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“La grande Zelda” di Pier Luigi Razzano: l’anima correlata del Grande Gatsby

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L’io narrante è lei, la grande Zelda, che ripete le parole sentite dagli altri: “Povera Zelda… Come sta Zelda?… Scott, dicci come sta Zelda… Povero Scott… Cosa succede?…” E ancora: “Povera Zelda… Come sta Zelda?… Cos’è successo a Zelda?…

La grande Zelda di Pier Luigi Razzano
La grande Zelda di Pier Luigi Razzano

Zelda scappa: “con le mie belle gambe allenate correvo, consumavo l’erba…”lei è una ballerina, che non sa stare al suo posto, ma ora il suo posto qualcuno ha deciso, per il suo bene, che è lì, nel luogo da dove sta ora scappando. E dove sarà alla fine riportata. La grande Zelda fisicamente è lì, ma la sua mente è e sarà sempre altrove.

È una difficile convivenza fra Zelda e “questa signora”, l’infermiera che la accudisce e che la vuol gestire come se fosse una bambina, che “vuole farmi credere che non c’è altro oltre questa stanza e le siringhe, le sedute quotidiane nello studio del dottor…” – etc etc.

La sua vita esterna non le appartiene più, da quanto “il mondo ha smesso di nascere ogni giorno” – e di morire la sera, com’è naturale. Nessuna cosa, ora, è naturale. Tutto è illogico, come la mente di Zelda.

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“Questa signora entra ogni giorno nella mia stanza e non comprende che nessuna delle giornate trascorse qui mi appartiene” – e “non può minimamente immaginare che il mondo lì fuori è nato solo per me.”

Zelda è la padrona del suo mondo. Ora il suo mondo è stato bombardato dagli altri e lei vive in un rifugio. Sta relativamente (avverbio insolito per lei) bene perché chi la sta salvando è la sua anima, che è rimasta libera.

Il male che compiamo nei confronti di chi non giudichiamo adeguato ai nostri parametri di vita, alle nostre convenzioni, è un crimine che cerchiamo di gestire pensando che lo si compie perché è giusto così. Ognuno crede che il mondo debba andare in un certo modo e non in un altro. C’è chi decide e chi no. Chi rinchiude e chi viene rinchiuso. Chi attacca e chi subisce. Sic transit pugna mundi.

“Ieri era identico a quando avevo dieci anni e alla felicità potevo addirittura dare dei morsi, tanto si spandeva nell’aria.” – allora mica ci si pensa, si bada a mordicchiare e basta.

Mentre Zelda è dentro, “il mondo fuori pulsava, continuava a chiamarmi.” 

Una come te, cara, è sempre libera e sempre prigioniera. Non può mai scappare, né realmente essere ingabbiata. Tu sei bipolare, direbbero oggi. Vi sono due Zelda: una è fuori, l’altra no: sono correlate, entangled. Al mutare di una, l’altra si trasforma, simmetricamente, come l’immagine in uno specchio. Tutto, nel cosmo, è correlato a tutt’altro.

“Ricordo ancora come tutte le mie amiche a bordo piscina guardarono sbalordite il mio costume da bagno color carne; qualcuna era convinta che fossi nuda…”.

Dici di amare il passato che si può “mordere e spezzare, facendo uscire la vita che c’era e che non ha smesso di volersene andare in giro per il mondo.” – se il tempo è un’illusione, lo è anche la sua scansione, il suo mutare forma dentro e fuori di noi. Anche il dentro e fuori è un’invenzione che serve per manipolare il cosmo, come se fosse di nostra esclusiva proprietà.

Quella notte “mi sarei persino spogliata di tutto: volevo indossare New York, vestirmi di lei, proprio come facevo quelle notti nel fiume a Montgomery…” – la tua carne era del colore del mondo. Tu la vedevi così. Ma il colore è un’illusione creata dalla luce.

Se lui dice al mondo che ti ha sposato non per caso, ma per impossessarsi di te, tu dici al mondo (magari sorridendo): “Smettetela. Io sono mia. Evitate di annegare nelle banalità.”

