“Il labirinto degli spiriti” di Carlos Ruiz Zafón: il passato ha un cuore sempre attuale
L’uomo può concepire qualsiasi forma di governo che, per il noto principio della termodinamica, il secondo per l’esattezza, decadrà irreversibilmente. E poi si riformerà, anche questo, poiché pare che nulla si crei e tutto si ricrei.
Un siculo non meglio identificato disse un giorno la più assurda e naturale delle verità: perché nulla cambi, tutto deve cambiare e viceversa. Il potere può essere gestito da uno, da pochi o da molti. L’esito finale sarà analogo: la decadenza, a causa della mala volontà, della mala disposizione, della mala vita e di tutta una serie impressionante di analoghe malvagità.
L’uomo, per natura, non è malvagio, né virtuoso: è uomo. Tra l’altro, come insegna il mirmecologo Edward O. Wilson in Storie dal mondo delle formiche, la crudeltà umana è poca cosa rispetto a quella della Solenopsis invicta, la formica di fuoco, che è capace di uccidere un uomo, non da sola ovviamente, ma agendo in gruppo, tenendo bene a mente che poche specie, come lei, fanno della socialità la propria ragione di vita. L’uomo pare non sia né il più vile, né il più maligno dei viventi, ma quello che maggiormente unisce tali infami caratteristiche.
Vi sono libri che amo commentare in itinere, passo dopo passo, senz’avere la più pallida idea di come andranno a consumare i loro e i miei giorni. Questo quarto romanzo “Il labirinto degli spiriti” della tetralogia del Cimitero dei libri dimenticati di Carlos Ruiz Zafón non è fra quelli. Un subdolo mezzuccio di cui mi servo in ogni caso è la sottolineatura, la quale mi permette, magari ipso die, o alla fine della fiera, di focalizzare le considerazioni con cui porto a termine la mia reazione al libro che è l’azione, a sua volta nata a seguito di altri.
Nel corso della narrazione, ho notato che l’autore concorda con me (ma soprattutto, senza mai citarlo, con Borges) su cosa significhi scrivere e leggere. Fra le due azioni (atti, direbbe Carmelo Bene) v’è il filo della polenta, quasi nulla, essendo due aspetti della medesima questione, come quella che distingue la massa dall’energia, oppure la particella che esiste, quando la si attesta, dall’onda che si propaga ovunque e dove pare a lei. Un problema occorso: se dovessi riportare tutte le frasi sottolineate durante questa mia ultima lettura, scriverei un saggio di 89 pagine, oppure di 298, a seconda del caso e dell’energia che è in me. Pertanto non so come andrà a finire: sarà quel che sarà.
Rispetto ai primi tre, i miei riporti sono più frequenti, poiché l’uso di antifrasi e lo spargimento di semenza filosofica sono più abbondanti che in precedenza. Come lo è la mole del romanzo. Farò quel che potrò. E che Zafón, dall’alto dei cieli, o dal basso degli inferi, me la mandi buona!
Carlos Ruiz, per meglio consentirti di aiutarmi, d’ora in poi ti darò del tu.
Il protagonista (quando è sul palcoscenico che sta recitando la sua parte di saggio, per lo più ironico, ma sempre verace, almeno nelle intenzioni) è sempre lui, Fermín, il lavoratore a tempo sempiterno della libreria dei Sampere. La sua prima docenza che mi va di riportare è: “Presti attenzione, maestro, che adesso arriva un’ineffabile parabola dal profondo simbolismo condita con abbastanza incesti e mutilazioni da accelerare un cambio di mutande ai fratelli Grimm in persona.” La frase indica che anche i due citati germanisti, come del resto Omero, Dante, Shakespeare e Goethe, per non dirne che quattro, o indossavano delle mutande o, diversamente, la loro veste si sarebbe lordata di flussi organici. Non esiste al mondo un uomo che non vada, più o meno regolarmente, di corpo. Inoltre: non ve n’è davvero alcuno che non sia inferiore a qualcun altro, in quanto il meglio deve ancora venire. Detto en passant, il maestro di Fermín non può essere che un “amico roditore”. Però non è un bene, Carlos Ruiz, che la mia prima reazione superi di varie righe la tua. Cerca di contenermi, se puoi.
È tempo di guerra, ma soprattutto di rovina umana, dove da un momento all’altro si passa dalla condizione di infelici e disperati a quella di morti o orrendamente mutilati.
Alicia è appena una bambina. Figlia e nipote di amici di Fermín e con quest’ultimo deve ora attraversare un labirinto degli Inferi, uno dei tanti disseminati per quella mirabile e atroce città. Scoppia un’esplosione: il nostro amico “chiuse gli occhi e lasciò che quel vento sporco e ardente gli strappasse il sudore del corpo. Sono qui, bastardi. Vediamo se stavolta riuscite a centrarmi.”
