“Memorie d’una ragazza perbene” di Simone de Beauvoir: crescere è rettificare il proprio cammino
Da circa metà della Parte quarta de Memorie d’una ragazza perbene di Simone de Beauvoir, estrapolo queste proposizioni servili: “… se pronunciavo parole come ‘salvezza’ o ‘realizzazione interiore’, che mi venivano spesso alla penna quando scrivevo il mio diario…”

Lo spezzone di frase è significativo per comprendere due motivi complementari di questo libro di memorie, il secondo dei quali riguarda il genere letterario. Non si tratta di un libro di finzione, se non in senso lato: ognuno di noi, raccontando di sé, compirà più o meno volontariamente alcuni tradimenti della realtà vissuta. Ma è l’unico modo per dimostrarsi sinceri.
Non è corretto aspettarsi da un libro autobiografico l’esattezza storica, quando non la precisione è prevista nemmeno nella ricerca scientifica, dove si ambisce al massimo alla meticolosità, che conduce a una discreta approssimazione, e mai alla certezza assoluta, come insegna Werner Heinsenberg col suo celebre principio d’indeterminazione, e Kurt Godel col suo teorema d’incompletezza, da cui consegue indecidibilità dell’operazione aritmetica.
Da uno scrittore, non solo autobiografico, ma tout court ci si augura quello che definirei l’onestà artistica, che non sono in grado di definire con esattezza, ma che forse corrisponde al significato della parola in sé stessa: onore (è un azzardo etimologico) ha a che fare con onus, peso, che deriva dal sanscrito anas, che significa carretta con carico. Ognuno ha la sua da portare.
Quando scrisse i suoi Tropici, lo scrittore più memorialistico del XX secolo, Henry Miller, garantiva il lettore della sua scelta di non voler più rileggere quanto andava scrivendo: come veniva veniva! Io non credo (quia absurdum) nella sua lealtà in senso assoluto, ma in quello relativo sì. Egli era uno scrittore onestamente furfante come pochi altri, ed essenzialmente sincero nel trasfigurare miracolosamente la realtà.
Qual era il primo motivo? Le frasi servili sono servite a esprimere la servitù a cui l’autrice ha dedicato la sua vita: non tanto per attestare l’assoggettamento alla o alle ideologie, quanto al fine di perseguire la Verità e donare, almeno in parte, se stessa all’Altro.
Chi era Simone de Beauvoir? Una ragazza molto per bene.
Come definire questo suo libro, se non come un romanzo autobiografico, basato su quanto va confessando d’aver vissuto, cioè su quanto del tempo trascorso e non perduto (perché alla fine ritrovato, grazie alla scrittura che ebbe per tutta la sua vita) le è rimasto da utilizzare ai fini umanistici?
“Non potevo accettare con indifferenza la caduta che mi precipitava dalla pienezza al vuoto, dalla beatitudine all’orrore; se la ritenevo fatale mi rassegnavo: non me la sono mai presa con gli oggetti. Ma non volevo saperla di cedere a quella forza impalpabile che sono le parole; il fatto che una frase buttata là negligentemente: ‘bisogna… non si deve’, rovinasse in un attimo le mie imprese, le mie gioie mi rivoltava…”
Il suo nobile discorso continua per quasi quattrocento pagine. Ho deciso di riportarne solo questa parte, per iniziare e solo ogni volta che serve a indicare i dondolii della sua anima. Esso è fondato sulla ricerca esistenziale e intellettuale, nello sforzo mai trattenuto di andare ognora oltre: di ex-agerare, mantenendo una compostezza operativa che garantisce la coerenza e alimenta la forza operativa. Il desiderio che provo, leggendo, è di sognare di comunicare con lei, per poter anch’io avanzare nella mia ricerca (che è anche di Simone e di tutti), ed è quello che sto tentando di fare.
“Quando sospettavo, a torto o a ragione, che abusassero della mia ingenuità per manovrarmi, mi impennavo.”
Due considerazioni: Simone ammette che le possa capitare di sbagliare a giudicare le intenzioni del prossimo; ma la sua difesa dalle ingerenze altrui, non sempre ugualmente oneste, non deve mai cessare, in quanto l’Altro è una risorsa e un rischio esistenziale (parola che a ogni piè sospinto mi si presenta come necessaria in questa mia reazione).
