“Lettere di una vita” di Irène Némirovsky: les années folles e l’angoscia della guerra

Reagisco per iscritto dopo aver letto poche pagine di Incubo, la sezione finale di questa raccolta di Lettere di una vita di Irène Némirovsky, scritte principalmente dalla medesima, e anche dal marito, dalla figlia maggiore, nonché da vari interlocutori, in genere amici ed editori.

Lettere di una vita di Irène Némirovsky
Lettere di una vita di Irène Némirovsky

Non riesco a proseguire la reazione senza trattenermi dall’urlare che tutte le guerre, le attuali come quelle dei nostri avi, anche se combattute dai finti eroi della patria e dell’impero, sono dei cancri miserabili e stupidi. Per finto eroe della patria intendo colui che evade da essa per conquistare il resto del mondo, come se fosse un suo sacro diritto, e non quella di chi difende la propria casa e famiglia.

Un mio amico, che si chiamava Gino S., scelse di farsi cremare e, prima ancora, di uccidersi, forse al fine di volare in alto. Ignoro la ragione precisa di questi suoi progetti, forse nemmeno lui li conosceva del tutto. Scrisse e inviò ai giornali cittadini le sue motivazioni, le lessi, ma non credo di aver capito l’essenza dei suoi ragionamenti. Aveva assunto dei sonniferi e poi, tipo pratico com’era, dopo aver parcheggiato a poche centinaia di metri dall’obitorio del Santa Maria Nuova, girò il tubo deli scappamento della sua auto. Ei fu e poi non fu più: scorsi qualche giorno dopo il suo fumo emigrar verso il cielo e ancora mi chiedo se stia ora riposando in pace. In quel modo condivise la sua sorte con quella di tanti ebrei, uccisi dal gas e poi bruciati. Fu il suo un atto del tutto volontario? Sì, per quanto sia possibile gestire il proprio libero arbitrio in questo mondo infame. Il suo ultimo rammarico? Di non poter donare gli organi, prevedendo un iter legale post-mortem troppo lungo per potergli permettere di farlo. Gino diceva che la famiglia era la più grande causa delle ingiustizie umane e che tutti i figli dovrebbero essere allevati dalla comunità, non dai loro genitori. Quando gli chiesi perché aveva comprato un computer per il figlio e non per me, lui mi rispose che praticava la contraddizione! Gino urlava quando discuteva, anche se era buono come il pane. In genere lo contrastavo, retoricamente e dialetticamente, usando una spietata ironia. Al termine di una delle nostre scenate, una volta gli dissi: Gino, quando parlo con te miglioro ogni volta. Al che lui cessò di strepitare, ed ebbe un improvviso sorriso, pensando di avermi sovrastato con le sue ragioni, che erano logiche, più delle mie, ma così paradossali e assurde! Cessò però di bofonchiare, quando, sardonicamente, aggiunsi,: Tu invece, parlando con me, rimani sempre quello che sei…

Mi son sempre definito un anarchico familiare, che non ho ancora capito cosa significa, se non questo: per me la famiglia è un punto di partenza e uno di arrivo: e il mondo è il nostro palcoscenico, in cui siamo tenuti a rappresentare, con la massima onestà, la nostra esistenza.

Il fatto più bello che colgo nell’epistolario Lettere di una vita di Irène è il senso della famiglia Epstein/Némirovsky, così simile a quello che accomuna le brave persone, quali in genere siamo tutti, almeno finché non siamo costretti dal Potere a scendere in guerra contro i nostri diversamente consanguinei.

La casa ‘d Gavâsa dove mia mamma visse la sua giovinezza fu un giorno invasa da un battaglione della Wehrmacht in fuga. Un graduato dal viso gentile prese da parte il nonno (che in una casa che ospitava una trentina di parenti, fungeva da sovrano) e gli disse di stare tranquillo, che non sarebbe successo niente a nessuno, e che anche lui era fedele a quell’Sant’Antonio che aveva visto raffigurato in un quadretto in sala, purché nessuno avesse osato contraddire agli ordini ricevuti. Solo zio Renzo decise di non rispettare il coprifuoco, in quanto doveva andare a moroso. Appena sceso nell’aia, fu preso e selvaggiamente picchiato! Ma poi sopravvisse per altri 70 anni…

Leggendo La Storia di Elsa Morante provai pena (e orrore) per quell’ebbro soldato che fece violenza alla futura madre di Useppe. Che la nonna di quest’ultimo fosse ebrea a me interessa poco. Anche quel milite era una vittima della guerra, diventandone, per destino, uno dei tanti delinquenti. Senza quella follia collettiva, egli sarebbe diventato una persona come tante altre. Come te, come me. La Storia è tragicamente questo: una fabbrica di delinquenza. Paragono chi la studia a un dottore che vuol conoscere l’origine e cercare la guarigione dei malesseri che colpiscono i suoi simili. La guerra è la più schifosa delle malattie, dove l’infermo, pensando di guarir prima, ammazza senza alcuna pietà il medico curante; è follia, pura follia.

