“Perché mentiamo” di Alberto Siracusano: che cosa nascondono le bugie?

Ti dico una bugia, è un’espressione che si sente spesso in Campania, allorché uno intende dire che non sa rispondere a una domanda. Si sottintende: ti potrei dare una risposta campata in aria, cosa che tu non meriti. Si tratta di un’affermazione di sincerità.

Perché mentiamo di Alberto Siracusano
Perché mentiamo di Alberto Siracusano

Ho finito da poco di leggere il saggio Perché mentiamo ed ho avuto spesso in mente questa frase idiomatica. Quando la odo, talvolta mi chiedo se l’interlocutore dica sul serio oppure simuli. Forse egli è in grado di darmi la risposta ma giudica che è meglio non farmela conoscere. O forse no: dice il vero.

Il saggio Perché mentiamo di Alberto Siracusano illumina la mente su un concetto scandaloso: tutti noi, di rado o spesso, mentiamo, usando la mente per simulare e dissimulare, come tanti Catilina. Tutti o quasi? Ho un paio di amici che giudico la quintessenza della sincerità, eppure talvolta li ho beccati in castagna, non a raccontarmi frottole, ma a nascondermi volutamente certi particolari, magari per timore di ferirmi o d’indurmi a fraintendere il senso di taluni accadimenti…

Leggo, a pagina 13: “… senza la verità la bugia non esiste…” – e anche: “… verità e bugia sono due facce della stessa medaglia…”

Nel fare questo tipo di riporti, cerco di essere fedele (veritiero) il più possibile, ma talvolta baro malamente. La frase originaria cominciava così: “Rendersi conto che senza la verità…” – etc. E poi continuava: “… che verità e bugia” – etc. Dopo di cui subentrava il verbo principale: “… apre un’importante riflessione sul significato di questo legame indissolubile…” – e poi il capoverso proseguiva per un bel po’.

Ne deduco che uno scrittore onesto a volte è tenuto a barare quando serve. A me non interessa fare un compendio di un saggio o di una fiction letteraria, quanto esprimere la mia reazione psicologica e offrire al lettore del lettore del libro alcuni ragionamenti miei, che s’innestano a quelli dell’autore. Quei riporti rappresentano dei necessari assaggi.

Ho appena terminato di leggere un romanzo immenso, di oltre 1000 pagine, La ballata del boia di Norman Mailer, che descrive nei minuti particolari la tragica e verissima vicenda di Gary Gilmore, un rapinatore pluriassassino, che una volta catturato, dovendo scegliere fra l’ergastolo e la pena capitale, non sembra aver dubbi: la seconda lo renderà finalmente libero, mediante la fucilazione, per cui afferma di rinunciare a ogni possibile sospensione della pena. Fino all’ultimo egli cerca d’ingannare il prossimo, chiedendo prima a un amico e poi all’altro di aiutarlo a evadere. Non mi dispiacerebbe che Alberto Siracusano leggesse quest’opera e ne traesse le necessarie conclusioni.

Mi sono riconosciuto, ma solo un po’, in Gilmore, che ha un animo psicopatico e duplice, tanto ingannevole quanto amoroso, anche nei confronti della sua donna, a cui chiede di suicidarsi al fine d’incontrarsi di nuovo nell’al di là; in verità egli teme che lei si conceda ad altri uomini dopo la sua dipartita. Ancora non so decidermi a individuare il sentimento che provo per lui: più tenerezza o più rabbia? Mi fa più pena o più orrore? Sento che se tentassi di giungere a una scelta essa non sarebbe mai né certa, né definitiva. In genere, io mi sento sincero con me stesso, anche se forse non ho ancora imparato a conoscermi.

Una persona che ha dovuto essere obbligatoriamente fallace è stato Norman Mailer, il quale ha esaminato innumerevoli fonti, cercando di essere il più possibile veritiero, però talune scene narrate, essendo di una natura troppo intima, non possono che essere state inventate di sana piante da quell’immenso autore.

Che dire del paradosso del mentitore raccontato a pagina 14? “Se io dico: ‘Questa frase è falsa’.” – sono veritiero oppure no? Sono paradossale? Vado oltre la doxa comune? Il logico matematico Kurt Godel ci si è ispirato nel teorizzare l’indecidibilità di alcune proposizioni aritmetiche: esse sono definitivamente incerte (ho usato volutamente ‘sto mezzo ossimoro).