E quella bimba? Non le va meglio, ma nemmeno peggio: “In fondo all’abisso intravide una bolla di luce che si spostava lentamente. La luce si fermò e, osservando meglio, Alicia, vide un uomo dai capelli bianchi che reggeva una lanterna e guardava verso l’alto. Un dolore intenso le sferzò il fianco e Alicia sentì la vista che si annebbiava. Poco dopo chiuse gli occhi e perse la nozione del tempo.” – evento che in taluni casi non è così negativo.
Quando si sveglia, un certo Isaac, esaminata la sua ferita, le dà “un bicchiere d’acqua fresca” e le dice, alla fine (ogni fine è l’inizio di qualcos’altro): “Benvenuta nel Cimitero dei Libri Dimenticati.” Detto (si fa per dire) inter nos, Carlos Ruiz, è lì che ho rinvenuto questo tuo ennesimo romanzo.
Il saggio menestrello (appellativo che assegno d’ufficio a Fermín, assumendomene la piena responsabilità) non sa nulla del destino occorso ad Alicia.
Passano, malissimo, vent’anni e più. Il paese ha un Caudillo per Capo. I due termini sono sinonimi, ma il primo rende di più l’idea: è caido, caduto, dal basso, non dall’alto, e ha bucato la terra per farlo. Non sono un esperto di politica e non voglio dare giudizi a proposito. Però la Spagna che tu descrivi è la cosa più terrificante che si possa immaginare: un ricettacolo di viltà, falsità e disumanità e potrei aggiungere chissà quante parole orrende che finiscono con tà, ma preferisco evitare.
“Una leggenda è una menzogna ideata per spiegare una verità universale. I luoghi in cui la menzogna e l’illusione avvelenano la terra sono particolarmente fertili per la sua coltura.” – questo, Carlos Ruiz, lo dici per descrivere “la prima volta che Alicia Gris si perse per i tenebrosi corridoi dei sotterranei della Biblioteca Nazionale alla ricerca del presunto vampiro e della sua leggenda”, quando “non trovò altro che una città sotterranea popolata da centinaia di migliaia di libri che attendevano in silenzio tra echi e ragnatele.” Un appunto, Carlos Ruiz, il termine menzogna è menzognero, e anch’io pertanto lo sono: è indice di supponenza e pertanto vergognati (come sto facendo io) d’averlo scritto.
La verità esiste ma dura un attimo, e poi scompare (in questo concordo con l’arrogante seppur geniale Martin Heidegger) ed è così volatile che appunto si casca nel tranello di chi ti vuol far credere che non esista. La leggenda invece persiste nei millenni e prima o poi viene deformata in menzogna (mannaggia, ancora!).
“La tesi di Leandro era che, a partire da un certo punto della vita, il futuro di un uomo si trova invariabilmente nel suo passato.” – egli ne ha piena consapevolezza, vuoi dire?
Alicia, già donna, è ora una poliziotta governativa, Leandro è il suo capo, con cui ha imbastito un rapporto affettivo di tipo quasi familiare, anche se…
“Sicura che quella notte nessuno dei due avrebbe chiuso occhio, Alicia decise di rifugiarsi nell’unico posto al mondo dove Leandro non avrebbe mai potuto raggiungerla, le pagine di un libro” – sì, un libro è sempre un porto, anche se soltanto un pertugio, che ti può accogliere in qualsiasi momento, senza chiederti i documenti.
Alicia parte per l’altra Grande Città iberica, ma era così stanca che “chiuse gli occhi e si arrese al sonno mentre il treno, facendosi largo tra le ombre, scivolava verso il labirinto degli spiriti.” – che è quello in cui noi tutti viviamo (e talvolta moriamo).
“… Fermín avanzò sotto la volta curva della stazione, una chiara indicazione da parte dell’astuto architetto che a Barcellona il futuro nasce storto.” Consentimi una domanda, Carlos Ruiz, a essere storti siamo noi o è lui?
“Fermín sospirò e prese a camminare nell’ombra delle strade, dicendosi che non era possibile, che quegli occhi in cui era caduto non erano gli stessi che aveva abbandonato quella lontana notte di fuoco durante la guerra, e che quella bambina che non era riuscito a salvare, Alicia, doveva essere morta quella notte insieme a tanti altri, nemmeno la sua nemesi, il destino, poteva avere uno humour così nero.”
Il concetto di destino è il più grande dei doni che si è fatto l’uomo. Non so se sia una fandonia, però concilia il sonno sapere che si è corresponsabili delle proprie sventure. Il fato l’hanno invece inventato sempre gli uomini, ma solo perché anche a noi bipedi spiumati capita di essere crudeli con noi stessi. È il caudillo che è in ciascuno di noi che ci rovina.