La tua consapevolezza appare strana in questo cosmo di sottostimati: “Posso diventare ogni cosa io decida di fare.” – punto. Nulla d’aggiungere.

“… avevo un segreto da rivelare: solo chi è un vero protagonista dei fatti può raccontarli.” – e anche questa è un’illusione. Ognuno (anch’io) crede di narrare la versione vera dei fatti, come se davvero esistesse. In questo momento è Pier Luigi Razzano a dire la sua, dicendo la tua. E io dico ora la mia.

“Io sono una donna che decide di baciare, che ha voglia di baciare, che bacia quando vuole, chi vuole. Bacio senza essere moglie o amante. Bacio perché ne ho voglia. Senza stare lì a ragionare su ciò che sarà, ciò che significherebbe, cosa succederà dopo.”

Scott teme il destino, tu no. Tu sei il destino: “Avevo cavalcato il sogno di Scott, era diventato anche il mio. Nulla mi spaventava, l’orizzonte era illimitato. Potevo diventare qualsiasi cosa, anche se non avevo ancora deciso. Il mondo era a mia disposizione.”

Dicesti a tua madre che non capivi “perché la luce e il vento e gli alberi fossero governati da un meccanismo e da un senso che a noi restavano sconosciuti, mentre accettavamo quelle misteriose regole del tempo che accelerava o scorreva lento ed esausto e affaticato, per poi esplodere all’improvviso in un luminoso giorno d’estate, con un soffio di vento impercettibile, procedendo a disegnare sul divano ombre ogni giorno nello stesso punto, dopodiché la luce calava diventando…” – altro. È un mistero per me, se queste parole appartengono a te o a Pier Luigi. Ora appartengono a me. E lo stesso vale per gli arcani del tempo. So solo che questo secondo capitolo è intitolato 1920. Il primo era 1930. Dieci anni dopo: così è stato deciso.

“Corsi di sopra e andai in camera a prendere il mio diario.” – chi c’era con te? Pier Luigi?

George Jean Nathan critico, abbagliato dalle tue gambe agitate, sfogliando il tuo scritto, un po’ invasato, forse per via del fatto che non è sobrio, o forse perché lo pensa davvero, dice: “Abbiamo una grande scrittrice…”,

Scott urla: “Basta!” e poi nega la possibilità di “pubblicare il mio diario”. George Jean insiste: “Lì dentro c’è un suono con tonalità inaspettate. Il mondo deve ascoltarle.” Scott è irremovibile: “Il diario di Zelda è di mia proprietà.” e poi anche: “Zelda, sei la mia opera…”.

Zelda, tu sei anche l’opera di Pier Luigi, forse anche, in nuce, la mia. Per ognuno l’opera è sempre un altro da sé. Je est un autre. La verità è una finzione, ma una finzione che si erge a verità è la finzione più grande di tutte. Basare una finzione su una verità è quel che si chiama scrittura letteraria. Far sì che una verità serva da base a una scrittura è qualcosa che reca dolore, se quella verità è troppo luminosa. Il tuo diario non l’ho mai letto, ignoro se esiste, non so nulla di te se non quello che ha scritto Scott, quel che ha scritto Pier Luigi. Entrambi hanno diffuso una finzione soltanto simile alla verità. Diversa da essa.

Scott “disse che il diario era la sua bussola quando si perdeva. Le volte che sentiva di raschiare il fondo dell’ispirazione per fortuna che c’era il mio diario, e anche le lettere che ci eravamo scritti.”

Non è la prima volta, né sarà l’ultima, che l’equilibrio in una coppia lo rechi la metà squilibrata.

“… e disse che dal mio diario stava nascendo il nuovo romanzo e un racconto che si sarebbe chiamato…” – ogni scritto, per uno scrittore, anche per Pier Luigi, anche per me, immagino, è un bastone con cui reggerci, e anche per dirigerci, come fanno i ciechi.

Ma tu, Zelda mia, perché dicesti a quel frastornato critico che stava fissando le tue gambe, “che per conquistarmi ci volevano romanzi e racconti.”? – sempre e solo su di te? O a tema libero?