I numeri immaginari non esistono in natura, essendo sorti dalla radice quadrata di un numero negativo. Eppure servono per effettuare le misurazione di taluni fenomeni quantistici, purché sommati a dei numeri reali (quel che ne risulta è detto numero complesso).

Ma qui dov’è l’inganno? C’è, oppure siamo noi a non riuscire a coglierne la verace realtà? Forse, se non ci fossero, occorrerebbe inventarli di sana pianta.

Leggo, a pagina 16: “Il campo dell’inganno è costruito da una rete estremamente articolata e complessa di concetti diversi tra loro: falsità, verità, bugia, omissioni, manipolazioni, motivazioni e tanti altri ancora.” – che solitamente s’intersecano fra di loro? Nel chiederlo, fingo di non esserne certo. O quasi.

“Il labirinto è una condizione esistenziale che diventa anche un modo di pensare…” – ed è un topos letterario frequente in taluni autori, specie di lingua spagnola (Borges, Márquez, Zafón), per lo più in senso metaforico, in cui esso diventa il percorso umano dei vari personaggi, rappresentando un passaggio obbligato, irto di difficoltà, ma inevitabile, che li conduce a un risultato momentaneamente finale: “Percorrendolo non si arriva a conoscere una sola verità; le verità sono infinite e il mondo è un mistero fatto di complessità di cui la ragione umana riesce a cogliere solo una parte.” – la vita, direbbe Borges, è un giardino colmo di sentieri che si biforcano, ognuno dei quali conduce a una meta, a una verità.

L’autore del saggio cita il personaggio di un film, il cui nome è “Franck”, e che “alla fine verrà arrestato…” – e non riesco a sottacere il fatto che nella versione originale “Alla” – che inizia la frase, è in maiuscolo – “… ma il suo soggiorno in prigione durerà poco, perché l’FBI gli proporrà di lavorare per il Bureau sfruttando le sue enormi capacità di falsario, così Frank si separerà dalla sua parte truffatrice, sfruttando le sue competenze al servizio della legge…” – (per il resto della frase il mio eventuale lettore deve leggere il saggio di Siracusano: che forse la mia sia tutta una finta per fargli vendere qualche copia in più? Si sappia che non ho una percentuale sugli eventuali incassi. Mi credete o no?

Una cosa del genere capitò all’ex ladro e poi capo della polizia francese Eugène-François Vidocq, la cui storia è stata raccontata in varie serie di telefilm e anche in un film, la cui trama non mi pare storicamente attendibile. Ma chissà!

Interessante è la frase che colgo a pagina 38: “L’inconscio è nemico della bugia.” – in quanto troppo distante dalla consapevolezza per essere gestibile. Il che mi fa pensare a un detto: in vino veritas, perché chi ha alzato un po’ troppo il gomito si sente improvvisamente libero di dire e di fare cose che di solito la coscienza gli censurerebbe. Tanti scrittori hanno cercato nell’alcol e nelle droghe quella spinta in più per esprimere la propria anima. E sarebbe interessante sapere quanto delle opere sia rimasto intatto e quanto sia stato rinegoziato dall’occasionale censura. La parola, quest’astuta donnetta, è foriera di inganni, oltre che un mezzo essenziale per giungere a una qualche forma di verità. E di falsità!

Il presente saggio offre al lettore una duplicazione di significato. “Secondo sant’Agostino, il bugiardo ha un cor duplex…” – ma “si può definire bugiardo solo chi dice il falso in modo intenzionale per nascondere il vero, e non chi lo dice per gioco o per ignoranza.” – per quanto riguarda l’artista, e il narratore in particolare, il giudizio è destinato a essere sempre sospeso.

Un concetto che deriva da quest’altra “riflessione di Agostino” mi lascia perplesso: “Chi crede non può mentire, l’immortalità dell’anima non lo consente, determinando lo spostamento dal piano dell’etica a quello della fede.” – come dire che solo chi riesce a falsificare (secondo la lezione di Karl Popper) una teoria a se stesso, dimostrandone l’improvvisa inconsistenza, è in grado di errare. Chi crede non corre un simile rischio, in quanto non ha l’autorità di farlo: la sua Fede è certa ed egli vive nel Giusto. Almeno finché glielo concede il suo credo (e la sua vita). Almeno finché anch’egli non pecca, non inciampi nel suo percorso, non deceda. Chi vivrà vedrà, chi morirà non si sa.

Sempre con Popper, ne deduco che la scienza è conscia di poter determinare teorie errate. La religione no. Essendo perfetta in sé, è deceduta in Dio, come insegna Enzo Bianchi in Vivere la morte.