Un altro esempio della tua e sua (di Alicia) tendenza perniciosa all’antifrasi più assurda (essenziale, per chi ama prendere il mondo come non viene): “Fernandito, tu sei uomo abbastanza per affondare l’Invincibile Armata, ma quello che devi fare è cercarti una fidanzata della tua età. Fra un paio d’anni vedrai che avevo ragione. Io posso soltanto offrirti la mia amicizia.” Questo significa: tu sei un aspirante leone, ma al momento io non sono trippa per gattini. E poi quella fresca maliarda aggiunge: “Fernandito, c’è più vita in una tua lacrima di quella che io potrei mai vivere anche se morissi a cent’anni.” – lo dice perché il troppo giovane Ganimede sta sciogliendosi in lacrime e singhiozzi, tanto da rischiare di “far scoppiare l’aorta”.
La notte, come spesso le capita, “sognò di nuovo che pioveva fuoco. Saltava sui tetti del Raval fuggendo dal fragore delle bombe mentre gli edifici crollavano attorno a lei in colonne di fuoco e di fumo nero.” – eccetera: la guerra, se ci pensi, Carlos Ruiz, è l’evento più banale e al contempo tragico che capiti all’uomo: la sua auto-nemesi, per meglio dire. È la più orribile forma di autocastrazione masturbatoria che si possa immaginare. L’uomo ha però girato in macchina sul suolo lunare e si crede la migliore fra le bestie.
Alicia è una poliziotta che ogni tanto zoppica, come in quegli stessi anni capitò a Cormoran Strike, l’investigatore messo ancora più male, sempre a causa della guerra, l’estroso eroe della serie di romanzi di Robert Galbraith.
“Lei e il dolore erano ormai vecchi avversari, veterani che si conoscono bene, si esplorano reciprocamente e si attengono alle regole del gioco.”
Carlos Ruiz, hai il dono della pennellata breve e precisa, come quella di un pittore moderno, di un impressionista francese, più che di un barocco iberico, quando dici, per esempio di “un cameriere con l’aria di non avere mai lasciato il locale da almeno vent’anni.” – non è un carisma da poco, che tu stai disseminando benevolmente a ogni pagina, aspettando che qualcuno raccolga tanta ricchezza.
Daniel Sampere “camminava distratto, con la testa fra le nuvole, un sorrisino sulle labbra e quell’aria serena di chi ha il lusso di non sapere come funziona il mondo.” – la qual cosa si chiama ingenuità o idealismo, che fra gli eventi cosmici, quando cessa, è una disgrazia che fa tanto male.
Bea, sua moglie era dotata “di una di quelle bellezze pulite di cui gli autori di radiogrammi direbbero che sembravano venire da dentro e fanno sospirare gli stupidi facili a innamorarsi, gli appassionati alle favole di angioletti con il cuore d’oro.”
Alicia, ora che sta lavorando con un ambiguo soggetto di nome Vargas, uno che non te le manda a dire, è costretta a tirare fuori il meglio e il peggio del suo repertorio di finta cinica per controbattere alle altrui provocazioni. Alicia non scherza mica, quando dice a Rovira che “… ci sono momenti in cui un uomo deve trovare il coraggio e, per quanto non mi si addica dirlo, mostrare al mondo che è nato per pisciare in piedi…”
Un altro tipo, Don Gustavo Barcelò, afferma solennemente che l’ennesima verità che ognuno scopre nascendo, che Barcellona, che il mondo, non è che “una città di porte chiuse dove tutto dipende da chi ne possiede le chiavi, a chi decide di aprirle e da quale lato della soglia ci si trova.” E poi c’è “quell’altra Barcellona, il labirinto degli spiriti, dove è condannata a vagare per i cerchi dell’inferno costruito dal Principe Scarlatto e nei quali incontra anime maledette che tenta di salvare mentre cerca i genitori scomparsi…”
Lessi una volta che il labirinto è un luogo dove avviene una sfida con se stessi, dove anche al vigliacco non rimane che cercare il proprio nascosto valore e a tentare di vivere da eroe. La vita è illusoriamente solida, come lo è il corpo di una persona, che contiene il 60% di acqua. Leggendo i tuoi romanzi, e questo più di tutti gli altri, scopro che sono i liquidi ad agitarsi, non certo le ossa, per cui in Alicia “il sangue riprese a circolare nelle mani, e con esso il dolore.” Ancora: “una pozza di sangue e orina si espandeva sul tavolo, sgocciolando sul pavimento…” Ancora: “il vomito gli salì su per la gola e gli si sparse sul petto.” Ancora: “La donna sulla sedia aveva il viso coperto di lacrime e sangue.”
