“Il conformista” di Alberto Moravia: quel vago conato di uniformarsi alla massa
Il vero lettore legge e rilegge i vecchi libri, perché a ogni lettura ogni opera sembra nuova, nonché ineffabile. Detto en passant, il vero lettore si adegua alla lettura di un libro, senza per questo uniformarsi a esso.
Essendo un lettore sui(nis) generis, non rileggo mai lo stesso libro. E in tanti mi dicono che sbaglio. Li lascio dire. Inutile discutere con chi tene ragiuni. Leggendo Il dubbio di Luciano De Crescenzo m’era venuto il dubbio di averlo già letto. Infatti… Capitò anche a un libro piccolo e assai ben scritto da un messicano, ma non mi va al momento di dire quale. Mi era sorta all’improvviso una sensazione di deja vu, anzi, di dejà lu. Rilessi, volontariamente, una breve fiction di Henry Miller, ma solo perché una disgraziata, a cui l’avevo imprestato, non volle più restituirmelo. Poi persi di vista lei, ma non il libro, per fortuna per sempre.
Il conformista, questo celebre racconto di Alberto Moravia, lo lessi già vari anni fa. Di sicuro l’apprezzai, pur senza amarlo. Come quando con una persona quasi sconosciuta si ha un’avventura passeggera. Per me Moravia rimarrà per sempre uno scrittore quasi sconosciuto, un po’ troppo superiore al suo lettore. Mai dire sempre, però. Né mai. Se quella Lorena oggi mi bussasse sotto casa per restituirmi il libro, dovrei pure ringraziarla. Meglio che se lo tenga.
Parto da un concetto, da una concezione, da un concepimento di una creatura, di un pensiero, intendo: ogni lettura e scrittura, crescendo, cambia non solo il colore dei capelli e degli occhi, ma anche il carattere.
Moravia non è Hugo, né Balzac, che sono due sono due maghi della parola, che fanno degli artifici che solo loro sanno produrre, rendendo stupenda ogni pagina, in grado cioè di stupire il lettore coi loro effetti speciali. Moravia è un po’ come Zola. Se in Marquez si può parlare di realismo magico, il suo è un naturalismo allegorico.
Dopo aver scritto tutto ciò, mi sono accorto di essere fuori come un balcone, e anche un po’ matto come una strada e, forse anche, giù come il metano. Sono tre espressioni locali che danno l’idea di uno che, per motivi psichici, l’ha fatta fôra dal buchêl, leggermente all’esterno del boccale, sul pavimento. E mi tocca ora ripulire… È una questione di misura, quella che forse manca a me. I primi due autori francesi fanno i giochi di prestigio a ogni pagina sospinta. Gli altri due, più grandi o meno poco importa, ne fanno di simili, ogni tanto, quando non possono esimersi, per poi seppellirli con chili e chili di parole, nonché di descrizioni, apparentemente scientifiche, psicologiche e logiche.
Marcello, il protagonista, è in missione segreta. Prima tappa è un lupanare, assai ben descritto da Alberto, tanto che Émile si sarebbe alzato dalla sedia e lo avrebbe applaudito.
Un agente segreto porta Marcello “in una piccola stanza, arredata sommariamente da ufficio”, ove incontra “un uomo, le mani riunite, il viso rivolto verso di lui. L’uomo era albino; il volto aveva una trasparenza lucida e rosata di alabastro, punteggiata di lentiggini gialle; gli occhi erano di un azzurro acceso, quasi rosso, con ciglia bianche, simili a quelli di certe fiere che vivono tra le nevi del polo.” – e tutto questo accade a pagina 157. E mi dà la carica necessaria per proseguire la lettura (stavo un po’ in riserva).
Datemi il miglior autore di questo mondo e siate certi che nelle prime venti/trenta pagine mi provoca uno sbadiglio dopo l’altro, finché non si accende, per caso e per necessità, tanto per parafrasare un libro di Moresco, una lucina.
Per cui torno all’inizio, al fine di ammirare un paesaggio che avevo scordato appena l’avevo visto.
