“La mente ostile” di Milena Santerini: le forme dell’odio contemporaneo
La mente ostile è un saggio altamente sinaptico che tratta il tema dell’odio e del pregiudizio, e l’ho incontrato subito dopo aver conosciuto il libro-reportage Deserto bianco, scritto da Gian Stefano Spoto, che esamina con grande attenzione i dissidi culturali, politici e sociali che accadono in Palestina oggi, ma che datano dalla data di fondazione dello stato d’Israele, avvenuta nel 1948.

Alcuni insegnamenti presenti nell’Introduzione:
a) si odia nel nemico non solo il Male, ma anche il Bene;
b) il sentimento dell’odio coinvolge “nel cervello, varie aree che hanno a che fare con la paura, la rabbia, l’aggressività e il pericolo”
c) mentre l’amore “disinnesca con più facilità la razionalità, l’odio ha bisogno di freddezza e calcolo.” – perciò si dice che la vendetta è un piatto che si gusta freddo.
Nel primo capitolo, La mente che odia, leggo che: “Gli esseri umani dividono il mondo in due gruppi con estrema rapidità e sono pronti ad allearsi con i ‘nostri’ contro ‘loro’ in pochi istanti.” – il concetto vale per tutti gli esseri umani, anche per l’autrice, anche per me.
Questa verità è troppo amara, per cui sento improvviso il bisogno di ricordare la positività di mia mamma che, interpellata da un vicino razzista, gli risponde: i nîgher a gh ân al sàngov róss cme al nòster, sanguinano come noi. In arşân, nîgher è il colore nero, senza alcuna valenza razzistica.
“… l’odio ha un’origine evolutiva” – questa è una buona notizia, perché potrebbe di nuovo mutare in un senso del tutto diverso.
Il pregiudizio è una specie di apripista del giudizio. “… ciò non significa che il pregiudizio sia inoffensivo, anzi diventa una distorsione nella misura in cui scambiamo tali rappresentazioni per realtà…” – il giudizio viene dopo ed è quello deve informare l’azione di una persona.
“Il pregiudizio serve”, non comanda, perché “è un modo per semplificare la realtà e ‘risparmiare’ il pensiero di fronte alla complessità” – soltanto questo è.
Che la persona di colore abbia il sangue rosso come il nostro è un’opinione comprovata. Che il colore della pelle diversifichi il valore umano è una falsità assai diffusa, ma non per questo veritiera.
L’autrice riporta fatti interessanti: si prova più pena ed empatia per il tuo similmente colorato che per quello diversamente tale. Nella pagina precedente l’autrice aveva scritto qualcosa di oscuro, che potrei aver forse frainteso.
“La mescolanza e la diffusione nel pianeta delle popolazioni umane, discendenti da un piccolo gruppo africano, ha prodotto limitate differenze biologiche. Ciò ci differenzia dagli animali, le cui razze non possono incrociarsi e fecondarsi come invece accade per tutti gli esseri umani. La teoria razzista è falsa (ma attraente nella sua semplicità) non perché gli uomini sono tutti uguali, ma perché sono tutti doversi.”
La bestia più simile all’uomo non è né l’orango né il macaco, ma Phoebe, la nostra mezzosangue beagle/yorkshire. Nessun animale, a mio parere, ha prodotto maggiore polimorfismo del canis lupus familiaris. Immaginiamoci se la mia Phoebe incontrasse l’alano o il mastino inglese della sua vita. Sarebbe un bel pensiero per i suoi cari (che sono anche i miei), che cercherebbero d’impedire il conseguente incrocio amoroso. La natura, invece, acconsentirebbe alla relazione. Essa consente anche l’esistenza del mulo, del bardotto, del leotigre, del tigone (ma anche del leopone, del ligre, del pumapardo ecc).
Finora non ho mai sentito che una Miss mondo sia convolata a giuste nozze con un orango del Borneo o che un ministro delle pari opportunità si sia incrociato con un gorilla d’entrambi i sessi, suoi simili (geneticamente), eppure forse in ambedue i casi la natura darebbe il suo assenso.