“Se il tema della bugia è sconfinato, per non dire infinito, altrettanto numerosi sono i contesti in cui la questione è stata trattata.” – e l’autore ne sviscera un numero notevole, illuminando ogni volta il lettore. E scrive, tra l’altro, a pagina 43: “… è come se la benda-bugia fosse una sorta di traduttore da una dimensione di verità, a cui il nostro pensiero non riesce ad accedere, a una dimensione in cui il pensiero la traduce in forma visibile e percepibile.” – la cosa somiglia all’azione del fotone (la particella della luce, che responsabile dell’interazione elettro-magnetica), che consente lo slittamento degli elettroni da un livello all’altro, finendo per creare una delle illusioni meno intuibili. Se due corpi collidono fra di loro (per esempio un pugno e una mascella) le loro particelle resteranno sempre quantisticamente staccate le une dalle altre, essendo distanziate da ampie porzioni di vuoto. Eppure l’effetto traumatico è senz’altro doloroso.

Lessi anni fa un tomino donatomi dai Testimoni di Geova che s’intitolava La Verità che conduce alla Vita Eterna. Quelle tre parole meravigliose iniziano necessariamente con la Maiuscola.

In quello stesso periodo lessi Il Libro di Mormon, che pareva una cronaca di eventi reali, al pari dell’Esodo biblico. I Nefiti e i Lamaniti sembravano storicamente attestati, così come i Cheyenne e i Sioux. Chissà qual è stata la Verità?! Qual è?! E quale sarà?!

Nel saggio A piccole dosi di Piergiorgio Odifreddi leggo una frase di Borges che ignoravo (o forse non ricordavo, avendo letto, credo, l’opera omnia di quel gigantesco autore): “se una storia viene ripetuta due volte è certamente vera” – non so se quell’argentino intendesse letterariamente vera. Ogni narrazione letta ha almeno due sacerdoti-fedeli: lo scrittore e il lettore, che a un certo punto diventano entangled fra loro, come accade alle particelle quantistiche. Non so quanto Alberto Siracusano possa esserne fiero, ma ormai io e lui siamo correlati. Questa per me è la religione dell’arte, una delle attività umana che fa più proseliti (forse solo il calcio la batte).

Una conseguenza della bugia (personale o storica che sia) è che essa “rappresenterebbe la principale modalità soggettiva, emotiva, affettiva che consente all’individuo di crescere mentalmente separando l’esperienza di quella dimensione non visibile, rappresentata dalla verità assoluta e onnipotente, dall’esperienza della dimensione reale.” – e la domanda che ora mi pongo è: tale verità esiste davvero? Oppure è una pur sacra rappresentazione?

Talune bugiedanno una rappresentazione ‘falsa’ del mondo, che però stimola il formarsi di quella ‘vera’. Non sono bugie dette per occultare, bensì per svelare.” – e questo mi fa pensare che il vuoto che racchiude il cosmo è in realtà un guazzabuglio di particelle, che non esistono (e sono quindi finte), ma che, così dicono i fisici, autorizzano, con la loro virtualità, la continua formazione delle loro consorelle reali. Anche questo è un Mistero degno della miglior fede. Mistero deriva mýein, che vuol dire chiudere. Se qualcuno chiude un portone, significa che Egli è dentro la Sua Casa, e che da impedisce l’esperienza di esistere in quel Luogo da Lui vietato.

Secondo il fisico Roger Penrose esistono numerose z-questions, a cui finora, e chissà se per sempre, non v’è alcuna risposta. Oppure, se esiste, essa è sottaciuta, anche se non si sa da Chi. Ma Chi ci ha narrato la storia che Colui a cui sto alludendo è davvero una Persona? Un piccolo uomo o un Infinito Egli Stesso? Io sono o io tentai goffamente d’esistere, narrando finzioni?

“Il labirinto della bugia serve a creare un centro, un luogo, dove nascondere un segreto.

Segreto deriva dal latino cernere, a cui l’aggiunta del suffisso se attribuisce, oltre il significato di separare, appartare, nascondere, riservare, quello di produrre, setacciare, distinguere.” – quel che è celato Altrove cessa perciò d’essere falsificabile.