“… pensano addirittura che sarai sempre sciocca e dedita al niente. Quella gente ti reputa imprevedibile, per loro sei solo un’ininterrotta sequenza di bizzarrie e balli e alcol di contrabbando e vestiti eleganti e tuffi nella fontana in piena notte. Nient’altro.” – tu sei tutt’altro.

“La verità è che nessuno di loro conosce la vera parte di me. La più importante.” – Pier Luigi sta tentando, anch’io ora, grazie a lui.

Zelda Sayre e Francis Scott Fitzgerald
Zelda Sayre e Francis Scott Fitzgerald

“Zelda Sayre è stata scrittrice prima di conoscere Francis Scott Fitzgerald. Questo neppure Scott lo sa.” – io inizio a saperlo. Secondo te cosa farò quando vedrò un tuo romanzo esposto su una bancarella al mercatino di Correggio?

“A sei anni, dopo il primo giorno di lezione, le dissi che non sarei più andata a scuola, non volevo perdere tempo ad ascoltare cose già sentite. Sapevo leggere, sapevo scrivere, e volevo di più.”capitò anche a me, nel ‘77.

“… vivevo nelle cose che stavo immaginando.” – dove tu eri la divina creatrice di mondi assoluti.

“Fino a un attimo prima Cornelia era stata dentro di me. Si muoveva in me. Le frasi nella testa allestivano il suo mondo, la prendevano sottobraccio…” – e trovava di che vivere, di che cibarsi, di che vestirsi.

“Ero trascinata dalla potenza di saper dirigere ogni cosa nella direzione che volevo, decidendo di scrivere la storia di Cornelia.” – eri una parte del suo destino, non tutto, anche il tuo destino era parte del destino di altri.

“Desiderava un futuro, lo cercava fuori casa, nel modo che voleva lei, un modo mai deciso da altri.” – e qui ho dei dubbi sulla sua consapevolezza: davvero credevi di non essere condizionata da altri, da te in prima luogo? È impossibile che un qualsiasi personaggio, una qualunque persona sia del tutto conscia delle sue limitazioni. Egli dice io, io, io e non sa che ci sono gli altri, altri, altri.

Mi viene in mente un passaggio precedente: Scott “se ne restava rigido alla scrivania scansandomi se provavo a sedermi su di lui alzandomi la gonna per fare l’amore.” – ed era come se un personaggio del suo romanzo uscisse dalle pagine e col suo fascino animale gli impedisse la creazione. Un dio reso impotente da un umano voglioso di sesso. In quel momento non pensavi a scrivere, né a far scrivere, volevi il tuo Eros.

Lui “decideva di starsene tumulato in albergo per l’intera giornata, io avevo bisogno di una tregua, di riposarmi passeggiando e guardando le vetrine, anche se ero sola, senza nemmeno…” – la differenza fra voi due è che lui era un mezzo monomaniaco, che andava ad alcol, tu tre quarti di polimaniaca, che andava grazie a tutto quel che incontrava. Insieme non rappresentavate un’unità, ma c’era sempre una parte, la tua, che debordava.

“Sei una bambina. Sono stufo di questo atteggiamento. Io devo scrivere. Per te ogni cosa è un gioco, una leggerezza. Sei presente anche quando non ci sei.” – sottinteso: sei assente anche quando ci sei. Ci sei e non ci sei, in altre parole.

Dice Zelda all’amato scrittore: “… non so mai quando una cosa può accadere. Questo una volta piaceva anche a te. Ricorda che, in ogni caso, sono io a far accadere le cose, e non mi lascio costringere da nessuno…” – un enzima con la gonnella, un catalizzatore che è destinato a distruggere, anche se stessa, per permettere alla materia di edificare quel che è nuovo, ma basato su quanto è stato vissuto fino ad allora. È ora di entrare nel 1921.

“… in un silenzio felice che non volevamo toccare; lo distribuivamo per strada alle aiuole e ai riflessi nelle vetrine, ogni passante doveva spostarsi di fronte a quella novità così grande che neanche noi credevamo vera.” – un esempio della prosa di Pier Luigi.

