“Disagiotopia” – Antologia curata da Florencia Andreola: nevrosi e precarietà di massa
Come sopravvivere all’umana esistenza: questo potrebbe essere un altro sottotitolo alla silloge di saggi Disagiotopia – Antologia a cura di Florencia Andreola.
Disagiotopia è composto da otto saggi, complessi quanto intriganti, scritti da otto studiosi diversi, che attengono a un esame approfondito della nostra condizione esistenziale, che, nella prima metà dell’Ottocento, Honoré de Balzac e, un secolo dopo, William Saroyan, hanno definito La commedia umana.
Di essa non si sa dire chi sia l’eventuale autore o regista: un Ente Cosmico (forse Divino?) oppure quel tenebroso mistero umano, di cui risulta arduo scorgere l’inizio e tanto meno la fine?
L’umano è semplicemente un esistente (tanto nella Storia quanto nella Natura), e non riesco a rinvenire un miglior modo per definirlo.
Nella Prefazione di Raffaele Alberto Ventura, leggo: “… il ‘principio di piacere’ ha definitivamente preso il potere…” – definitivamente fino a mezzogiorno di stamattina, ovviamente. Dalle mie parti, fîn a meşdé significa come no, ma in parte e a tempo determinato, non in assoluto e per sempre.
Introduzione: L’epoca dei malesseri di Florencia Andreola, che è la curatrice.
Mi ferisce e al contempo m’attrae la locuzione: “Sul panottico digitale dei social che domina tutti noi” – e che pare proteggerci e indicarci il cammino. Anche una mappa telematica lo è, e uno si chiede come potrebbe un villano di Reggio recarsi dalla sua casupola di Gavassa a Modena in via Arquà 80, se non potesse impostare il navigatore, che difettava a Totò e a Peppino, allorché non sapevano quale tragitto seguire per andare dove dovevano andare. Sic transit gloria viae.
Il disagio di dovermi affidare a questo messer messerino che ha assunto le sembianze d’un cellulare si trasforma in speranza, allorché finalmente odo la sua vocina che promette: Sei giunto a destinazione. Si trova sulla destra. Dopo di cui, come dice Totò, uno si butta a sinistra! Sì, per parcheggiare.
Scrive Florencia: “Disagiotopia non dedica molto spazio a possibili soluzioni…” – limitandosi a descrivere alcuni campi di indagini che, a suo dire, s’intersecheranno fra loro. Va bene. Ci sto. La soluzione è un farmaco che prima o poi sarà messo in commercio, a volte dopo che il malanno attuale sarà rimpiazzato dal successivo.
Il Primo saggio, Quattro crisi di Guido Mazzoni, serve a capire in che mondo noi si vive: “… la crisi della politica è implicita nel modello di civiltà che la democrazia liberale difende e nel modello di emancipazione che persegue.” – un po’ come dire che una madre amorosa conduce prima o poi la figliolanza a evadere dal suo smodato controllo. Come disse quel tale, in Così parlò Bellavista, scritto e diretto dall’ingegner e filosofo Luciano De Crescenzo: A libertà, a libertà, pure o pappavall’adda prua’!
Belle alcune metafore presenti nel testo: penso a quelle “bolle di benessere e libertà”, a quelle “solidarietà orizzontali”, allo “Stato” come “nemico potenziale” (per tutti noi, a meno che uno di noi sia il Gestore del Potere), alla separazione fra “Noi e Loro” – i diversamente umani (così assurdamente giudicati, vuoi per tinta della pelle, per religione o per mera etnia).
Il principale merito del saggio è, a parte la sua profondità, il fatto che non manda a dire nulla, dicendo direttamente quel che serve.
Il Secondo saggio è Contro la società della prestazione – Per una sintomatologia del capitalismo contemporaneo di Federico Chicchi, il quale riesce a impensierire per l’ennesima verità a cui non si bada mai abbastanza: “… il capitalismo si starebbe progressivamente autonomizzando dal lavoro…” – dalla fatica delle braccia, ma non da quella del cervello, che continuamente astrologa sul nostro futuro economico.
L’operaio e l’impiegato continuano a sudare su attrezzi e carte, ma quello che interessa l’organizzazione sociale è la gestione finanziaria del loro guadagno: che è la calce grazie a cui si erigono le misteriose mura dell’economia moderna.
Di un paragrafo riporto il titolo, che ben sintetizza una storia assai penosa: La marca finanziaria e la vita come impresa.
Tento un’assurda ma realistica metafora: ognuno di noi donerà, presto o tardi, le sue ossa al Capitolocene, che saprà in che modalità sfruttarle.
Quale potrebbe essere una soluzione per tali malanni esistenziali?
“Si tratterebbe in tal senso di promuovere un nuovo modello di umanità basato fondamentalmente sulla misurazione precisa (scientifica) della sua efficacia procedurale, quest’ultima basata, a sua volta, sullo sviluppo del potenziale umano di ciascun individuo.”: ove occorre però contemplare il limite di ogni misurazione, che, come insegna la meccanica quantistica, deve puntare non tanto all’esattezza assoluta, quando alla pur incerta accuratezza del calcolo, e tenendo presente la necessità di prestare attenzione all’onestà intellettuale, nonché al pericolo connesso alla magica presunzione di taluni taumaturghi.
Un’aspirazione di noi tutti: “una società dove vita, lavoro e salute sembrano diventare una sola e unica cosa...” – basata su un misto azzeccato di libertà e di catene d’amore?
Il Terzo Saggio è Pulizia economica – Il fallimento in abiti eleganti di Saskia Sassen.