“Poiché non riuscivo a pensare senza l’aiuto del linguaggio supponevo che questo coprisse esattamente la realtà.”
È l’illusione necessaria (altro aggettivo che non manca di parere, appunto, necessario) a chi è determinato a de-scrivere in modo sufficientemente logico il proprio processo vitale (che è un gemello di quell’altro, kierkegaardiano, termine), reso famoso dagli scrittori europei del ‘900.
“Tra la parola e il suo oggetto, perciò, non immaginavo alcuna distanza in cui potesse scivolare l’errore…” – che, come l’autrice non manca di notare, porta alla sottomissione “al Verbo senza critica, senza esame, anche quando le circostanze mi invitavano a dubitarne.”
Oh, le parole… queste sciocche sconosciute che, appena te le trovi addosso, ti si concedono senza finti moralismi! Leggendo questo saggio, grazie a Simone e al traduttore (Bruno Fonzi) acquisisco e faccio mio (per sempre) parole ed espressioni come: l’odore dell’“encausto”, “mio padre guadagnava cinque soldi e noi le tiravamo verdi…”, “zangole di legno lucidato”, “mi sedevo sotto il catalpa”, “il grande zelatore del teatro cattolico”, i “frangipani”, “stordite dall’odore del guaime falciato di fresco”, “la montai su un’armatura di sparto”, “il soggolo con le stecche”, “mi erano valse una medaglia di vermeil”, “il pimento della novità”, “la scuola di ceramica, di batik”, “dava in esclamazioni, rattenute, ma furiose”, “mi sentivo travolta in un simun che polverizzava”, i “signorotti limousini aveva appena scoperto l’automobile”, “divenivo una specie di Inaudi”, “un ragazzetto triste, solitario, forastico”, “cominciava a grinire”, “m’appenava ch’ella…”, “cialde, aspic”, “mi ricordavo i villucchi della mia infanzia”, “morì a quarantasei anni, di inanizione.”
Quando ero meno maturo (e il mondo lo era ancor meno di me), m’alzavo per cercare il termine nel sempre salvifico vocabolario. Ora sottolineo la parola e cerco su Google, e talora non lo trovo.
Altro personaggio sconosciuto, sempre intriso nell’aria, fin troppo, tanto che da un momento all’altro potrebbe scoppiare: Dio. “… i miei genitori non desiderano che il mio bene. E poi, era la volontà di Dio che si esprimeva per loro bocca: egli mi aveva creata, era morto per me, aveva diritto a una sottomissione assoluta. Sentivo sulle mie spalle il giogo rassicurante della necessità.”
Il genitore ti ha creato e tu sarai sempre il loro prodotto, come anche loro lo furono, dall’alba dei tempi, dalla prima coppia umana creata da Lui. La famiglia, seguendo la Storia, è diventata il luogo della faama, la casa in cui dovrai esistere, per-seguendo il bene da essa indicato come il fine ultimo dell’esistenza.
Il padre la “innalzava fino a lui, e io provavo allora l’orgoglio di sentirmi una persona grande. Quando ricadevo al livello normale, allora dipendevo dalla mamma…”: questo permetteva un controllo a due tempi, ognuno dei quali era parziale e intermittente e che, insieme, hanno costituito un rapporto di subordinato a tempo totale e indeterminato. Ora solo lei potrà scegliere se continuare in quell’impiego, oppure dimettersi.
Il padre “si stupiva dei paradossi dell’animo umano, dell’ereditarietà, delle stranezze dei sogni; non ho mai visto mia madre stupirsi di niente.” – e qui scricchiola almeno uno dei due controlli gerarchici. Il padre, con la sua tendenza a bearsi altrove (amava il teatro, l’improvvisazione, la novità) trasferì involontariamente alla figlia la tendenza a cercare la verità che si cela nella normalità, e che va ricercata, individuata, analizzata e talvolta professata.
Se “ella era il mio testimone in ogni istante, fin nel segreto del mio cuore” e se “non facevo alcuna differenza tra il suo sguardo e quello di Dio”, imponendole il legame religioso (pleonasmo terribile) e centripeto, lui l’offriva un’ipotesi di fuga centrifuga.
