
L’arte astratta nasce dal bisogno di evadere da una realtà che sta(va) letteralmente schiacciando l’umanità. Con l’avvento del ventunesimo secolo e di tutti i disastri che ha trainato con sé, gli artisti hanno percepito la necessità impellente di distaccarsi dal vero.
Nascono così le avanguardie e con esse la diffusione del cinema, per molto tempo considerata arte minore assieme alla fotografia. Questo nuovo modo di creare spaventa i tradizionalisti, che vedono nella perfezione estetica l’unico modello da seguire per eccellere.
Il 1910 è un anno profetico, infatti Kandinskij, il padre dell’astrattismo, termina in agosto la sua opera Lo spirituale nell’arte. Questo scritto non è però da considerare un trattato di tecnica pittorica né una dichiarazione di poetica, ma si può valutare più come una bibbia del nuovo modo di fare arte. Infatti la pittura non è mai stata la raffigurazione dell’esteriorità, ma si è sempre posta come l’interpretazione dell’interiorità durante la contemplazione della natura o della vita ‒ concreta o astratta che sia.
Arte e misticismo, colori e filosofia, sentimenti e intuizioni si sovrappongono per dare vita a qualcosa di tangibile, percepibile con i sensi. Dunque la Creazione appare come traduzione, passaggio e trasformazione dell’interiorità in esteriorità. Da questo punto di vista, quindi, la pittura non ha bisogno di riprodurre forme, bensì di ricostruire concetti ‒ o perdizione di essi. Per questo motivo tutta l’arte è astratta.
L’arte astratta, e dunque l’astrattismo, nel senso stretto della parola, si può valutare come arte non figurativa, proprio per la mancanza di riproduzione di immagini reali, a differenza delle altre forme di pittura che raffigurano oggetti o situazioni concrete, che però vengono sempre filtrati dalla mente umana. L’astrazione appare come il fondamento dell’arte stessa, il meccanismo attraverso cui qualcosa di reale viene riprodotto con una visione soggettiva.
La crisi esistenziale che ha condotto i geni primo-novecenteschi ad interessarsi ad una forma d’arte astratta slegata dalla realtà in senso stretto sembra essere ritornata in tutta la sua veemenza proprio negli ultimi anni. Cent’anni dopo, l’idea rivoluzionaria dell’arte astratta è arrivata al suo massimo potenziale, divenendo semplicemente concetto.
Questa innovazione si avverte nel presente in numerosi ambiti: nel cinema, nelle serie tv, nella letteratura, nella musica. Tutti questi settori hanno in comune un elemento essenziale: non c’è più la ricerca del verosimile, bensì la ricerca del concept. L’arte diventa performance, è un’esperienza che non ha confini definiti, ma è un flusso continuo che miscela e unisce, separa e allontana. L’arte fluisce nel gioco, il gioco diviene esperienza emotiva, l’emotività si trasforma nell’obiettivo finale dell’opera.
Per chiarire bene questo panorama, basta ricordare Comedian di Maurizio Cattelan, l’opera di arte astratta consiste in una banana appesa al muro grazie a del nastro adesivo grigio. L’idea ha provocato scalpore, alcuni l’hanno considerata uno scherzo. Altri hanno commentato sostenendo che chiunque è in grado di poter “realizzare” un progetto del genere e che per questo non è classificabile come arte. Ma la base della creazione non è il manufatto in sé, ma il concetto che c’è dietro, l’emozione che trasmette. L’arte è fatta per stupire, per indirizzare verso il dubbio, per mettere in discussione la realtà.
Così, nel campo della frammentazione del vero si posizionano tutti gli artisti odierni che non vogliono schematizzare le proprie opere in confini definiti, ma scelgono di mescolare e distruggere la finzione, non mirando a seguire una trama ma divagando, gironzolando, persuadendo e buttando via.
La letteratura di Haruki Murakami appartiene sicuramente all’astrattismo moderno, difatti le sue storie hanno un potenziale realistico che però contiene dei vortici di magia, profetismo e incomprensibilità. I personaggi sono immersi in un alone da sogno, ma vivono nella tangibilità. Spesso, come A sud del confine, a ovest del sole, finiscono in un inspiegato che lascia turbati, proprio come quando si osserva un dipinto di Pollock. Ma Murakami non vuole creare una trama e soddisfare la curiosità del lettore, lui desidera solo portare in scena l’incomprensibilità della vita. Il mondo capitalista odierno, nato sulla scia del Positivismo, crede di avere in mano le chiavi di ogni verità, ma Murakami vuole disintegrare queste convinzioni, vuole ricostruire un mondo tappezzato da buchi di irrisolvibilità.
Allo stesso modo ha agito Yorgos Lanthimos nella sua ultima pellicola Kind of Kindness, che più che per intrattenere, sembra sia stato realizzato per provocare. Si tratta di un film antologico, diviso in tre parti distinte, con gli stessi attori che interpretano ruoli differenti. Le tre sezioni, chiamate The Death of R.M.F., R.M.F. Is Flying e Sandwich, hanno in comune la tematica della dipendenza e del controllo.
Queste storie sono portate allo stremo, per mettere in luce la tossicità che esprime la subordinazione, che sia ad un capo, ad un marito o ad una setta religiosa. Le vittime provano alienazione perché si vedono schiacciate, ma al tempo stesso sono ossessionate dalla perversione di compiacere chiunque sia al di sopra di essi. La pellicola quindi non vuole portare sullo schermo un racconto, ma desidera indurre un’emozione, positiva o negativa che sia.
