“Vita dentro 15.4.22” di Luigi Monfredi e Domenico Morrone: una Giustizia a forma di Sfinge
Vita dentro 15.4.22: l’ho divorato troppo in fretta, questo romanzo-verità, in un giorno solo, e forse non l’ho assimilato nel modo migliore. Il dubbio mi sorge quando, dopo l’ultima pagina, mi accorgo di non aver compreso quel numero a 5 cifre con tutti quei punti intermittenti.
Il protagonista della storia, il co-autore Domenico Morrone, ha passato 15 anni in galera da innocente. 4 ragazzi c’entrano nella sua storia: 2 sono stati ammazzati da un tale (ed è a Morrone che poi fu donata la colpa), 2 l’avrebbero accusato, poi ritrattando il tutto. 22 è il calibro della pistola che è stata usata per compiere quel crimine.
No! Non regge.
Un po’ dappertutto gli autori ripetono che il carcerato diventa un numero, quasi cessando di avere le lettere che completano il suo codice fiscale, per cui immagino che il 15.4.22, sia l’identificativo di Domenico.
In un momento non lontano della mia vita io ero un 72.41.20 e la cosa mi doleva non poco, anche se ogni pomeriggio rincasavo, mi rifocillavo per dormire poi nel mio letto. Quasi tutti i week-end ero in libertà, solo vigilata dopo il 1992, anno della sentenza che sancì il mio matrimonio; e potevo scegliere io come occuparli, ma anche e soprattutto la mia con-sorte e, di rado, con del lavoro straordinario, che tanto straordinario non era mai. Non fui rilasciato per buona condotta, ma per una stramba forma d’indulto, dopo quasi quarantun anni di detenzione marcusiana. E ora posso definirmi un liberto. Ma chi non è, schiavo o liberto, finché campa? Ognuno sta solo sul cuor etc etc… ed è trafitto da un raggio di sole… etc etc…
Il titolo del primo capitolo è ungarettiano: Naufragi. L’autore dovrebbe essere Luigi Monfredi, perché parla della sua scelta “di scrivere un libro come questo” perché è inevitabile “quando incontri un essere umano in condizione di estrema difficoltà, di prostrazione fisica e mentale e comprendi che non avrebbe salvezza senza aiuto. Sei di fronte al fatidico bivio.” – enten-eller, aut-aut. Le vere scelte sono quelle obbligate, mentre le altre sono banali eventualità.
“Non certo perseguendo un interesse privato, ma solo per il bene dell’altro che non si sceglie di lasciare il proprio destino.” – che ti de–stina da qui dove sei tu a là, dove l’Altro.
“… è la storia di una grande amicizia” – che si fonda spesso sulla differenza, per esempio fra chi è libero e stimato e chi è recluso e condannato: una passione, una kam’a, che non ha che un senso, quello che accomuna i due individui, che ti conduce in un mirabile Altrove.
“Di fronte a me un ragazzo di 27 anni che mi fissava attonito dall’interno di una gabbia…” – quasi fosse una belva feroce, ma non lo era per nulla…
Il libro, scritto da entrambi gli amici, è il frutto della loro passione, che tale deve essere, e da questo nessuno di loro due intende scappare. È la più dolce ma al contempo infida delle galere, perché può cessare all’improvviso, per un accidente, o un malinteso, per poi magari riformarsi altrettanto all’improvviso. Chi non ha allontanato un amico, per poi ritrovarlo dove meno se l’aspetta, scagli il primo cellulare!
Da ragazzo amavo i libri di vera evasione, quelli di Papillon e di Felix Milani, per intenderci. Vedevo nella galera, o nella colonia penale, anche quella di Kafka, un luogo non di delizie, è chiaro, ma della magica illusione di poterle un giorno conquistare, fuggendo Altrove, magari a casa propria.
Alla fine del suo più celebre romanzo, Henri Charrière ci tenne a precisare che egli ormai, da anni, si stava comportando da cittadino esemplare e che grande era la sua fiducia di rimanere tale.
