“Ventimila leghe sotto i mari” di Jules Verne: un romanzo pedagogico
Comincio la mia reazione a pagina 99, alla fine del Capitolo XIV della Parte Prima di “Ventimila leghe sotto i mari” di Jules Verne.
Poco fa, parlandone con mia figlia, le dissi che questo romanzo d’avventure era quello che ci voleva dopo una lettura impegnativa come Una tragedia americana di Theodore Dreiser. La scrittura di Jules non appare dissimile da quella di H. G. Wells de La macchina del tempo: è semplice, scorrevole, terribile ma con un sottofondo di delicatezza (che manca un po’ a Dreiser).
Le vicissitudini raccontate sono molto intriganti, scritte in modo piano, senza troppi sobbalzi, in un moto continuo e direi quasi flemmatico. Dreiser invece è sempre un po’ nervoso e accigliato. Avrà i suoi motivi per esserlo. Parlai a mio figlio della simpatica figura di Conseil (consiglio in francese), il valletto de “l’esimio professor Pierre Aronnax del museo di Parigi”, che è l’io narrante della storia.
Conseil è il compagno utile per tutti i tipi di viaggio, anche quelli inverosimili, a dir poco servizievole, se non addirittura svenevole: “… aveva un difetto: formalista irriducibile, non mi si rivolgeva mai senza chiamarmi ‘Signore’ in maniera che in certe occasioni era perfino irritante.” – uno che, quando il professore gli dice che il viaggio in progetto è uno di quelli “da cui non sempre si ritorna”, quello sa rispondergli: “Come gradirà il signore.”
Dopo un lungo peregrinare, la nave “Abraham Lincoln”, su cui questa strana coppia si è imbarcata, s’imbatte col mostruoso narvalo che sta seminando il panico dei natanti dell’Oceano Pacifico.
Quando il professore dice al suo lacchè: “Sai che probabilmente salteremo in aria, Conseil?” – per via della pressione, poiché stanno andando in un modo forsennato, con le valvole che sono salite “a sei atmosfere e mezzo”, quel tipo, tutto compito, gli risponde: “Come il signore desidera.”
Poiché il padrone è caduto in mare, Conseil si butta, poiché: “… sono al servizio del signore e l’ho seguito”, nella buona e nella cattiva sorte, promettendo, eventualmente, di annegare prima lui del suo datore di lavoro. Cascato in mare c’è anche il canadese Ned Land, “fiociniere”, un tipo grande e grosso e facile alle liti, quanto Conseil è flemmatico e accomodante.
Il loro piombare fuori bordo è dovuto allo scontro della nave in cui stanno viaggiando con quello strano mostro, che si rivela essere nient’altro che un avveniristico sottomarino, su cui i tre si abbarbicano come su un provvidenziale isolotto, una “piattaforma orizzontale, quasi impercettibilmente incurvata”; dopo di cui “comparvero otto robusti uomini con il viso coperto, in apparenza muti, che ci afferrarono e ci trascinarono nell’interno del misterioso ordigno.”
Il natante è il Nautilus, ed è guidato da un certo comandante Nemo, che ora li sta ora alloggiando, nonché sfamando. Quando il professore lo scorge, capisce dal suo cipiglio che è “evidentemente il capo” che li “stava esaminando con grande attenzione, senza pronunciare parola.”
Quando il comandante gli dice che sarebbe stato un suo diritto, anziché occuparsi di loro, dimenticarsi della loro esistenza, il professore gli risponde: “Può darsi che questo sia il diritto di un selvaggio” e “non di un uomo civile”; al che Nemo (così lo chiamerò d’ora in poi) replica dicendo: “Effettivamente io non sono quello che voi definite un uomo civile.” – infatti, prosegue: “Ho rotto i ponti con la società intera per motivi che riguardano solamente me stesso. Non obbedisco affatto alle vostre regole vi invito a non invocarle mai in mia presenza per nessun motivo.” – apparendo, in vero, alquanto permaloso, e con delle idee tutte sue.
Nemo si rivolge al proprio cameriere “in quella lingua che non riuscivo a classificare”. Riporto, a titolo di curiosità una frase che “ogni mattina” viene ripetuta dal “secondo”: “Nautron respoc lorni virch” – che non mi pare sia riconducibile ad alcun idioma, almeno fra quelli conosciuti da Google traduttore. Parrebbe un dialetto dell’est Europa, chissà, forse del Caucaso, che è il luogo sulla Terra dove si sono incrociati più idiomi che altrove, come insegna l’eminente linguista Riccardo Bertani.
Alla domanda se ama il mare, Nemo risponde: “Certo che lo amo. Il mare è tutto. Copre i sette decimi della superficie del globo e la sua aria è pura e sana. È l’immenso deserto dove l’uomo non è mai solo, poiché la vita pulsa tutt’intorno a lui.”