Fai attenzione, cara: “Il mondo non è quel posto amorale che hai conosciuto finora, Alicia. Il mondo è semplicemente uno specchio di noi che lo formiamo ed è né più né meno che quello che noi tutti ne facciamo.” – filosofia spicciola e incontrovertibile.
Ognuno è l’arbitro del proprio destino, del tipo cornuto e venduto, che cerca di favorire sé, più degli altri, ma non sempre l’infame gioco gli funziona.
Vargas è un tipo schietto, anche se poco gustoso nei modi. Riporta ad Alicia un pensiero di Leandro: “Ha detto che lei crede che nessuno la possa amare perché non si ama e pensa che nessuno l’abbia mai amata. E che non lo perdona al mondo.” – Alicia ha le idee confuse, ma almeno le ha. È una bestia che soffre, non solo per l’antica ferita bellica, ma perché… perché vorrei vedere te e me (sto scherzando!), Carlos Ruiz, a vivere in quel paese martoriato dalla stupidità e dalla cattiveria in quel periodo storico dove la virtù è un handicap che occorre dissimulare.
Vargas dice: “Uno crede in ciò che può, non in ciò che vuole. A meno di non essere un cretino, nel qual caso i termini si invertono.” – che è un bel detto, non meno idiota del suo inverso: volere è potere. Il volere sonnecchia o ruggisce dentro di noi; poi è il resto del cosmo che decide se e quanto darci retta.
Non si amano, ma sono attratti l’uno dall’altro: “Alicia gli regalò uno di quei sorrisi che spalancavano porte e squagliavano volontà. Vargas abbassò gli occhi.” La missione di quei due (e di tanti altri) è di scoprire che fine ha fatto Mauricio Valls, l’ex direttore del carcere di Barcellona, uno sciacallo della storia che più abietto non si può, uno che “Martín lo lascerà morire lì, a marcire centimetro dopo centimetro senza degnarsi di scendere nella cella nemmeno una volta per sputargli in faccia.” – tanto malvagio e immorale da meritare la nomina di Ministro del Caudillo e una posizione altissima in quel regime.
Victor Mataix, scrittore, è l’autore “di uno degli episodi di una serie di romanzi pubblicati a Barcellona negli anni Trenta.” – egli al momento vive altrove, oppure no, non si sa. È un mistero di tipo labirintico.
Il signor Sanchis, onesto banchiere, il che pare e forse è un ossimoro, dice a Vargas che “non esistono libri modesti, capitano, ma ignoranze superbe.”
Carlos Ruiz, ci fu un periodo, nella mia vita in cui, per uscire da certe mie turbe psichiche, avevo annunciato al mondo di essere un mezzo genio; coglione lo ero ma, nonostante questo, oso vantarmi di non essere mai stato un ignorante superbo, bensì un ignorante tout court.
“Per lo più, noi mortali non arriviamo a conoscere il nostro vero destino; semplicemente, ne veniamo investiti. Quando alziamo la testa e lo vediamo allontanarsi lungo la strada, è già tardi, e il resto del cammino dobbiamo percorrerlo sul ciglio di quello che i sognatori chiamano la maturità…” – e poi continua la predica sulla fede e sulla speranza, che, dico io, è la gemella portatrice di handicap, ma intelligentissima…; e “Alicia ricordava quelle parole come se le portasse incise sulla pelle. Nulla sorprende e spaventa più di ciò che già si sa.”
Alicia è un bel tipino. Potrei innamorarmene, ma forse sceglierei la via di Origene, piuttosto che conviverle accanto. Quando un venditore di libri le parla di sconti, lei replica: “Senza sconto, per favore. Spendere soldi in libri è un piacere che non voglio che mi riducano.” Ho l’impressione che la tua Alicia non sarà mai l’economica consorte di alcun disgraziato. Una cosa farei, per farla felice: le offrirei da bere qualcosa a base di alcool, incerto tra un bottiglione di lambrusco scorzamara e un calice di bargnolino. Glieli offrirei entrambi, ovviamente a stomaco vuoto, com’è sua costumanza.
Alicia ha finito di irretire Fernandito, convincendolo a una missione, che consiste “nell’essere i miei occhi” – di farle da spia, insomma. Vargas le dirà poi che “lei lo stava ipnotizzando giù al bar. Sembravate un cobra regina e un coniglietto.” I due baccagliano come sempre, cane con gatta, mentre l’affetto reciproco pare crescere a ogni loro incontro. Ma ne sono consapevoli? Tu che dici, Carlos Ruiz? A me non interessa produrre un’esegesi della storia, a questo ci penserà qualcun altro. A me importa fare una schermografia della tua anima gemente.