La prima sezione dell’epistolario Lettere di una vita è: Spensieratezza (1913-1924). Ed è la più breve. La giovinezza, quando va bene, è il tempo in cui non si è hanno eccessivi pensieri, per lo più belli e ricchi di speranze, ma è un gioco che dura poco ma, finché rimane quel suo tempo così magicamente spensierato, essa non può che librarsi su e giù e da tutti i lati. Un segreto per mantenerla in vita è di fingere che sia immortale. Tutto si complica quando la famiglia di Irene è costretta alla fuga dalla bolscevica Kiev “nel gennaio 1918” – quando Irène aveva solo quindici anni.

Non ho da riportare nulla dal testo, non avendo sottolineato alcunché. Questo non significa che non vi sia nulla da dire. Preferisco che il nuovo lettore lo scopra da sé, rinunciando alla mia consueta invadenza.

Nella terz’ultima lettera (amo contraddirmi!), Irène scrive all’amica Madeleine: “… vivo in una specie di vortice…”.

La seconda sezione è Celebrità (1929-1939): tre anni prima, avverte il curatore: “… Irène Némirovsky ha sposato Michel Epstein, figlio di un banchiere russo in esilio.” – ed è diventata una giovanissima autrice assai apprezzata, scrivendo nella lingua che ritiene la propria: il francese.

La maggior parte delle sue lettere è indirizzata a editori o a critici, che in genere lei ringrazia per la loro attenzione. A Henri Bidou scrive: “… con la sua grande perspicacia, lei sembra vedere meglio di me nel profondo di certi figuri, e sì che credevo di conoscerli bene.” – che è il complimento più gradito a un recensore; purtroppo non ho nella mia biblioteca-cantina questo Vino della solitudine, per cui lo cercherò e, leggendolo, finirò per inebriarmi. Dopo di cui mi basterà andare a letto.

Interessante e quasi interminabile è la lettera che le spedisce Adolphe Shual, redattore di “Israel” – la cui attenzione è puntata su un fatto indiscutibile: “Poiché lei è ebrea, signora, e non può fare a meno di scrivere come tale – toccando, con quel suo fatalismo, quell’asprezza, quell’inclinazione che la portano a volgere la sua attenzione alla sofferenza…” – alla fine, le sue pagine: “toccano in noi una corda fraterna” – però le chiede di fare attenzione, che quello è un campo minato. La scrittura lo è sempre. Anche questa mia minuscola reazione è un’aiuola dove occorre badare a dove posare i piedi.

Non so se esista un popolo che più ha maggiormente irriso di sé. Penso a certe storie narrate al film Zelig di Woody Allen e al recente libro Il cappello scemo di Haim Baharier.

Irène non fa eccezione: narrando di esponenti della sua razza e, criticandoli, conferisce loro una specie di autorevolezza. Adolphe a un certo punto si sente in dovere di aggiungere: “… Che personaggi penosi siamo, quando veniamo giudicati come lei ci dipinge…!” – così recita un detto pixuntiano: chi rice a verità vol esse accisu – che è a volte il caso di di Irène. Nella vita può anche servire il silenzio e la previdente fuga. Due scelte che Irène non ha avuto la voglia, il tempo e la testa di attuare.

Perché si scrive? Perché? Si può evitare di farlo? Chi sceglie cosa scrivere? A saperlo!

Perché Irène, fino a che avrebbe potuto, non ha fatto come tanti Ebrei che hanno riparato in America o in luoghi distanti dal mostro nazista? La risposta più verosimile è che amava la Francia…

Mi fa del male la nota 2. che leggo a pagina 166, ove si dice che “La lettera in questione non è stata trovata.” – e questo lo si deduce dalla risposta del suo destinatario, che è Albin Michel, il quale da tempo si occupa delle edizioni dei libri di Irène. La sua assenza finisce per rendermela più cara di tutte le altre. Noi umani siamo gente strana, ce ne sarebbe da scrivere di romanzi su di noi…

Irène scrive a René Lalou, dicendosi amareggiata del fatto che il suo “ultimo lavoro, La preda” non gli “sia piaciuto”. Questo pur specificando che: “… lei è uno dei critici che tengo in maggiore considerazione” – e che ci tiene “a dirglielo, signore, e ad assicurarle sempre la mia simpatia.” – dopo di cui lo saluta caramente. Ed è tipico delle sue lettere (anche di quelle del coniuge, nonché di taluni dei suoi destinatari): una gentilezza che prescinde dalle argomentazioni addotte. Qualcosa di antico e di prezioso, forse ormai perduto.