Egli mostra al suo ospite la sua straordinaria biblioteca, ricca di dodicimila libri, soprattutto scientifici, ma anche romanzi e poesie. Notando un’opera edita nel 1865, l’io narrante deduce che “la crociera” di Nemo sia cominciata non “più di tre anni” prima. Avendo scorto alcune copie di “statue dell’antichità classica”, il professore gli dice: “sono sicuro che siete un artista”. Nemo risponde di essere soltanto “un amatore”, che quelli “sono gli ultimi ricordi di un mondo che per me non esiste più.”
Nemo, dopo aver stupito il suo ospite con vari effetti speciali, dovuti per lo più a un utilizzo quasi magico dell’elettricità, ammette di essere un ingegnere e di aver studiato “a Londra, a Parigi e a New York, nel periodo in cui anch’io facevo parte degli abitanti della Terra.”
Alcuni pensieri quasi opprimono la mente del professore: “Sarei mai riuscito a sapere da quale paese veniva, quello strano personaggio che si vantava di non avere patria? E quell’odio che nutriva contro l’umanità, quell’odio che sembrava sesse cercando vendette terribile, chi l’aveva provocato?” Egli “teneva la mia vita fra le sue mani, rispettava tutti i canoni dell’ospitalità, ma non aveva mai preso la mano che gli avevo teso e mai mi aveva teso la sua.”
Interessante il conflitto dialettico fra l’atarassico servitore e il burbero fiociniere in merito alla fauna ittica. Il primo conosce la tassonomia linneiana dei vari pesci, ma non li sa riconoscere quando appaiono dai vetri che permettono di osservare quel mondo liquido. Il secondo ignora la terminologia scientifica ma sa, quando vede “una balestra cinese”, con chi ha che fare. Ned, secondo Conseil, ha “una classificazione da ghiottone”, cioè da pescatore, quella di Conseil è da archivista di parole, ma non d’immagini.
Tutto quello che si mangia e si usa a bordo è di origine marina: non solo il cibo, ma anche i sigari e la carta su cui si può scrivere. Detto, cioè, scritto questo, riprendo la lettura.
Per quanto riguarda l’equipaggio del Nautilus: “Quegli uomini di mare appartenevano chiaramente a nazioni differenti, benché tutti avessero comuni tratti europei. Sono certo di non sbagliarmi dicendo che vi ho riconosciuto degli irlandesi, dei francesi, qualche slavo, un greco e un cipriota. Quegli uomini, parchi di parole, comunicavano fra loro solamente con quel linguaggio bizzarro da cui non potevo immaginare nemmeno l’origine…”: una specie nuova di apolidi, linguisticamente differenziati da chiunque.
Non bisogna cercare di esaminare questo romanzo da un punto di vista della logica comune, perché esso è straordinario, come tutte le principali opere di Verne. Inoltre, offre al lettore non solo una serie di avventure spettacolari, ma anche la possibilità d’imparare varie nozioni scientifiche. In questo senso è un romanzo pedagogico.
La nazione a cui appartiene Nemo è il mare. Nel capitolo intitolato La foresta marina, egli compone una specie di ode di quel pianeta liquido: “Anch’esso ha i suoi scatti d’ira e i suoi momenti di dolcezza. Ieri si è addormentato come noi e, dopo aver passato una notte di riposo, ecco come si risveglia. Non un buongiorno o altro saluto”; e “sarebbe uno studio interessante seguire le articolazioni del suo organismo, poiché possiede polsi, arterie, ha i suoi spasimi”, essendo in esso la vita “più che sui continenti, esuberante, completa”, mentre “si riversa in tutte le parti dell’oceano”. Chissà, forse in esso sarebbe possibile fondare “città libere, se mai ve ne furono, città indipendenti.” – non più oppresse dai confini nazionali (l’aggiunta è mia, ma sento che Nemo assentirebbe).
Quando un uomo del suo equipaggio rimane vittima di un incidente “i pugni del comandante Nemo si strinsero e due lacrime spuntarono in quegli occhi che non avrei mai creduto capaci di piangere.”
Il corpo del poveruomo viene seppellito in un “cimitero di corallo”, “al sicuro dai pescecani e dagli uomini.” – da tutti i tipi di fiere, soprattutto a quelle a due gambe: “‘Basta con gli uomini, per sempre!’ aveva detto una volta il comandante.”
Egli è un essere unico, poiché pare che il cosmo non preveda due comandanti Nemo. Non si capisce nulla di lui, l’unica cosa è cercare di osservarlo e d’imbastire tutta una serie di supposizioni. La sua audacia è senza pari; ed è capace di ogni tipo di “generoso slancio per un essere umano, per un rappresentante di quella razza che egli sfuggiva vivendo sotto il mare.”