Di Felix tanto ignoro, se non che avrei tanto voluto conoscerlo. Non so perché, ma lo accomunavo al mio maestro di scrittura Henry Miller e già mi vedevo seduto, insieme a loro due, nel solito bistrot, stavolta corso, non parigino, perché Felix viene da quell’isola, dove potrei incontrare pure gli autori del presente volume.
Nel capitolo L’esercito dei martiri si dice di quanti siano i casi di errori giudiziari in Italia e, immagino, nel mondo, e se non riporto i dati (che rendono incandescente pagina 39) è per non sporcare la pagina, in quanto non solo sono umilianti, ma danno l’idea della sozzura giuridica che ammuccia, come dicono nel Cilento e in gran parte del sud, che nasconde la verità dietro un’ignobile massa di accuse indebite; e qualcosa dovrà per forza cambiare, ma non sono in grado di dire in che modo, ma solo intuire che dovrebbe trattarsi delle regole d’ingaggio.
La questione è di ardua soluzione. Lascio la parola agli esperti, sperando che non la disdegnino.
Il libro suggerisce un’eventualità: si è voluto risolvere un caso col primo colpevole che passava per strada, anche se, in verità, al momento dell’arresto Domenico era a pranzo con la mamma, e stava per sorbire il caffè al termine di un quieto pranzo familiare.
Che bella città, Taranto! A cui addebito soltanto una colpa, di non avermi avvertito che il lunedì il suo magico museo era chiuso. Da solo non ci ero arrivato. Ricordo la sua parte vecchia con quelle colonne romane e quella cattedrale, e quel provvidenziale bar, in cui mi godo un caffè.
“Giuro su questa punta di coltello macchiata di sangue di disconoscere Madre Padre Fratello e Sorella…” – è un detto delinquenziale tarantino ricalcato sulla frase evangelica Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna, ma che “è il giuramento che si faceva al boss di turno per entrare a far parte della famiglia malavitosa.”
Nel libro sono spesso reiterati alcuni motivi: “A chi mai doveva appartenere Domenico, la cui fedina penale non era mai stata macchiata nemmeno da una multa per divieto di sosta?”; lo “stub”, il tampone che raccoglie i residui di esplosivo presenti sulle mani di chi ha usato un’arma da fuoco, viene ripetuto “dopo otto mesi, quasi nove ormai”, ma poi forse sono dieci o addirittura undici (pagina 96), su questo la certezza occorre in una sentenza riportata nell’Appendice: comunque troppo tempo dopo; l’“arma del delitto”, non fu “mai ritrovata”; “lui, paracadutista della Folgore, pescatore subacqueo…” – e anch’io ero della Folgore, ma lanciere e quando si scioglieva l’adunata così si doveva tutti gridare: Folgore!; Luigi augura “buona fortuna” a un Domenico appena condannato, che gli dice “Ma non sono stato io”; e Luigi, “non avendo nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi”, forse scuotendo il capo, risponde: “Lo so, Morrone, lo so.”; in carcere “si erano verificati 19 suicidi”; “il peso piuma che lotta con i guanti di sci contro il gigante equipaggiato con i guantoni rinforzati coi tondini di ferro”, e che quando cade ogni volta si rialza, sempre più ferito e stremato per i colpi ricevuti; “Domenico ha dovuto pagare ben diecimila euro di spese giudiziarie.” – ed era innocente, e quindici anni dopo fu conclamato tale. Ma pare che non ebbe indietro una lira.
“Quel rumore di chiavi mi risucchiava come una voragine che mi risucchiava sempre di più…”: questo volume è ricalcato su Il rumore delle chiavi, scritto dai due medesimi autori e che vorrei leggere, per capire il perché di questa nuova edizione.
Leggo, a pagina 57 che tu, Domenico, in carcere hai “anche cominciato a studiare”; alla fine del mio commento qualcosa ti dirò.
Il tempo “ti costringe ai minuti che l’uomo gli ha affibbiato, e quei secondi ti martellano le…” – è terribile quel che l’uomo combina all’uomo. È a volte peggio di un orso, quando ha deciso, a ragione o a torto, di escluderti dalla sua grotta, per costringerti a vegetare in un luogo che non ti appartiene, perché sei tu ad appartenere a quel luogo, ormai.