In una seconda lettera che Irène gli invia, dichiara ancora: “Le sue obiezioni sono molto acute. Quando scrivo un libro provo una sorta si inspiegabile pudore a parlarne, anche con le persone più vicine. Credo che questo sia all’origine di molti errori.” – e poi finisce per chiedergli di “credere, signore, alla mia profonda simpatia.”

In una lettera a Mark Višniak, Irène gli chiede scusa: “… se rispondo in francese alla sua gentile lettera, ma purtroppo il mio russo è decisamente scarso e quindi mi trovo nell’impossibilità di darvi, come chiedete, un’opera in quella lingua.” – e questo mi fa pensare a Elias Canetti, che masticava il suo natio bulgaro, ma che poi scrisse in tedesco; e a Dacia Maraini che, nella sua prima infanzia, passata per lo più in Giappone, parlava quasi solo in nipponico, e che divenne in seguito una grande scrittrice italiana. I bambini fanno presto a imparare una lingua e ancor prima a scordarla.

“Il 19 aprile 1939” la cristiana Irène scrive a Mons. Vladimir Ghika, scongiurandolo: “… Monsignore, lei che in Cielo è ascoltato più di noi, poveri peccatori, preghi perché mio marito guarisca in fretta, la supplico.” – e, al medesimo, 8 giorni dopo: “… Ho avuto così tanta paura di perderlo. Non so cosa sarebbe stato di me se non avessi avuto la grande fortuna di rivolgermi a Dio con fiducia e speranza.” – e ogni volta mi chiedo: lo sa almeno Lui, il nostro confidato Dio?

In data “16 giugno 1939”, Irène cara, non hai imbarazzo di chiedere all’editore “i versamenti per i mesi estivi, cioè giugno, luglio, agosto e settembre.” – ed è il penoso succo di tante tue missive, Irène. A volte finisci per tediare anche me, ma poi capisco la tua motivazione: tu e la tua famiglia dovete sopravvivere economicamente!

Sto veleggiando ora nella sezione dell’Incertezza (1939-1941). In data “21.11.39”, Henriette Charron riporta per iscritto a tuo marito un brando della lettera della “signora Piquet”: “In mezzo alla tempesta alla quale stiamo andando incontro e che non è ancora cominciata, cerchiamo di aiutarci l’un l’altro in ogni occasione.” – non so quanto possa servire in tal tragico momento un altro detto pixuntiano: a tiempu r’ timpesta ogni pirtusu è puortu (in tempo di tempesta ogni buco è porto). Non capisco proprio perché non ve ne siate andati tutti quanti a ripararvi altrove!

A quell’Albin ora vai scrivendo: “Penso che certi ebrei si riconosceranno nei miei personaggi. E forse si arrabbieranno con me. Ma io so di aver detto la verità.” – la tua verità, encomiabile, senz’altro, particolare, e non mai assoluta. Perciò tanto preziosa…

Sei “profondamente angosciata” per i tuoi cari:mio marito, che di recente è stato molto malato, le mie figlie, di dieci e tre anni, e io stessa.” – ormai la Francia è divisa in due parti, entrambe problematiche: quella occupata e quella cosiddetta libera, da tutto tranne che dalle preoccupazioni! Che brutto periodo!

Con l’editore hai uno scambio di lettere nella terza settimana di “ottobre 1940” – in cui quasi vi insultate e poi terminate col promettervi un’eterna amicizia.

Non vedo l’ora (faccio per dire) d’entrare nella prossima sezione: Angoscia (1941-1942). alcune lettere sono in tedesco, e provo a capirci qualcosa con Google traduttore, ma poi scopro che subito dopo segue l’opportuna traduzione.

Irène scrive a Julie Dumot:Infine, in caso di assoluta necessità, troverà da Loctin il manoscritto di un romanzo che forse non avrò il tempo di finire e che si intitola Tempesta di Giugno…” – e poi le dice con ansiosa precisione quel che dovrà fare.