Una battuta paterna del tipo “Come sono stupidi questi bambini!”, lei la prendeva “alla leggera”, ma “un rimprovero di mia madre, un suo minimo aggrottar di ciglia scuoteva la mia sicurezza…”, con la conseguenza che: “la causa principale della mia timidezza era la preoccupazione di evitare il suo disprezzo.”
Pericoloso conflitto: “La santità e l’intelligenza appartenevano a due ordini diversi, e le cose umane – la cultura, la politica, gli affari, gli usi e i costumi – non avevano niente a che fare con la religione” – e da ogni contraddizione si produce l’energia: se una particella s’imbatte (per caso, che significa necessità, alla faccia di qualche filosofo) in un’antiparticella, entrambi si elidono, producendo un fotone luminosissimo: “… e si deve in gran parte a questo squilibrio, che mi destinava alla discussione, il fatto che io sia diventata un’intellettuale.”
Ebbe la convinzione che la stessa “mia bambola Biondina”, e tutto quel che le accadeva nei suoi primi anni di vita, sarebbero serviti a farla sognare di diventare “l’artefice esclusiva di me stessa
e della mia propria apoteosi”: chi non s’illude di questo non andrà mai oltre il confine che il mondo tenterà d’importi. In nuce, covava la rivolta: “io non ero ‘una bambina’, ero io.”
Simone, la tua ambizione esistenziale ti condurrà lì, e sarà quella “di far sorgere nel mondo qualcosa di reale e di nuovo mi riempiva di ammirazione. Io non potevo provarmi altro che in un campo: la letteratura.”
Non eri in grado di disegnare con perizia, ma “in compenso, sapevo servirmi del linguaggio che, esprimendo la sostanza delle cose, le illuminava.”
Il rischio e l’opportunità religiosa: “Sapevo che una logica implacabile mi destinava al chiostro: come si poteva preferire il nulla al tutto?”, la più illogica e pregnante delle illusioni!
Dovevi sottostare alle regole di “una signora perbene”, per esempio mai “truccarsi, né sdraiarsi su un divano…”, ma al momento ne valeva la pena e poi si vedrà.
Qualcosa che appartiene al tuo mondo non manca di stupirmi: “Non ci permettevamo alcuna personalità. Ci davamo cerimoniosamente del voi, e non ci baciavamo se non per lettera…” – e questo anche coi familiari e con le amiche più care, come Zazà; più tardi anche coi tuoi amici culturali. Qui termina la Parte prima.
“Curandomi meno di giudicare che di conoscere, io m’interessavo di tutto; Zaza sceglieva…”, per esempio, amando la Grecia Antica, ma non la Roma Imperiale. E, grazie a lei, scorgi le due facce della medaglia: il tutto e il particolare sono egualmente importanti. L’importante, quando è il momento, è di giungere alla consapevolezza di quale biforcazione è esistenzialmente utile seguire.
“Papà diceva spesso: – Simone ha un cervello d’uomo; Simone è un uomo”: sia benedetta l’anormalità di qualsiasi sorta, se ti porta in avanti, se ti dà l’energia che ti conduce Colà!
Il comportamento nefando di un’insegnante ti fa capire “che la mia infanzia era finita. Gli adulti mi tenevano ancora sotto tutela senza più assicurarmi la pace del cuore. Ero separata da essi da quella libertà da cui non traevo alcun orgoglio ma che subivo in solitudine.”
Il conflitto ancora ti faceva fremere, ma ti garantiva la forza per proseguire: “Di nuovo mi sentivo unica e necessaria: era necessario il mio sguardo” per vedere i colori del mondo, ma ancora “sentivo attorno a me la presenza di Dio”, con la conseguenza che “privata della mia presenza, la creazione scivolava in un sonno oscuro; svegliandola, io compivo il più sacro dei miei doveri, mentre gli ulti, indifferenti, tradivano i disegni di Dio.”
Il tuo umanesimo esistenziale ti faceva dire che, a prescindere da chi vinceva le guerre, “saranno sempre degli uomini, che vinceranno”: la migliore difesa contro ogni grandeur nazionalistica.
In questo periodo, concludesti “che si poteva avere un’opinione diversa da quella di mio padre. Non era più garantiva nemmeno la verità” e che “nessuno sulla terra incarnava esattamente Dio: ero sola di fronte a Lui.”