Parlando di un “povero pescatore di Ceylon” a cui ha salvato la vita, egli dice che “è un abitante dei paesi oppressi e io sono ancora, e lo so sarò fino all’ultimo respiro, cittadino di quei paesi.”
Mio casuale lettore, tu cosa preferiresti essere: un ebreo, un curdo, un palestinese o un loro aguzzino? Io né alcuno degli uni, né l’altro. Mi basterebbe non opprimere nessuno. Però, mentalmente, provo pietà per ciascuno di loro, anche se, forse, in misura minore, per chi li ha angustiati per anni, decenni, secoli. Sono tutti uomini, no? O chi più, chi meno? Forse si può affermare che, in fondo, siano tutti ugualmente diversi.
“Passeggiando per il salone”, il professore decide di entrare “nella camera del comandante”.
Dopo di cui, “mi guardai attorno e osservai alcune acqueforti che non avevo notato durante la mia visita precedente. Erano ritratti di grandi uomini, di personaggi storici la cui esistenza era stata interamente dedicata a un grande ideale umano.” – chi potevano essere? Mi viene in mente Gesù, San Francesco, Buddha e pochissimi altri geniali ingenui. Troppo pochi per riempire una sala. In una cameretta ci stanno abbastanza comodi, chi in piedi, chi seduto.
Il professore sente che il cuore di Nemo “palpitava ancora per le sofferenze dell’umanità e sola sua immensa carità era rivolta sia agli individui, sia ai popoli sottomessi. E compresi anche a chi erano destinati i milioni spediti dal capitano Nemo, quando il Nautilus navigava nelle acque dell’isola di Creta insorta.”
Nemo dichiara di essere ricchissimo, ma non chiarisce del tutto da cosa derivi la sua ricchezza. Né se sia meritata o ingiusta, rapinata oppure legittima (a volte pesca dal mare chilogrammi d’oro da dei vascelli sommersi). I soldi sono lo sterco del diavolo, ma non odorano, come dicevano gli antichi. Vanno però utilizzati nel modo più saggio. Non si capisce tra l’altro se sia prevista una retribuzione per gli elementi dell’equipaggio (che si esprimono in una lingua esoterica, oppure con un “alfabeto muto”), o se basti loro essere alloggiati in quell’eremo e sfamati a vita (del resto non vi è per loro alcuna possibilità di spendere i soldi).
E qui viene da chiedersi: cosa succederà a chi di loro non sarà più in grado di svolgere la sua mansione, qualunque essa sia e… No! Ho scritto poc’anzi che non bisogna cercare di essere logici nella disamina di questa favola. Quel che conta è la morale che se ne deve trarre, e ancora è presto per tentare di decifrarla. Posso dire soltanto che questi servitori sanno rimanere al loro posto (in un modo non dissimile da Conseil), per cui quando Nemo, il professore e il suo domestico sbarcarono su una spiaggia vergine, “i due uomini dell’equipaggio restavano nel canotto.” – e a me tanto interesserebbe conoscere la storia di ognuno di loro, da Nemo all’ultimo dei mozzi.
“… io, Nemo, ho raggiunto il Polo Sud al novantesimo grado e prendo possesso di questa parte del globo, pari a un sesto dei continenti conosciuti.”
Quando un suo marinaio, gridando “Aiuto! Aiuto!” in francese, viene catturato da un immenso polpo, “il capitano Nemo, rosso di sangue, immobile presso il fanale, guardava il mare che aveva inghiottito un suo compagno e grosse lacrime gli scendevano dagli occhi.” – costui, più che un datore di lavoro, è una specie di Padre, che ha emanato una legge da cui non si può derogare: “chi si imbarca sul Nautilus non può più abbandonarlo.”
Attenzione, però, si sta profilando ora all’orizzonte una “nave da guerra”, dalla nazionalità imprecisata, che pare volta a un unico fine: distruggere il Nautilus. “Il capitano Nemo era lì: muto, accigliato, implacabile…”.
Il titolo del capitolo è “Una strage”, in cui “sventurati marinai si slanciavano sulle sartie, si aggrappavano agli alberi, si torcevano. Un formicaio umano sorpreso dall’invasione dell’acqua! Paralizzato, irrigidito dall’angoscia, l’occhio spalancato, il respiro affannoso, senza fiato, senza voce, anch’io guardavo.” Infine, “la massa oscura scomparve con il suo lugubre carico trascinato nell’enorme risucchio.”
Poi c’è il momento che un folle come me osa definire religioso: “quando tutto fu finito, si diresse verso la porta della sua stanza, l’aprì ed entrò. Lo seguii con lo sguardo. Sulla parete di fondo notai il ritratto di una donna e di due bambini. Il capitano Nemo vi si inginocchiò davanti.” – forse per domandare perdono?