Quando vengo a sapere che la tua Suite francese avrebbe dovuto comprendere cinque romanzi, io sto male se penso al tuo tempo orrendamente perduto! Che fine hanno fatto gli ultimi tre libri?! Dove sono stati internati, dove sono stati sommersi?! Si riuscirà mai a salvarli?! Io chiedo pietà per te, per loro e per noi miseri lettori!

Sia tu che tuo marito chiedete di andare a Parigi per dei motivi molto seri, ma nessuno vi risponderà in maniera positiva. Il mondo è così negativo per tutti e specie per voi!

Finalmente (!) ha ora inizio l’ultima sezione delle lettere: Incubo (1942-1945).

La tua ultima lettera è del 16 luglio 1942, dopo di cui andrai a convolare.

Rivolgendosi all’ambasciatore tedesco, tuo marito insiste a dire che, anche se sei russa, ti sei “sempre tenuta lontana da qualsiasi gruppo politico” e poi aggiunge che “benché mia moglie sia di razza ebraica, nei suoi romanzi parla degli ebrei senza alcuna simpatia.” – non so, li dovrò leggere uno a uno prima di confermare il dato.

Tu non sei antibolscevica o antiebraica, tu sei Irène Nemirovsky, una scrittrice che amo!

Qualche giorno prima, il 16, qualcuno ti aveva portata via!: “… Irene è partita – per dove, non so.”

La tua famiglia è così ricca di debiti che, se fosse più povera, poco o nulla cambierebbe: dove siete destinati dalla Storia i soldi non serviranno più.

Michel dice che desidera raggiungerti: “… forse io potrei essere più utile là dove si trova e lei potrebbe servire di più qui…” – si sta rivolgendo a un amico – E poi dice ancora: “… potrei farmi mandare più vicino a lei… Insieme staremmo meglio.” – cos’è questo, se non il Vero Amore?!

Il 5 novembre Michel scrive: “Sono in ottima salute e il morale è alto. Forse presto vedrò Irène...” – è l’ottimismo dell’incoscienza, quando essa è colma di passione amorosa.

Una donna dice a un uomo: “Spero che il 1943 sarà un anno di pace…”.

L’altro le risponde: “Speriamo davvero che il 1943 ci porti la pace e il ricongiungimento di tutti coloro che oggi sono separati.”lo dicevano anche, in taluni paesi dell’Est Europa, all’alba del 2022.

Seguono degli spezzoni di Interviste: in una delle prime ti dici “molto pigra” nello scrivere. Insomma… Quello che vorrei salvare è soprattutto il “detto ucraino” che “dice: ‘A un uomo basta un briciolo di fortuna nella vita; ma senza quello, l’uomo è una povera cosa’. Io il mio briciolo di fortuna l’ho avuto.” – anch’io.

Ed è a causa di ‘sto implacabile Khaos, di ‘sto confuso Kósmos, in cui ognuno di noi precipita e si allontana in modo così ordinato e ineluttabile e che è così incommensurabile che, l’anno scorso, ho avuto la straordinaria fortuna di conoscere te, Irène!

M’è andata davvero bene! Non mi lamento!

Irène Némirovsky citazioni
Irène Némirovsky citazioni

Una breve nota sui Ringraziamenti: sappi che sono un Google anarchico-dipendente e che non ho retto alla curiosità di cercare, oltre alla tua immagine, che già conoscevo (ma com’è bello il tuo ritratto in copertina!), anche quella del tuo con-sorte e delle due belle vostre figliole.

Leggo, a pagina 445 che nei Ringraziamenti del curatore (immagino sia quell’Oliver Philipponnat che ha curato la Prefazione) ci si rivolge in primis a Denise.

Ricordo che lei, in data 2 maggio 1942, a pagina 361, aveva scritto a tuo marito e a te d’essere “La vostra Denise, sempre pestifera, ma in grado di esprimersi come si deve, anche se con un po’ di accetto guascone, ma non troppo.” – in quel momento vi stava scrivendo da Audenge, che si trova nel dipartimento della Gironda, con capitale Bordeaux. Un giorno o l’altro andrò a visitarla, ma prima devo leggere tutte le tue opere. Promesso…

Anche Denise, nel 2013, è venuta su a trovarti, ma ancora quaggiù sono i suoi tre figli e i suoi due nipotini, che sento come consanguinei. Per cui, ti dico: A presto, cara!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Irène Némirovsky, Lettere di una vita, Adelphi, 2023

 

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