Dio, questo sconosciuto, che più lo si avvicina più rivela, svelandola, la sua misteriosità: “Da molto tempo l’idea che mi facevo di lui si era depurata e sublimata al punto che egli aveva perduto qualsiasi volto, qualsiasi legame concreto con la terra, e infine, il suo stesso essere.”

Conclusione, drammatica, anzi, tragica, in quanto conduce all’estinzione di un Essere: “Era più facile pensare a un mondo senza creatore che a un creatore responsabile di tutte le contraddizioni del mondo.”
Ulteriore conseguenza: “Mi sembrava di avere una duplice esistenza; tra ciò che ero per me stessa e ciò che ero per gli altri non v’era alcuni rapporto.”
Il tuo antico sogno era “di essere principio e fine a se stessa; ora pensavo che la letteratura mi avrebbe permesso di realizzare questo desiderio.”
Pensando (io, non so se anche tu) al tuo futuro rapporto con Sartre: “… se in assoluto un uomo non fosse valso più di me, avrei pensato che, in senso relativo, valeva meno di me; per riconoscerlo come mio pari bisognava che mi superasse.”
L’amicizia, anzi “il mio accordo con Zazà, la sua stima, mi aiutarono ad affrancarmi dagli adulti e di non vedermi con i miei occhi.”
Alcune pie ragazze si dedicavano a “piacevoli divertimenti, senza dubbio non molto leciti”, correndo il dì appresso “a confessarsi e avevano di nuovo l’anima monda.” – non il corpo: l’arma della penitenza cattolica, che non fa quasi mai miracoli. La conversione (a U) diceva Padre Aldo Bergamaschi (che confessava malvolentieri, sentendone la fugace mendacità) è un’altra cosa: è mutare in maniera stabile la propria Psiche.
Tu intanto, scandalosamente, esigevi “che gli uomini fossero soggetti alla stessa legge delle donne.”
La tua strada futura: “La mia vita sarebbe stata una bella storia che si sarebbe avverata a mano a mano che me la fossi raccontata.” – come scrisse Marquez: Vivere per raccontarla.
E qui inizia la Parte terza, in cui t’accorgi che, in riferimento alle tue amiche, “le nostre vite divergevano; io continuavo ad avanzare, a svilupparmi, mentre, per adattarsi alla loro esistenza di ragazza da marito, esse cominciarono a istupidirsi. La diversità dei nostri futuri già mi separava da loro.”
Tuo padre minacciava te e tua sorella: “Voi, piccole mie, non vi sposerete, dovrete lavorare, – c’era amarezza nella sua voce”. Egli “se la prendeva col destino ingiusto che lo condannava ad avere per figlie delle declassate”: economicamente, facevate ormai parte del club dei nuovi poveri.
“Garric era un cattolico convinto”, ma sui generis: “il popolo è buono quando lo si tratta bene; rifiutandosi di tendergli la mano, la borghesia avrebbe commesso un grosso sbaglio le cui conseguenze sarebbero ricadute su lei stessa.”
Il fine che trai dai suoi insegnamenti è che: “bisogna che la mia vita serva!…”
Sei in piena rivolta. Ti rendi “odiosa” in famiglia, puntando sulla “mia trascuratezza”, sul “mio mutismo”, sulla “mia scortesia”.
Una nuova consapevolezza: “Mi sentivo ‘sbalordita, dolorosamente disorientata’. Chi mi aveva ingannata? perché? come?”
Il tuo fine era “servire. Nel mio diario protestavo contro Renan. Che nemmeno il grand’uomo è fine a se stesso: egli si giustifica solo se contribuisce a elevare il livello intellettuale e morale dell’umanità comune.”
L’amore per il vano e vanesio Jacques, troppo tardi ri-conosciuto: l’amore intendo. Jacques a un certo punto si rivelerà per quel che è, ma dovrai essergli per sempre grata di averti donato quel che più ti serviva, l’entusiasmo e l’energia, al di là del suo valore. Tu utilizzavi principalmente il tuo carisma, il suo serviva da supporto e nulla più.
“… il male di cui soffrivo era d’esser stata scacciata dal paradiso dell’infanzia e di non aver trovato un posto in mezzo agli uomini. Mi ero posta nell’assoluto per poter guardare dall’alto quel mondo che mi respingeva; ora, se volevo agire, creare un’opera, esprimermi, bisognava ridiscendervi; ma il mio disprezzo l’aveva annullato, intorno a me non vedevo che il vuoto.”