“In vent’anni nella polizia mi sono imbattuto in meno coincidenze reali che in persone che dicessero la verità.” – la coincidenza è una baggianata che il destino ci propina per farci intendere che lassù qualcuno non ci odia troppo (e che ci tiene a gestirci).
Definizione di Mauricio Valls: “In fondo stiamo parlando di un macellaio di mezza tacca, un carceriere collegato a livelli medi del regime. Come lui, ce n’è a decine di migliaia. Li incontra ogni giorno per la strada. Con relazioni, amici e conoscenti sulle poltrone che contano, sì, però dopo tutto semplici leccaculo. Lacchè e aspiranti lacchè. Come riesce un individuo simile a salire in così pochi anni dalle fogne ai vertici del regime.” La risposta ce l’ha chi ha frequentato certi torrenti ormai diventati acque morte e puzzolenti: fra i tanti escrementi che galleggiano in quell’ignobile liquame, c’è sempre quello che svetta ‘n coppa a tutti gli altri.
Prima citai Galbraith, ora è la volta della Rowling, ché uno è l’alter ego dell’altra: della saga di Harry Potter quello che non ha mai finito di sorprendermi è il fatto degli horcrux, quegli spicchi di anima che Voldemort semina dappertutto, al fine di sopravvivere. Lo stesso lo fa Mataix con i suoi libri (e ogni scrittore, suppongo).
Il mondo è vile? No! È forse menzognero? Ti ho detto di no! È virtuoso? Non fare domande sciocche: “Il gioco di infiltrarsi è simile a quello della seduzione: chi chiede permesso ha perso prima di cominciare.” – sic transit gloria agentis.
David Martín era così sicuro di aver conosciuto un agente segreto satanico che riuscì a convincere del fatto anche il lettore più prudente e saggio (e io non sono né l’uno né l’altro). Il suo amico e antagonista Mataix non ci credeva affatto e “l’aveva ben situato nella sua lista di improbabili fra il topolino dei denti e il paese della fate.” Che non significa che si tratti di una menzogna, ma di una verità personale, tanto incontrovertibile quanto illusoria. Però, se David ci credeva, esso era, per lui, non meno reale della sua cistifellea.
Alicia la pensa come Agatha Christie. Alla domanda “Perché facciamo le più grandi stupidaggini in questa vita?”, lei risponde: Per amore, per denaro, per dispetto…” Agatha diceva: per passione, per denaro, per vendetta. Tra correre e scappare, come si dice dalle mie parti…
“Martín era solito dire che in Spagna si disprezza l’avversario, ma si odia chi va da solo e nion segue le ruote di nessun mulino.” – i cani sciolti devono essere accalappiati, resi inoffensivi e, all’occorrenza, eliminati.
Brains dice a Mataix: “C’è chi argomenterebbe che non esiste genere più di finzione della biografia.” – e aggiunge: “Come romanziere, ammetterà che al momento della verità una storia è una storia.”
Una mera illusione. È questo, nulla più. Hilary Putnam argomentava che non è semplice dimostrare di non essere un cervello immerso in una vasca, anziché una persona dotata di libero arbitrio e di libera deambulazione. Nessun fisico è mai riuscito a dimostrare che il cosmo intero, oppure una sua minima particella, sia un’onda oppure un oggetto dotato di massa. Il problema è che quello che percepiamo è il più ineffabile degli arcani. Noi siamo principalmente composti da vuoto (in cui tutto brulica) e che se noi riceviamo un pugno in faccia, è un vuoto che si mischia a un suo consimile. Eppure fa molto male e fa sanguinare il naso, ma è colpa dell’interazione elettro-magnetica causata dai fotoni, cioè della luce. È per questo che un dolore imprevisto ci fa vedere le stelle.
“E cos’è uno scrittore se non un lavoratore del linguaggio?” – domanda a cui rinuncio a rispondere, perché potrei farlo solo con quelle misere parole che ha inventato l’uomo quando si stancò di mugolare.
Javier Fumero è un distinto aguzzino che ama torturare le sue vittime: “afferrò Susana per il collo e la scagliò a terra. Si inginocchiò su di lei schiacciandole il torace e la fissò negli occhi.” – poi le disse: “Ti squarto le budella e le metto come collana, puttana di merda”. – l’importante è specificare che glielo “disse con serenità”. Fumero non era colpevole: si limitava a eseguire ordini, interpretandoli secondo la propria buia anima.
“Quando Vilajuana terminò il racconto, aveva gli occhi umidi e la gola secca.”
Alicia gli aveva promesso di dirgli a sua volta la verità. Mentiva, sapendo di mentire. Al che l’uomo ora le dice: “Mi ha ingannato…”, e lei risponde: “Benvenuto nel club…” A volte si dicono le balle, perché esse rotolano da Dio, il loro primo creatore.