L’indagine svolta da Alberto Siracusano si rivolge anche e soprattutto all’umanità in genere, per cui scrive, a pagina 57: “Nei bambini le bugie sono necessarie alla crescita.” – e io per questo leggo forse fin troppo: non mi bastano le mie fandonie, m’occorrono anche quelle degli altri. Un lettore ha un destino: non cessare mai di sviluppare la sua formazione. Finché egli legge, rimarrà un adolescente; ad-òleo, comincio a crescere. E a perseguire la propria minuscola verità, che non è mai assoluta, ma sempre in fieri.

Amo l’etimologia, perché produce discorsi intorno all’étymos, cioè all’intimo e reale significato delle parole, queste tenere ed essenziali menzogne.

Leggo, a pagina 59: “… le bugie appartengono a un gioco relazionale in cui il mondo delle favole è reale.” – e forse è sia immaginario che reale, ergo complesso (come quei numeri di cui scrissi poc’anzi). Nella pagina precedente l’autore cita il “gioco della campana”, che da noi a Reggio Emilia è il gioco della settimana. Leggo con sorpresa che è stato rinvenuto “il disegno di questo gioco sul pavimento del Foro romano” – e poiché in esso “riconosciamo il disegno di un labirinto” – sento ora di comprendere appieno il significato di Rayuela – il gioco del mondo di Julio Cortázar, romanzo che lessi alcuni mesi fa.

“Le favole però rappresentano una realtà ‘bugiarda’, separano nettamente il bene dal male, il dolore dal piacere, la felicità dalla delusione, il coraggio dalla paura, la chiarezza dall’ambiguità.” – la scrittura di Siracusano è espressiva, il che vuol dire, semplicemente. che dà un’ampia e chiara idea delle cose. È complessa senza essere mai incomprensibile. Tanto che anche un giovane (quale io, ingannevolmente, mi sento) riesce a capirla senza eccessivi problemi. I concetti esposti sono tutt’altro che semplici, ma paiono facili da assimilare. Paiono o sono? La domanda potrebbe essere volutamente ironica. Ma io stesso non so fornire la risposta.

“… la bugia dei bambini si realizza intorno all’idea di costruire il futuro.” – questo concetto, che leggo a pagina 88, è foriero di speranza.

Nei capitoli seguenti, l’autore esamina diversi casi di bugia, anche di soggetti psicologicamente labili. Anch’io potrei parlare a lungo di un mio conoscente che vive all’interno di una struttura protetta. Egli è un maestro della finzione, come sa turlupinate lui non ci riesce nessuno. Eppure talvolta la sua sincerità m’ha colpito. Una volta l’ho interrogato su quale sia il modo corretto di comportarsi in diverse situazioni, ed egli m’ha sempre dato la risposta corretta. Quando gli feci i miei complimenti, egli innocentemente mi confessò: Sì, io so tutto su come si deve agire nella vita, ma è la pratica che mi riesce difficile. In altre occasioni egli ha saputo sorprendermi per la sua ingenuità, miracolosamente intrisa di saggezza e di psicopatia. E questo è il motivo per cui io lo reputo, per certi versi, il mio contro-analista. Grazie al suo bipolarismo ho capito tantissimi aspetti censurati della mia, anch’essa inquieta, personalità.

Notevole è il capitolo 7, dedicato a Le bugie virtuali: fake news e social network. Ha un solo difetto, è impossibile racchiuderne il senso in poche righe. Opto perciò per una definizione icastica: la tecnologia informatica ci può condizionare più di ogni altro fatto. Interessanti a proposito sono i recenti studi di Luciano Floridi (Etica dell’intelligenza artificiale), di Matteo Di Michele (Intelligenza artificiale), di Juan Carlos De Martin (Contro lo Smartphone), nonché l’indagine svolta da Lisa Iotti (8 secondi: Viaggio nell’era della distrazione).

Vorrei porgere all’autore una stramba domanda: perché su 7 persone che conosco e che utilizzano la funzione che permette di eliminare le “spunte blu” di una celebra app di messaggistica del cellulare, 6 sono donne, e fra loro c’è pure una mia amata consanguinea? A volte il non poter attestare che lei abbia letto un mio messaggio mi lascia perplesso. Ma poi mi dico che, in caso di urgenza, la posso chiamare normalmente.

M’intriga molto la poesia di Emily Dickinson riportata a pagina 229. Ma perché “la verità” dev’essere “obliqua”? Perché essa “deve abbagliare gradualmente”, onde evitare di rendere “cieco” il prossimo? Prometto di pensarci tutta la vita. Nel frattempo. vorrei ora salutare Suor Bice che all’asilo m’insegnò una verità meravigliosa: Ogni promessa è un debito! E io cerco sempre di mantenere gli impegni presi. Se talvolta non ci sono riuscito, è colpa della vita (leggi: degli altri, oppure degli accidenti umani e non). Bella come fandonia, eh?