L’uomo ha rinunciato allo spirito ecumenico che dimostrò quarantamila anni fa il suo simile neanderthaliano che rinunciò alla purezza razziale pur di continuare la stirpe umana che avrebbe condiviso con il suo collega sapiens. Se ci capita di incontrare un individuo con caratteristiche poco sapienti dobbiamo solo ringraziare il sacrificio di quell’impavido.
“Il riconoscimento immediato della differenza di ‘razza’ è frutto di un’eredità evolutiva, risalente a quando gli esseri umani avevano bisogno di capire con chi allearsi o contro chi combattere.”
Qui Phoebe obietterebbe: io regolarmente svolgo la mia attività di abbaiante da terrazzo ogni qual volta sub-odoro il lercio nonché aulente puzzo di altri quadrupedi lanosi o a pelo raso, di qualunque etnia canina, compresi beagle, yorkshire e meticci vari. Questo è il mio compito istituzionale, per quale sono nata e per la quale sono intimamente convinta di essere stata adottata.
Non è proprio così. L’abbiamo introdotta nella nostra famiglia perché lo abbiamo desiderato affettivamente. Il compito che si attribuisce se l’è creato lei, anzi, è innato in lei. Quando è in strada, la poverella zampetta defilata, senza guardare in faccia a nessuno, nemmeno se le passa accanto un suo simile di qualsiasi lanugine e di qualunque garrese.
Talvolta trema, se è costretta a una sosta nei pressi di un negozio. Pare come consapevole di non essere in quel momento nel suo territorio, sentendosi ovunque straniera, se non lassù in terrazzo, dove torna la ferina Phoebe di cui scrissi poc’anzi.
Lei concepisce due specie di cani: se stessa e tutti gli altri. A malapena alla sua ristretta razza siamo in un qualche modo ammessi come affini noi bipedi familiari e pochissimi eletti scelti fra i nostri parenti, amici e conoscenti. Il resto è soltanto fango genetico.
Il cane che abbaia al passante, chiunque egli sia, se non avvallato dal padrone, non è sempre un razzista, bensì, più facilmente, un censuratore: è come se dicesse: vi avverto di non ipotizzare nemmeno lontanamente di entrare nel mio territorio e non vi odio se rimanete estranei a esso.

Diversamente, e fàgh la malóra, e creo seri problemi alla vostra sicurezza e incolumità personale. Così è stato ridotto dall’educazione umana il talvolta stressato (ma realizzato socialmente) erede del canis lupus, che ben altri fini perseguiva illo tempore.
Nel sottocapitolo Alle origini del “Male”, colgo una perla, che l’autrice ha colto a sua volta in un’opera di Jerome Kagan (La trama della vita): ognuno di noi usa la natura e la cultura e la sua mente è un “arazzo grigio, ottenuto ‘intrecciando sottilissimi fili neri e bianchi: i primi rappresentano i temperamenti, gli altri le esperienze esistenziali.”
Si colgono a prima vista “la superficie grigia, non i fili” singoli, bianchi o neri che siano. Si tratta di “una co-costruzione, cioè lo sviluppo avviene nel rapporto tra caratteristiche individuali e influenza del mondo esterno, tra geni e cultura.” Le due selezioni, naturale e culturale, si mutano a vicenda, come due stelle doppie.
Questo insegnamento è conseguente al seguente, non minore e forse più inquietante: il sentimento di paura e di terrore, nonché di odio, e tutti i disagi che si provano nei confronti dell’Altro, hanno una marcia in più e sono immediati. Il ragionamento culturale tarda invece a formarsi e fatica a realizzarsi.
Inoltre quei cattivi sentimenti hanno un’origine di tipo evolutivo.
È l’innamoramento similmente bruciante?
E l’amore?