Leandro non è da meno, quando dice ad Alicia che lei e Vargas sono “sollevati dall’incarico e che ora le indagini proseguono a carico esclusivo di un nuovo responsabile designato dal ministero degli Interni.” E chi è? “Hendaya”.
Il lettore, ma non solo lui, ne sa come prima: Alicia è perplessa e chiede: “Chi diavolo è Hendaya?”
Forse lo si può arguire quando lo si sente affermare: “Tutto quello che so me lo ha insegnato un grand’uomo. Il tenente Francisco Javier Fumero, alla cui memoria c’è una targa in questo edificio. Fumero apparteneva a quel tipo di uomini che non vengono apprezzati nella giusta misura.” Siamo pertanto a posto.
Hendaya ha preso tutto da quel padre adottivo, da quell’amabile tenente. A Sanchis dice: “Se non mi dici dov’è Valls, ti friggo i coglioni fino a farti cacare su quella puttana di tua madre, e poi vado a prendere la tua mogliettina e le strappo la carne dalle ossa con delle pinze bollenti, senza fretta, in modo che si sappi che la colpa di quello che le sta succedendo ce l’ha la bimbetta piagnucolosa che ha sposato.” In effetti è vero: le vittime sono le prime colpevoli da far fuori, mentre il loro aguzzino è colui che andrà punito soltanto se il Cielo o l’Inferno decideranno in tal senso.
Alicia non ama Leandro, ma gli vuole una sporta di bene e, forse, il sentimento è reciproco: “Leandro la baciò sulla fronte e si alzò.” Secondo me quel forse è una menzogna che io so di aver spesso pronunciato. Tanto, per andare all’inferno, non occorre fare domanda né è essenziale possedere il greenpass.
“La verità non è mai perfetta e non quadra mai con tutte le aspettative. La verità pone sempre dubbi e domande. Solo la menzogna è credibile al cento per cento, perché non deve spiegare la realtà, ma semplicemente dirci quello che vogliamo sentirci dire.” Ma la vuoi finire, maledetto e beneamato Carlos Ruiz?!
Alicia dice al suo ragazzino: “Da private Fernandito, ti promuovo a corporal.” Il giovine non capisce e Alicia gli dà il solito colpetto morale sulle dita messe a pigna: “Vai di dizionario, Fernandito. A chi non impara le lingue, il cervello gli va in pappa.” Per la cronaca sono andato subito a ricercare i due termini su Google Traduttore.
“La felicità, o la cosa più simile a cui possa aspirare qualunque creatura pensante, la pace dello spirito, è ciò che evapora lungo il cammino che porta dal credere al sapere.” – di non sapere: io poi esagero sempre, poiché non so nemmeno se so.
Il figlio di Daniel si chiama Julián e, a poco più di zero anni, sta già scrivendo il suo primo libro: anche questo si chiama destino, ma non fato, ti prego!
“Si è un eroe solo quando si inizia ad avere paura, diceva un suo zio che aveva perso un occhio e un braccio in guerra.” – forse anche questa è un’illusione, oppure alla consueta menzogna, ma almeno suona bene.
A Vargas “quell’ometto che Alicia chiamava Fermín gli sembrò uscito da qualche romanzetto apocrifo del Lazarillo de Tormes”, eppure fra i due ometti si stabilisce presto un’intesa, per qualche miracolo poco facilmente interpretabile.
Intanto, la rispettiva agnizione tra Alicia e Fermín è avvenuta, senza eccessivi traumi. Eccessivi, ho detto. Ma qualcosa ha fatto un po’ di male, e tanto bene. È stato un bel colpo per entrambi.
La moraleggiante Alicia dice, scorgendo quella nuova strana amicizia fra i due: “I dettami dello stomaco e delle vergogne uniscono gli uomini.”
Vargas tranquillizza un già serafico Fermín, dicendogli che Alicia “si nutre succhiando l’anima degli incauti.” A un certo punto (tranquilli, capiterà a ciascuno di noi) Vargas se ne va da quell’Altra Parte, e ci rimarrà per Sempre.
“Ci sono epoche in cui è più onorevole morire nell’oblio che vivere nella gloria.” – forse intendevi semplicemente che a volte è meglio morire che vivere? Dalle mie parti, quando muore uno si dice che ha finito di soffrire. Quel suo mestiere aveva insegnato ad Alicia la necessità di mentire, ed anche “che i giuramenti erano un po’ come i cuori: rotto il primo, il resto era un gioco da ragazzi.” – pare che lo stesso capiti anche allo sfintere.