A commento della frase di Oscar Wilde: “L’arte è un simbolo perché l’uomo è un simbolo”; mi venne recentemente da replicare che essa è l’illusione di un simbolo e il simbolo di un’illusione. Poi, dovendo cercare di spiegare il concetto a me stesso, prima ancora che agli altri, complicai la cosa pensando: se, in un testo, utilizzo una figura simbolica o allegorica, provo a illudere il lettore che sia una realtà esistente, poi quello finisce per crederci almeno un po’. La figura di Uriah Heep ha disgustato un numero imprecisato di lettori, come se egli fosse realmente esistito: e lo è stato davvero, almeno nella mente di Charles Dickens e di chi, leggendo David Copperfield, è come se l’avesse sentito parlare e agire dal vivo. Per una buona parte di me Tex Willer è veramente il capo bianco dei suoi Navahos. Se in una poesia utilizzo un’assurdità illusoria, per esempio l’affermazione di John Keats con cui egli inizia la poesia Endymion: “A thing of beauty is a joy for ever”, essa diviene il simbolo dell’Eternità, per cui un poemetto antico pare scritto oggi. Tutto questo avviene in una modalità quasi religiosa, anche se ho la percezione reale che si tratti di una misera fandonia: il secondo principio della termodinamica prevede l’entropia, il disordine cosmico, per cui nulla rimarrà, alla fine dei tempi.

I fisici Julian Barbour (in The end of time) e Carlo Rovelli (in L’ordine del tempo) affermano che quello scorrere temporale in cui confidiamo come certo non è che una vana illusione, un doloroso fraintendimento. Parte delle loro teorie sono così inconcepibili che potrebbero essere vere. Senz’altro paiono più probabili della teoria mistica di Frank J. Tipler che, in La fisica dell’immortalità, ipotizza che lo spazio-tempo sia memorizzabile e ricaricabile.

Che siano tutte favole, fandonie, menzogne?

Sono in ogni caso ipotesi meravigliose, in cui non riesco a smettere di confidare.

Anche leggendo le opere di autori naturalisti e veristi, come Émile Zola e Giovanni Verga, non si può far a meno di avvertire quella sensazione di fiction, pur assai ben mimetizzata.

La verità è anche pericolosa (fa male!, cantava Caterina Caselli), ma tende a essere banale, nel senso indicato da Salvatore Patriarca nel suo Elogio della banalità: e talora diventa salvifica, poiché dà il corretto e pratico senso alla nostra esistenza.

Il saggio di Alberto Siracusano è tanto ricco di narrazioni di casi umani relativi a persone dedite alla falsificazione di sé, che “provengono dall’esperienza clinica, opportunamente modificata, ma anche dalle diverse situazioni e relazioni di vita”, e che, in taluni casi, non sento troppo distanti dal mio modo d’essere. Ed è uno dei più stimolanti fra quelli che mi sono passati fra le mani negli ultimi anni. Sono contento di averlo letto anche perché mi auguro che, grazie a esso, quando continuerò a mentire a me stesso, riuscirò talvolta a sbugiardarmi.

Alberto Siracusano - citazioni
Alberto Siracusano – citazioni

Mi chiedo cosa significhi esattamente quell’opportunamente modificata: immagino che l’autore intenda dire necessariamente falsificata in difesa della privacy dei miei pazienti.

Una morale che traggo da questa lettura è che la bugia e la sincerità, il vero e il falso, sono fra di loro mezzi fratelli, o almeno un po’ consanguinei, pur essendo antagonisti fra loro, come pare sia la massa e l’energia: fra di loro riconvertibili, secondo la celebre equazione di Einstein: E = mc2, i cui cui valori sono interscambiabili, intercaricabili, certo, ma una alla volta, per carità!

Chissà se quanto ho scritto è fondato sul vero, oppure se si tratta di una pietosa bugia, di una miserabile pantomima.

L’unica proposta che mi sento di fare al mio sempre più ipotetico lettore è di leggere Perché mentiamo. E poi di sapermi dire con calma le sue impressioni. Da lui, sempre che esista, esigo però, nei limiti del possibile, la massima sincerità.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Alberto Siracusano, Perché mentiamo, Raffaello Cortina Editore, 2023

 

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