Amatevi e moltiplicatevi:

“Avremo un altro Scott.”
“Avremo due Zelda.”
“Siamo incinti, mio amatissimo Scott.”

L’idillio dura un po’, poi cessa un po’, poi torna a durare un po’.

“Davvero mi deludi, Scott. In alcuni momenti sei proprio una grande, enorme, insaziabile, delusione…”è la prima volta che sento definire insaziabile una delusione. A chi devo questo regalo, a Zelda, a Pier Luigi? A Scott?

“… gli dissi che avevo riconosciuto molte pagine del mio diario…” – era quell’enzima di cui si diceva. “Lì dentro era nascosta tutta la nostra vita. Però non mi importava. Scott era muto. Come ipnotizzato.”

Ti paragono alla June di Henry Miller. Lei pretendeva che il suo amante-scrittore mutasse la descrizione che aveva fatto di lei, che creasse una sua immagine perfetta e dorata. Poiché lui non lo accettava, quelle due anime s’accapigliavano. Tu non hai di queste bazzecole. Tu vivi. Lui scrive.

Tu hai la funzione di avere una moltitudine di funzioni, alcune costruttive, altre distruttive, lui ne ha una sola: scrivere.

“Ho pensato che mentre nasceva nostra figlia, Scott stava scrivendo. Ho pensato che mentre il mio corpo si disfaceva liberandosi di nostra figlia, Scott stava scrivendo.”

Passa svelto un anno e arriva il successivo: 1922. Zelda ora intende abortire il secondo Scottino. Lui l’accusa di avergli tenuto tutto nascosto e che con lei: “tutto deve strabordare, essere oltraggioso, scioccante…”. – l’enzima, più è complesso e più… Idea, e se passassimo al 1923?

Un anno di crisi, di bevute esagerate, di gelosie, di successi, di fiaschi, di incomprensioni. Dal capitolo estrapolo una serie di affermazioni della nostra eroina (non so se ha senso definirla così, credo di sì, però). “In realtà sono piena di speranze. Voglio solo essere me stessa e godermi la vita. L’ambizione è per chi è ansioso di sbarazzarsi della condizione in cui si trova. L’ambizioso sta lì e punta semplicemente a liberarsi, guarda solo a quel punto esatto da conquistare. Ossessivamente. Solo uno. E io mica ne voglio uno solo. Non mi basta ogni giorno ne nascono tanti, sfilano lungo un ampio orizzonte che mi si apre davanti, niente e nessuno è escluso…” – la quale può significare che lei non vuole andare dal punto in cui è in un punto determinato, ma piuttosto attirare verso di sé tutto l’insieme di punti, che solo lei, con la sua presenza, renderà significativi. Lei era scrittrice, pubblicista, ballerina, nuotatrice, disegnatrice… era tutto in generale, senza esserlo mai in modo particolare ed esclusivo. Lei non escludeva a priori, sceglieva di mano in mano la sua condizione esistenziale.

Un gesto che ha fatto o minacciato di fare più di una volta: “Gli lanciavo in faccia quel che era rimasto nel mio bicchiere e continuavo a ballare tra gli invitati increduli…” – un gesto simbolico, quasi un battesimo, un voler emendare il suo uomo dalla stupidità.

Quello che li unisce è, oltre alla passione amorosa, quella per l’alcol. Il lancio del goccio di Martini residuo assume anche il senso del tradimento amoroso (Zelda ha sempre un’unica direzione, ma un doppio senso). Beviti pure quest’ultimo goccio, mentre io mi do da fare con qualcun altro.

Poco prima Scott gli aveva chiesto di smettere di ballare, perché lei ballava troppo, e il suo fine, le diceva, era solo di esibire le sue belle gambe. Questo capitolo è il più tetro e, per citare, una parola presente nel testo, il più ricco di afrore, penetrante e stucchevole. Ora pare che si stia affacciando il 1924, l’anno più lungo, considerando le pagine.