“Alicia lo cercava con lo sguardo, gli occhi velati di lacrime e un tiepido sorriso sulle labbra. Fermín supplicò il diavolo zoppo, a cui sempre affidava le richieste difficili, di non portarsela ancora via.” Non sono sicuro del Nostro Beneamato Signore, figuriamo del suo atavar. Ma capisco il menestrello: in tempi di crisi, un prodotto discount può funzionare da Dio.
Insegnamento del suddetto all’eroico ragazzino: “Bisogna leggere, Fernandito, perché non tutto nell’adolescenza è menarselo come un macaco.” – non tutto, ma in gran parte sì.
“In questa farsa di scimmie vestite di seta che è il mondo, la falsità è la malta che tiene uniti tutti i pezzi del presepe. La gente, vuoi per paura, per interesse o per minchionaggine, si abitua talmente a mentire e a ripetere le menzogne degli altri che finisce per farlo anche quando crede di dire la verità. È il male del nostro tempo. La persona sincera e onesta è una specie in via di estinzione, come il plesiosauro o la cantante di couplet, se pure sono esistiti e non sono come l’unicorno.” Ancora questa faccenda delle menzogne.
“Non si vergogni, la vita è così. Imparare a fare differenze tra il perché si fanno le cose e il perché si dice di farle è il primo passo per iniziare a conoscere se stessi. E da lì a smettere di essere un cretino ce ne corre.”
Fermín ha il pregio di farmi sentire un beato citrullo. Che poi è soltanto un ortaggio, niente male con quel gusto così saporito. Fernandito chiede al menestrello con chi parlasse. Quello gli risponde, ironico come suo solito: “Con il buonsenso.” Quando il saggio menestrello sta meditando, bisogna fare silenzio.
Alicia, reduce a sua volta da una situazione al limite, viene portata da Fermín, indovina dove?
“Alicia, benvenuta di nuovo nel Cimitero dei Libri dimenticati.” Non è dato sapere se si ricordasse della prima volta.
Dialogo fra Bea e Alicia, e le due stanno discorrendo sulla stupidità umana, per cui la solita saputa Alicia fa la diagnosi: “Gli uomini? Chissà. Forse perché la natura è madre, ma crudele, e li rincretinisce dalla nascita. Però alcuni non sono così male.” Orbene, lo ammetto, mia madre mi ha aiutato inizialmente a essere stolto, ma il grosso del lavoro l’ho poi fatto io.
Altra scena: “Alicia chiuse gli occhi e sorrise” e dice al menestrello: “Le voglio molto bene, Fermín.” E questa scena madre non è finita: “Quando lo sentì piangere in silenzio, allungò la mano per cercare la sua e così, mano alla mano, si addormentano al calore di una candela che si spegneva.” Allora piango anch’io, così non ci penso più.
Bea dice del marito: “Daniel ogni giorno dice meno cose” – e così sbaglia di meno. Su ordine di Alicia, Fernandito fornisce a Daniel il diario della madre che lui aveva dimenticato. Io lo fornisco a te, caro lettore, ma solo se leggerai questo libercolo che non raggiunge manco le 900 pagine.
Leandro e Alicia s’incontrano per l’ultima volta. Mi fa ridere, ma anche gemere, quando lui le dice: “Sto per scoppiare a piangere.” – e poi sorrise “con malizia”.
Consueta agnizione: Alicia scopre chi è realmente quel suo infame protettore, nonché maestro di vita.
“Un attimo dopo il corpo scivolò a poco a poco e il volto di Leandro Montalvo affondò con gli occhi aperti sotto l’acqua insanguinata.” Ciao! A mai più rivederti, caro! E salutami Vargas!
Juan Sempere ha un sogno che dopo quindici anni diverrà realtà.
Suo padre Daniel aveva invece un incubo e non riesce a realizzarlo: voleva uccidere con le sue mani Mauricio Valls, il boia di sua mamma. Quando lo incontra è ridotto a pattume umano e lo lascia evaporare.
“Giunti ai bordi della fossa, un abisso infinito di corpi ricoperti di calce, i due addetti aprirono il sacco e lasciarono che don Mauricio Valls scivolasse giù per il pendio di cadaveri fino ad arrivare sul fondo. Dicono che cadde supino con gli occhi aperti e che l’ultima cosa che i due addetti videro prima di allontanarsi da lì fu un uccello nero che si posava sul corpo e gli strappava gli occhi a beccate, mentre le campane di tutta Barcellona suonavano in lontananza.” Evviva!
Carlos Ruiz, ti correggo, da pedante quale sono. “Don Miguel de Cervantes e il suo collega don William Shakespeare non sono morti tecnicamente lo stesso giorno, il 23 aprile, invano.” Ehm, cosa intendi con quel tecnicamente? Miguelito aveva ricevuto un biglietto anticipato di un giorno, però il senso delle tue parole l’ho capito. Hanno dimostrato che i grandi autori sono tali qualsiasi casacca indossino, a qualunque nazione appartengono. Sono umani, come te, come me, e come il lettore che sta sbirciando questo mio striminzito articolo.