Un proverbio che ho imparato visitando l’ingiustamente negletto Sud dell’Italia: Chi figli chi figliastri. Da che mondo è mondo ci sono i ricchi e i poveri. Se a un povero riconosci un ipotetico futuro, in cui potrà servirti, ti converrà ridurre i suoi debiti, incrementando in tal modo la sua sempiterna riconoscenza. Altrimenti, no… Non potrà mai pagare ma sarà sempre un tuo debitore economico, non solo esistenziale.
E anche fra quei disgraziati vi saranno sempre gli eletti (i salvati che pigiano sopra le teste dei sommersi): “Le élite angolane sono diventate ricche grazie alle vaste risorse minerarie del paese…” – mentre “la povertà diffusa continua, così come l’estrazione delle risorse per l’esportazione” – e tutto il resto non è tanto noia, come cantava Franco Califano, ma è nausea umana sartriana.
Il Quarto saggio è Gentrificazione planetaria – Apartheid istituzionalizzato? di Loretta Lees.
Leggendolo, deduco che sia forse possibile l’eliminazione della povertà, ove occorra il bando del povero sempre più fuori e sempre più oltre… dove, alla fine, non si sa, né se vi sarà, un dì, tale fine.
Pulendo i bassifondi, si eliminano le scorie umane annesse: è quello che credo di capire leggendo pagina 116 e seguenti: “Il programma fu poi ampliato per scoraggiare gli accampamenti di mendicanti e sistemare i bambini di strada nei centri di accoglienza, prendendo di mira ingiustamente i poveri e i vulnerabili della città.” – e quale essa sia è indifferente: potrebbe essere quella dell’autore (e la tua, lettore), prima o poi.
“Si stima che 300.000 persone in 40 comunità…” – su quel disgraziato “litorale” – “potrebbero perdere la casa se le demolizioni proseguono.” – e in ciascuno di noi può celarsi un profugo.
Una speranza, che rasenta la certezza: “Le città hanno bisogno di essere convenienti, accessibili e diversificate, solo così potranno essere socialmente (e aggiungerei economicamente) sostenibili.”
Il Quinto saggio è Orrore familiare – Per una critica dello spazio domestico di Pier Vittorio Aureli e Maria Shéhérazade Giudici. La casa è l’orrore a cui più siamo abituati, per cui tutti noi, allorché vi torniamo e ci togliamo le nostre scarpe strette, in cui il dito mignolo ha formato un bel callo, a quel punto diciamo: Ahhhh!
Vorrei esprimere tutta la mia riconoscenza ai due autori per avermi reso consapevole della mia ignoranza. Quello che io credevo uno spazio assodato e immoto, la mia abitazione, non è che la più recente risultanza di infinite precedenti, quali più inclìte e quali più misere.
Ammiro quell’“Andron” e quel “oikos” o “oecus” – che nel mio caso di inquilino è diventato un luogo di otium, in cui amo risiedere quando la necessaria socialità mi concede la giusta pausa di riflessione, in cui posso leggere opere come queste e tentare di commentarle.
Nell’“Andros” io vivo o da solo o con saltuarie amicaglie, a cui non rinuncerei mai, ma il cui incontro avviene preferibilmente fuori, dove occasionalmente il mio habitat coincide con il loro.
Non mi sento a casa mia allorché cammino al parco con l’amico Nicola, però in quei momenti mi sento bene. Quando rincaso e mi tolgo gli scarponi, ripeto ogni volta quel catartico Ahhhh!
L’amore e l’amicizia sono catene che ti legano, e che sono belle quando ti è lecito allentarle per un po’: a casa finalmente solo tua.
“L’idea della privacy” divenne, nel corso del tempo – intesa come “domesticità” – “luogo di riposo dalla produzione.” – tranne per chi lavora gratuitamente a favore dei suoi familiari. Il concetto di “casalinga” si sta allargando a macchia d’olio (e di liquido per i vetri)…
I pochi esenti sono rari come il dodo, e anch’essi destinati all’inevitabile estinzione.
“Come dissipare questo orrore familiare diventa la domanda fondamentale per il progetto dell’abitazione oggi.” – ché di doman non c’è certezza.
Il Sesto saggio è Il disagio dei giovani nell’età del nichilismo di Umberto Galimberti, appassionante, sì, ma non intendo affatto conteggiare quante volte egli usi espressioni del tipo “nelle loro lettere mi chiedono…” – ove il soggetto sono ogni volta i “giovani”.
Innervosisce non poco la considerazione espressa dal filosofo: “Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso.” – anche se quel presente è vissuto manipolando quell’oggetto che manipola noi, e non leggendo i pensieri del filosofo.
A pagina 170 colgo la connessione fra queste due parole: “giovani” e “parcheggiati” – in quinta, sesta, settima fila… e in quasi infinite altre file.
Questo simpatico ed empatico filosofo, che finisco per benedire in quanto ha saputo rinunciare a porre delle pur salvifiche note al suo breve saggio, sottolinea il passaggio di quei giovani “dal nichilismo passivo della rassegnazione al nichilismo attivo di chi non misconosce e non rimuove l’atmosfera pesante del nichilismo senza scopo e senza perché…” – per cui essi, in massa, osano scrivere al filosofo, chiedendo, e chissà se anche esigendo, la speranza.
Anch’io, non meno dei miei due figli, mi sento desideroso di chiedere e smanioso di ottenere la risposta a quello snervante Perché?
Poi, talvolta, non purtroppo, ma per fortuna, tento di dare, non solo a me stesso, ma anche a chi amo, la mia personalissima risposta. Attualmente è questa: Perché sì!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Florencia Andreola, Disagiotopia, D editore, 2021