“Nel tempo della sua fanciullezza, Marcello era affascinato dagli oggetti come una gazza. Forse perché, a casa, più per indifferenza che per austerità, i genitori non avevano mai pensato a…” – non avevano mai pensato a lui. La mamma era una vacua signoretta, il padre un simil pazzo, a volte manesco nei confronti di chi non si adeguava alla sua follia. Bell’infanzia, davvero!
“Tra tutti gli oggetti, però, quelli che lo attraevano di più, forse perché gli erano proibiti, erano le armi.”
Ogni tanto Marcello in giardino aveva dei gesti distruttivi contro delle piante e delle bestiole, di nascosto però, e con un senso di colpa che lo faceva un po’ marcire – “e si rendeva conto che temeva non tanto il rimprovero quanto la semplice testimonianza di atti che lui stesso avvertiva anormali e misteriosamente intrisi di colpevolezza.” – e qui sfido chiunque a non capirlo. E solo ora che, giunto a metà libro, lo sento a me consanguineo.
“Ciò che amava a scuola non era tutto uno studio quanto un modo nuovo di vita, più conforme ai suoi gusti di quello tenuto sinora. Ancora una volta era la normalità che l’attraeva…”.
Era un essere ambiguo, indeciso fra i due opposti versanti: con dei “caratteri addirittura femminili così da far dubitare che Marcello non fosse davvero una bambina vestita da maschio”. Vive in un mondo in cui un uomo che pare una femmina e una donna che si atteggia a maschio sono assurdamente definiti anormali. La vita poi deciderà per ognuno di noi.
Marcello, che è bullizzato dai suoi compagni, desiderandone la morte, ammazza invece un suo estimatore, sparandogli in modo, mi viene da dire, inconsultamente volontario. Si tratta di un ex prete di nome Lino, un presunto anormale che gli aveva chiesto proprio di ucciderlo, essendo in preda a una disperazione etica ed esistenziale. I particolari sono in cronaca (su zia Wiki). A pagina 59 finisce una Parte senza numero (chiamiamola Prologo). A cui segue la Parte Prima. Non se si è intuito, ma Alberto a volte se la prende un po’ comoda.
Passano alcuni decenni e a Marcello vien voglia di andare a cercare il quotidiano che riportava quello strano suicidio, ché così era stato, forse, da tutti interpretato. Di lui, nessuno sapeva niente.
“La vita normale e profonda era assente da quei fogli; ma lui stesso, mentre faceva queste riflessioni, che altro vi cercava se non la testimonianza di un delitto?” – la Verità conduce ogni volta dove esige d’essere chi la cerca.
“… non aveva mai considerato le conseguenze materiale del fatto avvenuto tanti anni prima….” –
e poco importava a chi non dà tanta importanza al resto del cosmo. Mi correggo: la corretta importanza all’Altro. A lui interessava “quale sentimento gli ispirava la conferma della morte di Lino”, e nulla più: “Da questo sentimento, come aveva pensato, avrebbe giudicato se egli era ancora il ragazzo di un tempo, ossessionato dalla propria fatale anormalità o l’uomo, del tutto normale, che aveva in seguito voluto essere ed era convinto che era.”
Il mondo gli pareva un invito a essere una sua parte, in cui la sua differenza fosse ammucciata, dicono a Pisciotta, sòt cuaciòun, dicono a Reggio, celata da un mucchio di ambiguità. “All’università, come ricordò, aveva ad un tratto scoperto con una specie di gioia, che c’erano almeno mille giovani della sua età che si vestivano, parlavano, pensavano, si comportavano come lui.”: in mediocritate stat virtus?
A volte Marcello giocava di mimèṡi, essendo capace di vedere nell’Altro un pezzo di sé, che era derivato da un altro Altro, anche ora che “finalmente uno dei tre, appena uscito dalla tabaccheria, si fermava ad accednere una sigaretta con un accendino d’argento, in tutto simile al suo.”
Eureka!: “Sì, era uguale agli altri, uguale a tutti.”