È il concetto che prevale, non il legame con la realtà, ponendosi in piena regola nell’astrattismo moderno, nella creazione per la riflessione. Molti hanno criticato Lanthimos per non aver realizzato un film sulla scia di Poor things o La Favorita, caratterizzati da una trama corposa e avvincente, piena di significati evidenti e ritratti chiari degli individui coinvolti. Ma l’idea del regista si è distaccata da ciò che si aspettava il pubblico: Lanthimos ha imboccato la strada del concettuale per disturbare, per mettere in discussione la società e tirare fuori i suoi aspetti paradossali e perversi.
Nel mondo delle serie tv invece è stata particolarmente inusuale Baby Reindeer, creata e interpretata da Richard Gadd. La serie mette in scena l’esperienza reale del regista, che è anche attore, il quale rivive davanti alla telecamera la controversa, dolorosa e struggente storia del suo stalking ad opera di una donna in sovrappeso, incontrata nel pub dove lavorava. Fin qui, insomma, niente di troppo “anormale”.
La vera rivoluzione di quest’opera è che il finale non è quello “ufficiale” della serie, bensì si rivela nella realtà stessa. Infatti, osservando i comportamenti di co-dipendenza che Richard, o meglio Donny, aveva con la sua stalker, si può ben notare che l’intera produzione non è stato altro che un tentativo da parte del creatore di riavvicinarsi alla sua carnefice.
Difatti Fiona Harvey, la vera stalker, dopo questa serie è stata ospitata in vari salotti televisivi, salendo alla ribalta. Il vero finale della serie quindi è la creazione della serie stessa, con tutte le conseguenze del caso, come i titoli di giornale e addirittura una causa che la donna avrebbe indirizzato al colosso dello streaming per diffamazione. Gadd ha letteralmente offerto la sua storia al mondo, forse per vendetta, forse per creare un nuovo legame controverso con la vera Martha. Ciò che appare strabiliante è come questo capolavoro non abbia, ancora una volta, dei confini definiti.
La vecchia idea tradizionalista di opera artistica è completamente ribaltata da una connessione morbosa che unisce realtà e finzione, inganno e verità, in un complesso gioco contraddittorio di intrattenimento e provocazione.
Infine, nel mondo dell’arte in senso stretto, non si può non citare la magnifica Marina Abramović, che ha reso le sue opere un’esperienza a 360 gradi. L’ultimo suo capolavoro è “avvenuto” il 30 giugno al festival di Glastonbury, quando è arrivata sul palco vestita d’un abito bianco a forma di simbolo della pace.
Entrata in scena, ha convinto 200mila persone a stare in silenzio per 7 lunghissimi minuti. Ha proposto al pubblico di posare la mano sulla spalla del proprio vicino, ha chiesto di chiudere gli occhi e di aspettare che un’energia silenziosa perpetuasse fra loro dopo il suono del gong.
L’arte di Marina non è solo una performance, ma è lo strumento per tirare fuori l’umanità stessa dall’umanità. Il suo modo di creare si riflette nelle connessioni, nell’energia indomabile che fuoriesce da ogni corpo e da ogni mente. Lei non ha bisogno di pennelli o macchine cinematografiche, ha bisogno solo di vita, tangibile e intangibile, per realizzare qualcosa di meraviglioso. E non importa se la sua arte non sarà visibile nei musei, perché lascia traccia in chiunque venga a contatto con una delle sue creazioni, risuonando per l’eternità.
Tutti questi individui dotati di mentalità geniali hanno scelto di dare alle loro opere delle caratteristiche fuori dal comune, tenendo in considerazione non l’aspettativa del pubblico ma il concetto che volevano esprimere. Il loro astrattismo non è legato a dipinti, ma al personalissimo modo di percepire la realtà, che, al giorno d’oggi, sembra frammentata e pluridirezionale molto di più delle altre epoche.
Murakami, Abramović, Cattelan hanno scavato per cercare un significato, hanno eliminato tutti gli strati di superficialità che pressano la verità, hanno tirato fuori l’altro lato della medaglia, tutto ciò che il capitalismo odierno cerca di sopprimere o manipolare, ossia l’emotività.
Baby Reindeer è l’opera della fragilità, Kind of kindness è l’opera della dipendenza, Comedian è l’opera del paradosso: sono questi tre elementi che definiscono davvero la società. Non è la perfezione a dominare ciò che viviamo, e non dovremmo neanche ricercarla nelle creazioni degli artisti, perché esse sono testimonianza dell’essenza dell’umanità.
Immaginiamo per un attimo fosse vero tutto ciò che spingono a volerci far credere: corpi perfetti, intelligenze perfette, idee perfette, campagne pubblicitarie perfette, disegni perfetti.
Che mondo sarebbe? Come potremmo davvero apprezzare la bellezza se, in contrapposizione, non ci fosse la bruttezza?
L’astrattismo è magico proprio perché ha bisogno di entrambi, del bello e del brutto al tempo stesso, del manchevole e del pieno, della forma ma anche del contenuto. L’umanità non è divina, ma è reale e in quanto tale non può che essere imperfetta. E l’arte, come testimonianza del nostro passaggio sulla Terra, non può far altro che riflettere, come uno specchio appannato, l’imperfezione tangibile, dominata dalla materia ma creata dall’energia presente in ognuno di noi, in quanto uomini, in quanto esseri creativi.
Written by Ilenia Sicignano