“Arrivammo a Roma negli ultimi giorni di ottobre. Per ricominciare di nuovo…” – altri avrebbero detto per ricaricare le batterie, ma Zelda è contemporaneamente Śiva e Visnù, distruggere e ricostruire per lei è un tutt’uno.

“Con il mio corpo abbronzato e ancora pieno di vita scandivo giorni sempre più belli, sempre identici. Tutto questo alimentava in me una lenta angoscia…” – la lentezza non appartiene a Zelda, lei è quasi più ipercinetica di un Tesla. Chissà che sarebbe successo se i due si fossero incontrati?!

Zelda è furiosa, quando si accorge che “Ginevra King è Daisy! Ammettilo! Non te ne sei mai liberato! Ammettilo! La rimpiangi come fa Gatsby!” – Ginevra era una ex di Scott.

“Sei un bambino, Scott. Non te ne sei mai liberato, ammettilo. Dillo ora! Tu insegui i fantasmi. Non me lo meritavo…” – e tutto ciò mentre “il sole del Mediterraneo brillava impietoso.” – come se cercasse di rubare la scena a qualcuno.

Non succede granché: a parte che i due sposini passano da una ciucca all’altra, e il fatto, non trascurabile, che Zelda si concede a un atletico aviatore, di nome Jozan, che condivide con lei la passione per il nuoto, ma non solo quella: “Stavo facendo l’amore con un uomo che non era Scott.

Ero felice.”

Zelda è fuori di sé: “La voglia di Jozan mi ubriacava.” – quell’uomo, non solo fisicamente, è un animale notevole, che le fa dire: “Persino la sua assenza aveva un corpo. Enorme, ingombrante, necessario.” – una presenza continua, anche quando non c’è. Una fiaccola che brucia, anche quando è distante mille miglia.

“All’alba decisi di lasciare Scott.”quell’allucinato e ormai spento mingherlino.

Quando Scott la chiama “puttana traditrice”, lei gli ride “in faccia con ferocia, disprezzo, odio e indifferenza, tutto quello che avevo a disposizione per allontanarlo da me e non mettermi a piangere.”

Una frase che lei urla a Sara m’intriga: “Il futuro è non credere nella conservazione.”panta rei, sempre quella cosa lì, tutto si trasforma mentre dà l’illusione di nascere per la prima volta. Niente di nuovo sotto il sole. E chi più ne ha più ne metta.

Finisce l’anno con Zelda svenuta. Quando di sveglia il suo pensiero non è fra i più ottimisti: “… riuscivo persino a ridere. Sapevo, però, che la catastrofe è solo il preludio della tragedia.” – anche questa è una frase (di Zelda?, di Pier Luigi?, di Scott?) che va interpretata. La vita è una serie di catastrofi, piccole e grandi, ma la tragedia è tutt’altro. Un evento catartico? Definitivo? Assoluto?

1925, ultimo capitolo: sta parlando “il signor Riccardo”, Zelda lo interrompe, Scott la riprende, e le chiede di far “continuare il signor Cerio”. Al che lei risponde come farei: “Scott, non fare il serioso, stiamo chiacchierando così bene!” – a volte mi domando come faccia Pier Luigi a interpretare così bene il ruolo di Zelda.

Mi sento di somigliare assai più a lei che a quell’incorporeo yankee, più alcolizzato di lei, più instabile, certo, anche talentuoso, ma boring come non mai. Zelda non lascia Scott, non ci pensa proprio. Lei deve ancora scrivere la propria vita attraverso la mano di lui.

Scott fa un lungo sogno in cui spuntano, giunti chissà da dove, degli “occhiali da aviatore. Sono quelli di Jozan”. Questo dà la stura a un dialogo fra sordi. Lui l’accusa di tante cose, fa cui: “Hai infettato la mia mente. Ci hai messo dentro un fantasma.” – lei non capisce, non dico che non ci voglia provare, non so, non la comprendo manco io questa donna, e lei non fa che dire che “è stato solo un sogno, lo capisci?” – e anche: “stiamo parlando di un sogno: ti alteri per delle semplici ipotesi, per qualcosa che non esiste; questo è peggio i un capriccio, e poi sarei io la bambina…” – sono incerto, forse lo è anche Pier Luigi.