“Si è liberi solo fin dove si ignora la verità.”
Quest’ultima è la peggiore delle catene, specie quando finge di trasformarsi in fede assoluta. Molto meglio una sana disposizione a non capire un granché di nulla.
Tento di realizzare un terno al lotto. Tu, Carlos Ruiz, non t’offendere, per carità, in realtà sei Julián, figlio di Daniel, che intende scrivere la storia della sua famiglia, come gli aveva chiesto suo padre che si era rivelato incapace di farlo. Per riuscire nell’impresa ha bisogno di un maestro, l’unico che possa aiutarlo. Lo trova. A fatica, ma lo trova.
Julián dice: “Ho avuto due infanzie: una relativamente convenzionale, se una cosa del genere esiste, quella che vedevano gli altri; e una immaginaria, quella che vivevo io.” Non ti montare la testa, questo capita alla maggioranza delle scimmie denudate.
Confessi a Fermín: “a scuola dicono che sono un po’ strano”. Lui ti tranquillizza dicendoti: “Meno male. Inizi a preoccuparsi il giorno in cui le diranno che è normale.”
Forse il mio dramma umano è stato che chi cercava di risolvere il mio problema esistenziale, mi dava del tu e dava per scontata la sua maggiore maturità e saggezza. Boh! La tua fortuna Carlos Ruiz-Julián è che alla fine hai trovato un maestro che era ormai alla fine del suo tragitto umano e professionale, uno che aveva scoperto la bontà del gelato.
Un giorno incontrasti Bruno Arpaia (“il traduttore italiano”, che lo è, en passant, anche del presente tomo) che ti “confessò che da anni gli arrivavano voci secondo cui presto sarebbe apparso un nuovo romanzo di Carax, ma che lui non ci credeva.”
Ed ora ecco alcune frasi storiche di Carax:
“Scrivere è un mestiere che si impara, ma che nessuno può insegnare. Il giorno in cui capirà ciò che questo significa sarà il giorno in cui inizierà a imparare a essere uno scrittore.”
“Una penna non è di nessuno. È uno spirito libero che resta con qualcuno finché se ne ha bisogno.”
“Una penna è come un gatto, segue soltanto chi può nutrirla. E come viene, così se ne va.”
“Scrivere è riscrivere.”
“Si scrive per se stessi e si riscrive per gli altri.”
Quest’ultima è la frase che più mi garba dell’intera opera tua, caro Carlos Ruiz-Julián.
Grazie, caro scrittore, di aver citato la macchina per scrivere Olivetti, che è stata creata da una degli italiani migliori del XX secolo, a cui vorrei dedicare queste mie amene sciocchezze.
“Carax mi ha insegnato che un libro non si finisce mai e che, con un po’ di fortuna, è lui ad abbandonarci per non farci passare il resto dell’eternità a riscriverlo.”
Tua chiusa, prima dell’epilogo (sembra che questo giuro di giostra non debba mai finire): “Allora seppi che avevo finalmente trovato l’ultima tessera della mia storia e che, a partire da quel momento, mi aspettava la vita e, con un po’ di fortuna, la finzione.” Amen.
“Dopo un po’, sagome di vapore, padre e figlia si confondono tra la folla che inonda le Ramblas, i loro passi perduti per sempre bel labirinto degli spiriti.” Missa est.
L’ultima mia scemenza. La tirannia, più dell’oligarchia e della politeia, favorisce la corruzione, perché è gerarchicamente a cascata, a piramide. Uno è al comando, due gli stanno sotto, quattro al piano ancora inferiore, poi sedici, trentadue, eccetera. A macchia d’olio, si espande la nefandezza, sfruttando la tendenza gravitazionale (i cui valori notoriamente coincidono con quelli dell’inerzia).
Seconda stupidaggine. In tempo di guerra (e non mi si parli mai di una sua forma civile, perché essa on lo è mai!), l’uomo buono rischia di diventare stupido, cattivo e, a volte anche crudele. Chi lo era già in partenza finalmente può sentirsi autorizzato a compiere i più efferati delitti in nome della Storia, la quale è sì una fandonia (e non una menzogna!), raccontata per illudere gli uomini che alla fine qualcuno sopravvisse felice e, si fa per dire, contento.
Cito infine il titolo di un libro di Oriana Fallaci, deformandolo a piacer mio: la Storia è niente e così sia.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Carlos Ruiz Zafón, Il labirinto degli spiriti, Mondadori