Il suo sogno era vagamente populista: “Egli faceva tutta una cosa sola con la società e il popolo in cui si trovava a vivere, non era un solitario, un anormale, un pazzo, era uno di loro, un fratello, un cittadino, un camerata,” – assai ideale in quel nero periodo.
Intanto il frastornato papà era internato in manicomio, la leggiadra mammina viveva da sola, mentre lui era un funzionario governativo assai stimato, e che presto si sarebbe regolarmente sposato.
“Di una tristezza misteriosa che considerava ormai inseparabile dal suo carattere. sempre era stato triste a quel modo o meglio mancante di allegria, come certi laghi che hanno una montagna molto alta che si specchia nelle loro acque parando la luce del sole e rendendole nere e malinconiche.” – non splendenti come quelle del lago di Carezza, per intenderci.
“… i contatti con la folla, per quanto sgradevoli e scomodi, gli piacevano e gli parevano sempre preferibili a quegli con gli individui”: era poco interessato alle singole anime, ma al loro ammassamento.
Lui avrebbe “sposato una ragazza normale” e con lei avrebbe vissuto in una casetta bruttarella ma normaletta. Forse, perché nulla v’era ancora di certo.
Alberto è molto attento a dove poggia i piedi con la sua scrittura. Come Marcello punta a simulare una normalità: “c’era un escremento di cane ed egli ci girò intorno per non calpestarlo.” – mentre lo smorfioso napoletano che sonnecchia in me l’avrebbe calpestato senza volere, per poi dire, trionfalmente: 9!: un numero che in tal caso porta bene, si dice.
A pagina 134 finisce questa Prima parte e inizia poco dopo la Seconda. Giulia, la sua ragazza, gli confessa un crimine altrui perpetrato su di lei, che la sta gravemente martoriando, anche un po’ allegramente (donna strana è, davvero), l’anima. È stata violentata (o abusata sessualmente?) per anni, da quando era ragazzina, fin anche dopo il suo fidanzamento con Marcello. Narra il tutto con semplicità disarmante.
Atroce differenza: “Il caso aveva voluto che così lui come Giulia avessero qualche cosa da nascondere nelle loro vite e, di conseguenza da confessare. Ma mentre lui si sentiva del tutto incapace di parlare di Lino, Giulia, invece, non aveva esitato a rivelargli i suoi rapporti con…” – però, aspetta: lei doveva in primo luogo giustificare la sua mancanza di verginità. Intanto lui cerca di sdrammatizzare la questione, facendola rientrare, seppure a fatica, nella salvifica normalità.
Alberto definisce delle puttane da bordello “questo bestiame femminile”: allegoria brutta ma assai espressiva, mentre più sessista è un “agente” segreto, collega di Marcello, che le chiama “Donne stupide…”.
C’è poi la descrizione di Gabrio, il misterico albino, un mostriciattolo orrendamente e nervosamente normale.
Marcello ha sentore dell’imbroglio a cui l’ufficio l’aveva condotto. Il mondo pare spesso una reale finzione di un’inesistente normalità. Ma lui fa finta di niente, quando si accorge di quanto questo sia necessario per giungere a una sua consacrazione di idoneità, una specie di rito di iniziazione, che servirà a qualche ragione sottesa e taciuta.
Nessuno capiva ogni cosa, se non che “erano in realtà condizioni personali ormai consolidate, fuori dalle quali, per ambedue, non c’erano che disordine e arbitrio. Disse, finalmente, rialzando il capo; ‘E va bene…’”.
Una prostituta molto bella una “mano, la teneva abbandonata sul ginocchio dell’agente come, pensò Marcello, sulla testa di un grosso cane…”. Questa donna lo affascina.
Strana intuizione, non so se di Alberto o di Marcello: “Certamente ella non sapeva nulla della luce che le raggiava sulla fronte e che non le apparteneva come non appartiene, in genere, la bellezza a chi è bella”: ignara sum sed formosa. Vallo a sapere! Donne e uomini appartengono alla stessa razza animale, ma comunicano con guaiti diversi. Dopo questa stramba piolata, posso ricominciare a leggere.