Quello pare più lento, quando è inteso quale sentimento di affetto, come quello che si prova per un coniuge dopo tanti anni di convivenza, il cui effetto è senz’altro lento, ma non per questo più sicuro, e che teme talvolta gli effetti disastrosi dell’entropia universale, dell’abitudine che riduce le quantità, che disperde i momenti dell’affetto, che quasi li immobilizza, fissandoli nel nulla infinito. Chissà?
Nel secondo capitolo l’autrice affronta la scottante tematica di Internet e le emozioni ostili. La disamina si conclude con la problematica che appare più urgente: “Ci si chiede quindi come impedire che i messaggi di incitamento all’odio si diffondano ‘viralmente’ alla luce del difficile confine tra legittima libertà d’espressione e parola discriminatoria.”
Sono descritte con minuzia tutte le nefandezze che accadono giornalmente on line, soprattutto nei social, ma non prospetta soluzioni.
La soluzione è complessa, ma non credo sia irraggiungibile. Un paragone che si può fare è col sistema di telecamere che riprende i passaggi semaforici. Un tempo chi passava col rosso, tornando a casa era quasi certo di averla passata liscia. Ora no. Probabilmente uno non si accorge nemmeno che l’arancione fosse divenuto, per un pelo, rosso. Lo scoprirà quando riceverà l’avviso giudiziario contenente la contravvenzione: la telecamera ha catturato l’evento e l’ha catalogato grazie alla targa del veicolo e ai dati comunicati agli uffici della Motorizzazione Civile.
Non so spiegarmi perché questo non possa avvenire con la rete di Internet. Si dovrebbe creare un unico account iniziale, da comunicare non ai padroni privati della rete, bensì al proprio Ministero degli Interni. Anzi: una cosa simile c’è già e si chiama SPID.
Dopo di cui, qualsiasi successivo account dovrebbe essere collegato all’originale. In tal modo ogni passo in rete sarebbe sempre riferibile a una persona fisica. Questo non porterebbe, io credo, a una società orwelliana, come quella descritta in 1984, ma un controllo del malaffare telematico da parte delle forze dell’ordine.
In una società oppressiva questa sarebbe un’ulteriore arma in mano al Dittatore, ma non muterebbe di molto lo stato delle cose.
Nella nostra, consentirebbe all’immediata individuazione di chi compie reati, quali quelli indicati dall’autrice, che non sono di opinione, ma di diffamazione o di calunnia.
È evidente che, in questo villaggio globale, il controllo funzionerebbe solo qualora un numero sufficiente di nazioni offrissero ai propri cittadini tale forma di protezione. Si potrebbe in tal caso provvedere, in ogni evenienza, all’informazione che il tal utente internettiano proviene da nazione in cui è assente il controllo.
Tempo addietro, alcune forze politiche contrarie all’immigrazione, propugnavano la catalogazione di qualunque straniero già al suo primo ingresso nel nostro paese, con la memorizzazione delle sue impronte digitali. Ora tale individuazione è comune a tutti, anche al sottoscritto, da quando ha rinnovato la propria carta di identità, che ora è elettronica.
Il mio senso di libertà non si è sentito svilito o ridotto.
Lo ritengo un servizio che potrebbe risultarmi utile, non avendo, al momento, alcuna intenzione di compiere un reato, lasciando inavvertitamente le mie impronte sul luogo del delitto.
La rete è quasi infinita e una semplice individuazione di comportamenti difformi non sarebbe però sufficiente a stroncare il loro perenne riprodursi. A questo punto il paragone con la realtà esterna può ancora venire in aiuto.
Un’auto passando investe un pedone, e fugge, omettendo il soccorso. Chi è presente raccoglie i dati del veicolo (targa, modello dell’auto, colore). Subito dopo chiama l’ambulanza. Grazie al suo intervento, a prescindere dalle conseguenze fisiche per la vittima, il colpevole dei reati commessi potrà essere individuato e dovrà rispondere dei suoi atti.
Lo stesso può e deve accadere nel mondo online. Chi si accorge di un reato, in qualunque ambiente si trovi, deve essere posto nelle condizioni di comunicare alle Autorità la propria segnalazione, assumendosene la responsabilità civile e penale.