Un ragionamento discutibile: “Qualunque cosa avesse sofferto, non aveva diritto di vendicarsi in quel modo. Mi aveva reso se non complice, almeno testimone della sua vendetta. Era troppo.”
Finora, per quel che si sa, il Nautilus non aveva mai attaccato nessuno. Per quanto riguarda la nave Abraham Lincoln, Nemo ci ha sempre tenuto a precisare che si era “limitato a metterla nell’impossibilità” di nuocere. E che la collusione con la “Scotia” era stata un caso “assolutamente fortuito”. Anche nel caso di questa “Vangeur”, vendetta in francese, quella di Nemo può definirsi una legittima difesa. Per tutti i sette mesi in cui i tre naufraghi sono stati suoi ospiti tutto si può dire tranne che Nemo abbia coltivato passioni diverse dalla ricerca scientifica, motivato com’è da uno spirito indagatore, del resto condiviso dai suoi tre compagni di viaggio.
Un salvifico “Maelström! Il maelström!” permette ai tre naufraghi di scappare su un canotto, mentre risuona uno “spaventoso fragore attorno al nostro fragile canotto!”.
Che è successo? Chi, vivendo, leggerà L’isola misteriosa saprà.
In I cento libri che rendono più ricca la nostra vita, il critico Piero Dorfles, provocatoriamente fa il parallelo tra Nemo e un noto terrorista internazionale. Sento di dover rilevare che egli mi è parso la persona più pacifica di questo mondo, anche quando si rende responsabile della morte di centinaia di persone. E anche la mia è una provocazione. Egli anela alla pace e alla giustizia, ma soprattutto alla solitudine. Non so chi Nemo sia, né da dove venga. Mi piacerebbe saperlo, ma temo che non sia un fatto rilevante. Egli è colui che fugge dalla società, mentre chi la vuole distruggere, per poterla cambiare a sua immagine, è da essa attirata.
Se tu vai nella foresta, con la volontà di uccidere, non puoi aspettarti che le fiere che la abitano non cerchino di sbranarti. Afferma Nemo: “Ci hanno attaccati: la risposta sarà terribile…”. Poi dice anche: “… sono la giustizia. Io sono l’oppresso e quello l’oppressore: a causa sua tutto ciò che ho amato e venerato, patria, moglie, figli, padre e madre, tutto ho visto perire! Tutto quello che odio è là! Tacete!”
Nemo vive di ricordi, o forse nonostante i ricordi. Egli non riesce a scordare quel che ha patito. È un uomo che odia ma che non si mette a cercare i suoi nemici. Se li trova, essendo il mondo piccolo e facilmente solcabile, egli li annienta senza pietà alcuna, ma soltanto se attaccato.
Egli vive in un presente che non si comprende del tutto, ma che va rispettato. Se non avessi più, nel mondo esterno, alcun affetto infinito, come lui pare non abbia più, forse cercherei anch’io di isolarmi dal mondo. In questo io lo giudico un mio simile, senz’altro più lui di chi ha ordinato di distruggere il suo Nautilus. Egli non rinuncerà mai a difendersi dall’oppressore. E ha la mia benedizione, per quel che vale.
Non tutti la pensano in questo modo. C’è anche chi preferisce non combattere, nemmeno per salvarsi la vita. Salvo D’Acquisto e Padre Kolbe decisero d’immolarsi al cospetto della stupidità e della violenza degli umani, pur di salvare il prossimo, senza manco conoscerlo, chiunque egli fosse, di qualunque equipaggio facesse parte. Questi due martiri non avrebbero causato l’affondamento di alcuna nave, per proteggere la propria vita e la propria libertà.
Ho scritto martiri, dal greco màrtyr, testimone. Di cosa? Qual è il segreto che questi strambi individui cercano di svelare al mondo? Cosa aveva per la mente, la sera, Cristo, prima d’addormentarsi? So di non saperlo. Anzi: non so nemmeno se lo so. Immagino che si tratti di un Mistero insolubile.
C’è chi intende la vita come una volontà di potenza, di unione del proprio sé verso quello che è gli è esterno, in uno sforzo per andar sempre oltre se stessi. Io penso che tutti, chi più chi meno, abbiano la tendenza a voler unire il proprio sé al resto dell’umanità, per informarla con la propria anima, costi quel che costi. Ognuno a modo suo.
Nemo, per motivi misteriosi, non solca una linea illusoriamente diritta. La sua volontà di potenza è rivolta esclusivamente al proprio curvaceo e fluido fine, che egli tenta di far coincidere con quello dell’immenso oceano, lontano da coloro che, per tragico errore, egli riteneva i suoi simili. Ora lui si crede simile al mare che lo circonda, agli esseri che lo popolano, e a pochissimo altro. Non certo a quell’assurda creatura implume di cui, però, se capita, e se gli è cara, sa ancora piangerne la morte.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari, Edizioni Crescere, 2011