Giulia è una donna bella e affettuosa, che ispira tranquillità al lettore, ancor più che a Marcello: “Ma questa era la normalità a cui aveva tanto anelato: questo braccio girato intorno alla vita, questi sguardi, queste carezze; e ciò che si apprestava a fare con Orlando, non era che il prezzo di sangue di simile normalità.”
Orlando è l’agente segreto con cui Marcello è in un rapporto di colleganza, e a cui deve fornire informazioni a proposito di Quadri, un intellettuale antifascista esule a Parigi. Marcello si presenta a quello, non sapendo che il suo gioco è fin troppo conosciuto. Era stato un suo allievo nel passato, ma Quadri sa bene perché lo è andato a cercare.
Giulia dice al marito: “Questa signora, la moglie del professor Quadri… Ebbene, pensa… non è una donna normale.” Infatti, Lina, la moglie di Quadri, è (anche) lesbica e si è infatuata di brutto di lei. Marcello si è infatuato di brutto di Lina, ma Lina lo odia, e non manca di dirglielo, ma poi finge di provare per lui un certo interesse. Quadri (che paga tutto quello che c’è da pagare, la consumazione presso ristorante e l’accesso presso una sala da ballo, dal vero signore che è) gli spiattella in faccia quel che già Lina non gli aveva nascosto: sa perfettamente che è una spia.
Marcello poco prima aveva incontrato un anziano che era su una macchina identica a quella che aveva il povero Lino, dotata di autista, e che lo aveva invitato, come già aveva fatto quel disgraziato ex prete, a salire, desiderando di portarselo a casa (l’aveva preso per un omosessuale), ma Marcello a un certo punto tira fuori una piccola rivoltella e si fa accompagnare sotto l’albergo. Che normale casino è ‘sto pazzo mondo!
“Questa era la normalità: questo ripiego, questa forma vuota. Al di fuori di essa, tutto era confusione e arbitrio.” – all’interno c’era sono un’aspirazione a un’eterna e micidiale singolarità.
A Lina, “Marcello avrebbe voluto dirle: ‘Perché non mi ami?’ Io ti amerei tanto. Ma le parole gli morirono sulle labbra…” – e qui Alberto dovrebbe spiegarmi perché queste interne censure, che sono tipiche un po’ di tutti, lui le descriva solo in Marcello.
E anche come l’antifascista Quadri abbia tanti soldi da sbattere via. Ora sta partendo per la Savoia, dove ha una bella proprietà. E dove sarà forse ammazzato dai killer fascisti che, però, forse lo faranno fuori a metà strada: da Parigi alle Alpi di strada ce n’è tanta. In teoria, poi, i tre innamorati, ognuno della persona sbagliata, Marcello, Giulia e Lina dovrebbero raggiungerlo, salvo incidenti (di Quadri, ovviamente).
Marcello mai si era sentito così protetto: “buon marito, buon padre, buon cittadino, grazie anche alla morte di quadri che gli precludeva definitivamente ogni ritorno indietro”: poteva andare solo avanti, ormai. Per sintetizzare: se Lino 1 = e se Quadri 1, ergo 1 – 1 = 0. La partita doppia poteva chiudersi in un bel pareggio e nessun problema lo avrebbe più angustiato.
Unico, solo ipotetico, patema: il suo destino era da un ventennio connesso con quello del fascismo. E se cadeva quello anche lui rischiava il fallimento.
Mi sono appena accorto di una stranezza: le due persone più importante della vita di Marcello si chiamano Lin*. Che sia un caso?
Finita anche ‘sta parte, rimane ora solo l’Epilogo, diviso in appena tre parti. Alberto non fa mancare nulla al suo lettore. Una volta disse in un’intervista che scrivere un romanzo era come avere un compagno con cui passare l’inverno, un tipo silente, che non dava mai soverchi problemi. A leggerlo poi sarebbero bastati tre o quattro giorni lavorativi, non di più. Alla fine dei relativi periodi, autore e lettore (ed eventuale recensore) possono passare al loro prossimo impegno.