Scott: “Non capisci, sto sprecando energie, è inutile… Voglio solo scrivere e sistemare Gatsby” – questo è il suo compito istituzionale, quello di Zelda, qual è? Creare e distruggere? Intanto i due continuano:

“Non è vero. Non c’è stato nulla.”
“Bugiarda!”

Pier Luigi Razzano
Pier Luigi Razzano

Fuggire è l’ultima occasione per rimanere con se stessi. “Mi sarei subito imbarcata per tornare in America, dimenticandomi di…” – ma poi, che succede?: “Non riuscivo a parlarmi, né a muovermi era lui, ne ero certa. Riconoscevo le mani forti e…” – era Jozan che “mi aveva trovato, era arrivato a Capri per portarmi via con lui. Tremai…” – e tutto, come appare, dispare: “Fino a un attimo prima ero certa di averlo di fronte a…” – l’incertezza rimane padrona del campo: “Ero sicura che fosse quella di Jozan. Solo per un attimo fui tentata di…” – Zelda torna a casa, come sempre, amorevole. “Scott grondava di felicità…” – e “… prima che sprofondasse di nuovo nel suo umore cupo, io cercavo di tranquillizzarlo dicendogli che tutto sarebbe…” – mi viene in mente di quando lei, a pagina 311, aveva ricevuto una lettera con “nessun indirizzo, solo un nome: Edouard Jozan. Qualunque cosa avesse potuto scrivermi non conteneva il suo corpo. La strappai. Scott faceva grandi progressi con il romanzo.”

Non era semplice per l’uno essere il coniuge dell’altro, però non era impossibile, in fin dei conti.

“… c’era una sinfonia di armonie nei loro tentativi inarrestabili. Ogni pensiero sgorgava fuori dal mio corpo, ero solo movimento e suono, che propagavo coi tacchi, il fruscio della gonna e…”.

Capri è il luogo in cui ho visto più defibrillatori, ce n’è uno ogni poche centinaia di metri.

“Che luogo maestoso, Capri! Qui le persone vengono a cercare ciò che hanno perso…” – non sempre, a volte finiscono per smarrire quel che hanno.

È un luogo dove la celebrità diventa banale tanto è frequente. Natalie Cliffor Barney porta Zelda Sayre Fitzgerald a trovare la sua amante, la pittrice Romaine Goddard Ellington Brooks.

Zelda dice di sé: “Mi diverto. E poi scrivo, ballo… in certe ore faccio la moglie, in altre la mamma, quando mi annoio invento…” – etc etc. Al che quella ruvida pittrice le dà dell’“evanescente come ogni americana di questi tempi. Vi agitate e non concludete nulla.” – poi, essendo entrambe belle ma schiette, cominciano a dialogare con emozione, trepidando.

Una frase di Romaine va riportata: “Quando dipingiamo, aggiungiamo al mondo dei pezzi che gli mancavano. Zelda, chiudi gli occhi per recuperarli.” – Zelda è una che, più chiude gli occhi, più sa scorgere i contorni della realtà. Il mondo però è già bell’e finito. E tutto da scoprire.

Non cito né riporto più nulla, a parte la definizione che, nei ringraziamenti, l’autore rivolge a un certo Claudio, definendo il “miglior fabbro”, che mi ricorda uno che cantava in quel di Pisa…

Io non sono un tipo che dà voti, né valutazioni circostanziate, né le voglio per me, e per questo mal digerivo la scuola. Credo che il compito che Pier Luigi si è attribuito, dare la voce a una donna che più donna non si può, imprevedibile come poche, sia stato veramente arduo da completare.

Non mi è dato sapere quanto si sia basato su fonti storiche attendibili, quanto sia stato invece inventato di sana pianta. Ma che importa: d’ora in poi, per me, Zelda è la donna che lui ha qui rappresentato.

A thing of such feminine beauty is a joy for ever!

 

Writing by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Pier Luigi Razzano, La grande Zelda, Marsilio editori, 2022

 

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