Il nichilismo è un’opportunità, che non va interpretato come una condanna, ma come un passo a volte indispensabile per superare un momento in cui nulla pare affidabile.
Pradell “mi diceva che io avevo scelto la disperazione troppo precipitosamente, e io gli rimproveravo di crogiolarsi in vane speranze: tutti i sistemi zoppicavano.”
Però “io non potevo accontentarmi del suo sorridente ottimismo più che del nichilismo di Jacques.”
Spesso, nel confronto con l’Altro, non ti fai mancare una duplicità che ti fa onore, in quanto ti consente d’osservare entrambe le facce della stessa medaglia. Un esempio: “Detestavo questa complicità che m’imponeva, pure, il suo appello mi commosse, poiché doveva costarle molto implorare la mia alleanza.” – si tratta dell’altalenante Zazà, che stava soffrendo per un dissidio coi suoi genitori, in merito al suo matrimonio.
Tu vivi in un conflitto esistenziale: “scoppiavo di salute, di giovinezza, e restavo confinata in casa o nelle biblioteche: tutta quella vitalità che non sfogavo si scatenava in vortici vani nella mia testa e nel mio cuore.”
Nuovi tentativi di incontri ravvicinati del tipo zero e infinito: “Una notte intimai a Dio, se esisteva, di dichiararsi. Restò muto, e mai più gli rivolsi la parola.”
Io non amo discorrere con lui, ma quando lo faccio premetto per prudenza la frase: perdona quest’ignorante che in te non confida.
Per fortuna, destino, caso e necessità, ora comincia la Parte quarta. “Tutte le mie giornate ormai avevano un senso: mi avviavano verso una liberazione definitiva…” – ti buttasti nella vita comune, nelle strade, in mezzo alla gente, e ai casini.
Rispetto al sesso, “davo alla mia ripugnanza la stessa giustificazione che a diciassette anni: va tutto bene se il corpo obbedisce al cuore e alla mente, ma non deve prendere il sopravvento” – ti contraddico in parte: nessuna delle tre funzioni fisiche e spirituali (tutto è lì, nell’anima che di fatto è anche corpo), deve prevalere ma ha da restare al suo posto, per svolgere anch’essa il suo servizio.
“Il fatto è che avevo fatto una cocente scoperta: la bella storia che era la mia vita, diventava falsa a mano a mano che me la raccontava.” – e il tuo amore per Jacques ne seguiva la miserevole sorte.
“Dimenticando che la relazione con Jacques mi aveva offeso soprattutto per la sua banalità borghese, mi rimproverai di averla condannata in nome di principî astratti. In verità mi battevo in un tunnel, in mezzo a delle ombre. Contro il fantasma di Jacques, contro il passato defunto brandivo un reale in cui non credevo più.”

Sartre, “di due anni più grande di me – due anni che aveva saputo mettere a profitto – partito meglio e molto più presto di me, la sapeva più lunga su tutto; ma la vera superiorità che si riconosceva, e che mi saltava agli occhi, era la passione tranquilla e forsennata che lo gettava verso i suoi futuri libri.”
Egli cercava il conflitto, il dissidio letterario e intellettuale: “se non ci fosse stato niente da abbattere o da combattere, la letteratura non avrebbe avuto molto interesse.”
Tu partivi da una considerazione, tipo la “morale pluralista che m’ero fabbricata per giustificare le persone che amavo ma alle quali non avrei voluto assomigliare: lui la fece a pezzi.”
Dopo un estenuante match intellettuale, finisti per soccombere, ma la sconfitta ti aveva fatto crescere e ne fosti alla fine soddisfatta. Anch’io non posso che ringraziare chi mi indica alcune pecche del mio pensiero.
Termini le tue memorie, ricordando la sventurata ventura di Zazà. Complimenti. Pochi l’avrebbero fatto, ché il loro io gliel’avrebbe impedito. Ma tu sei diversa dagli altri, tu pensi al mondo con te e a te col mondo. Non solo a te, non solo al mondo.
So che ne hai scritte altre di memorie. Senza fretta, se le trovo, le acquisisco, le leggo e vi reagisco. A presto, Simone!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Simone de Beauvoir, Memorie d’una ragazza perbene, Einaudi, 1997