Mio padre ha lavorato 46 anni presso lo stesso datore di lavoro e col medesimo, stakanoviano, spirito. L’unica vacanza durava tutto agosto e, alla fine di quel mese, la mia spiritosa mammina, dopo avergli scaldato il caffelatte, lo svegliava dicendo: Rolando! È finita la cuccagna! Ignoro quante ferie nella sua vita si sia preso Alberto, ma so che ha viaggiato molto. Un altro scrittore, di cui non rammento il nome, diceva che un artista, anche quando non faceva nulla, era tutto preso dal suo lavoro. Importante era che, mentre respirava, osservasse il mondo e le sue stranezze. Chi era mai?
Succedono poi varie quisquiglie. Un morto non del tutto tale torna a ri-vivere, presentandosi davanti a lui come se niente fosse. L’ha perdonato, anzi, lo verrebbe pure frequentare. Se lui volesse…
L’altra cosa, ben più epocale, è che è crollato il fascismo. Pensa il nostro eroe: “Se fossi logico, oggi dovrei suicidarmi.” – e questo significa dimenticare che è il destino che ci guida, non il contrario. Al massimo possiamo agevolarlo, dandogli qualche imbeccata, come fanno i pennuti.
“Nella sua solita maniera riflessiva, pacata, paziente, Marcello guidò l’automobile attraverso le affollate vie del centro”: piene di gente che esultava, come per una vittoria sportiva.
“Marcello guidava piano la macchina, paziente, rispettoso di ogni assembramento, avanzando lentamente…” – strano, ho tutt’altro ricordo degli autisti romani.
Vedendo la gente tutta felice, gli viene da pensare: “Al loro posto lo sarei anch’io.”
Nessuno potrà mai affermare che Marcello non sia un tipo tollerante. Quando la moglie gli parla, lui le dà ragione in tutto e per tutto. E lei mai lascerebbe un maritino così. Fino alla morte l’accompagnerebbe.
“… non provava né rammarico, né dispetto, né paura. Era veramente calmo, apatico, quasi spento e disposto a contemplare la gioia degli altri, senza, è vero, parteciparvi, ma anche senza risentirla come una minaccia o un affronto.”
Marcello sta diventando un mezzo filosofo (l’altra metà è ancora in fieri), e pensa che: “vivere, per gli uomini, non voleva dire lasciarsi andare alla pace torbida offerta dalla natura indulgente, bensì essere continuamente in lotta e in agitazione, risolvere ogni momento un minimo problema dentro i limiti di problemi più vasti contenuti a loro volta nel problema complessivo, appunto, della vita.”: una specie di allucinante matrioska.
Poco prima del finale e non so quanto catartico patatrac, Marcello si accorge di amare la bellezza semplice di una campanula: e tale bellezza, vendendola in lei riflessa, lui la augura alla sua capricciosa figlioletta.
Una cosa era “un destino umile e naturale”, un altro era perseguire un’“umiltà volontaria di un adeguamento impossibile ad una normalità fallace”, che poteva solo celare un “orgoglio o amor propri capovolti.”: tam simplex vita.
È l’uomo che la ingarbuglia con le sue goffe nefandezze. La vita però cela degli imprevisti: una casuale triplice esecuzione, per esempio.
Un paio di sciocchezze finali: il racconto di Miller era Il sorriso ai piedi della scala. L’autore messicano era Juan Rolfo, col suo Pedro Paràmo. L’autore che prima disperdeva ad hoc il suo tempo e poi ci scriveva su era Carlo Castellaneta.
Ben più grave è il fatto che alla fine mi sono accorto che qualcosa è stato frainteso nella mia memoria. Non ho mai letto fino a oggi Il conformista. Mi sembrava soltanto. Alberto utilizza dei meccanismi convenzionali che rendono simili alcuni suoi romanzi. Ma la colpa è soprattutto mia, che ho letto più di quello che è umanamente necessario.
Il presente romanzo sarà sempre lassù, in libreria, fra gli essenziali. Il prossimo sarà quello di colui che prima di scrivere, sentiva ch’era il caso, e la necessità, di cazzeggiare. Lo giuro su quel suo ricordo.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Alberto Moravia, Il conformista, Tascabili Bompiani, 1981