Una frase terribile: “… nessun avvocato avrebbe voluto mettersi contro i magistrati di Taranto.”.
E anche, non più lieve: “… una giustizia impazzita e indisponibile, per salvare sé stessa e salvare un innocente.”.
Un tuo sogno, Domenico: “La grossa catena cadde a terra e la porta di legno si spalancò”.
Una tua realtà, Domenico: “Le manette che aveva ai polsi all’improvviso si aprirono e caddero a terra”: nessuno capì perché, nemmeno tu, forse.
“La speranza è un appuntamento con Dio…” – una frase che adoro e in cui credo appena un po’, però è bella, essendo detta da chi sai tu! Vorrei che la gente leggesse il tuo libro per comprenderla bene.
“… cominciai a leggere la Bibbia e studiarla…” – strani e, al momento, opposti destini i nostri: tu non sei ancora battezzato, ma lo sarai presto, in quanto credi in Lui; io da ragazzo Lo amavo e Lo chiamavo Dione, ed ero battezzato; ora sono un ignorante di quel Dio, anche se l’ho studiato (avevo 17 anni quando lessi in 51 giorni la Bibbia, ed era l’Anno Santo, e già mi professavo ateo).
Chi vivrà saprà dove quel giorno arriverà.
Ci vedremo poi in quel bistrot? Ci inviteremo anche Kafka, Papillon e Milani?
“Non penso più al futuro, non mi appartiene più, mi è stato rubato…” – obietto, Vostro Onore! Nessuno ci può fregare quel che non ci appartiene!
“… ho subito un grave torto giudiziario, che avrò tatuato nell’anima finché vivrò.” – Milani invece aveva fatto tatuare sul petto la scritta: mon droit forçat. I suoi occhi rimasero carichi di rancore anche dopo la sua fuga. Il suo romanzo, che ti consiglio, Il forzato, ti aiuterà a capire. Anche lui si professava innocente, come anche Papillon, ma dovettero entrambi scappare per essere liberi. C’è sempre qualcuno che è stato peggio di noi.
A pagina 118 si sentenzia che sei “portatore di due precedenti per reati contravvenzionali sanzionati con lire 30000 di ammenda – e non un killer spietato.” – siamo nel 2011 e direi che, per oggi, e per l’intero anno, ti puoi accontentare.
A parte che ti voglio bene, e che spero che tu peschi solo a scopo alimentare, ti racconto in breve la storia di Egidio Baraldi, conosciuto col nome partigiano di Walter.
Quando lo vidi per la prima volta mi parve un misto di Tex Willer (ogni tanto aveva ucciso dei nemici: o io o loro, diceva, c’era la guerra!) e di Socrate. Aveva passato sette anni di galera, da innocente. Lui mi disse che ringraziava quei fetenti che lo avevano obbligato ad avere tanto tempo per leggere, in gattabuia, dove poté imparare i rudimenti del latino!
Mi dispiace tanto, e mentre lo scrivo un mio occhio, anzi entrambi hanno un umido fremito, che tu non l’abbia potuto conoscere. Una sentenza emessa dopo tanti anni lo riconobbe innocente. Anche lui fu condannato per motivi misteriosi e che fecero dire a Otello Montanari il suo celebre Chissà parli! Alla fine lo Stato gli diede due miliardi di lire, se non erro l’importo. Poco dopo morì, se non felice, almeno soddisfatto, mi auguro. Mio figlio, quando lo conobbe, aveva cinque anni, Egidio detto Walter ne portava serenamente una settantina di più: due fratelli mi parvero!
Idea, in quel Roxy Bar invitiamo anche loro? Nel frattempo il destino mi ha donato anche una ragazzetta, che da poco è ventenne. C’è posto anche per lei?
Il vostro libro è stato scritto in fretta, come anche la mia reazione, ma non per quello non è prezioso. Anzi: mi avete insegnato, una volta imprecando con un meraviglioso “!!!”, che il tempo è una morsa che può strangolare, creando scalpore, ma anche un gesto amichevole che, nel silenzio del tuo cuore, ti consegna una bella speranza.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Luigi Monfredi, Domenico Morrone, Vita dentro 15.4.22, Antonio Mandese Editore, 2023