L’ambiente online deve rimanere sia privato che pubblico, come qualsiasi altro. Chi compie un omicidio a casa propria è perseguibile esattamente come chi lo compie in un ufficio pubblico. Il suo appartamento è privato, le conseguenze del suo atto sono pubbliche.
Io frequento l’ambiente online. Il mio comportamento all’interno di esso è lo stesso rispetto a quello che informa le mie azioni nel mondo reale. Strana espressione però: anche il mondo internettiano è reale e fisico, anche se si è alla tastiera e non sta passeggiando per la via. Questo è un concetto semplice che va però sottolineato.
Anni fa, in una discussione che avveniva in un gruppo di meccanica quantistica, fui definito un troll, in quanto mi ostinavo ad asserire che la teoria della relatività era senz’altro fallace, in quanto portatrice di paradossi (come quello dell’orologio) quantomeno assurdi (come tutti i paradossi), che sorgono da un’assolutezza comprovata: la costanza ed insuperabilità della velocità della luce nel vuoto.
Il paradosso è un importante mezzo filosofico, in quanto permette (non si sa quando) di andare oltre la doxa comune. È una specie di asticella logica che al momento nessuno sa scavalcare.
Karl Popper mi avrebbe dato ragione: qualunque teoria scientifica è falsificabile. In quel caso, la mia opinione di ignorante di fisico conscio di esserlo non fu contrastata dialetticamente, ma retoricamente, e mi si definì con quel termine offensivo.
Non avevo affatto celato di essere un pur appassionato dilettante, e non uno studioso, né uno studente. Mi ero limitato ad affermare un’ovvietà.

Galileo fu falsificato da Newton, il quale lo fu da Einstein. Prima o poi qualcuno correggerà le tesi scientifiche dello zazzeruto tedesco-svizzero-yankee.
Io non calunniai nessuno, né lo diffamai. Loro dissero che ero uno dei tanti provocatori in cerca di assurde controversie. La loro non era una calunnia, bensì una maldicenza. E io l’accettai per quello che era, ma decisi immediatamente di troncare la discussione, disertando per un po’ quel gruppo, limitandomi anzi a leggerne i post più significativi.
Un’altra volta mi capitò di commentare certe problematiche occorse nella realizzazione di un’opera pubblica nella mia provincia e del comportamento dubbio da parte di un noto politico reggiano. Un’interlocutrice scrisse: Stai forse alludendo a… e indicò il nome del politico. Mi limitai a dire di sì. In giornata fui sospeso da Facebook. Un incaricato di quel social mi chiese con una mail di scannerizzare e di inviare il mio documento d’identità, intimazione a cui obbedii prontamente. Mi ridomandò poi di eseguire l’operazione una seconda volta, in quanto l’immagine era troppo scura e i dati erano poco visibili. Inviai nuovamente l’immagine. Il giorno dopo fui riammesso, con tante scuse addirittura!
Il fatto mi aveva un po’ turbato, ma capii che all’origine v’era un diritto del titolare del programma con cui interagivo e di cui usufruivo. Se il mio account fosse stato Bingo Ballino e non Stefano Pioli, e non fossi stato in grado di produrre un documento di riconoscimento allineato a esso, sarebbe stato giusto non riammettermi.
Infine vorrei esprimere un ulteriore concetto di omogeneità fra social e vita reale. Cerco di essere normalmente un uomo ironico e di rimanere tale quando pubblico su Facebook un intervento.
A Bari ho finalmente incontrato un certo Roberto M. che, dal vivo, risultò identico a quello che si era dimostrato online. O forse ancora più simpatico e vivace.
Esiste però il caso penoso di un mio amico di nome Maurizio, che ricordo come un ragazzo assai taciturno e timido. Egli poi si trasferì con la famiglia in un’altra regione. Non più amici nella vita cosiddetta normale, lo diventammo in quella telematica. Notai subito un suo cambio di tono, ora ricco di sicumera e grondante di toni provocatori. Glielo feci presente e lui mi rispose immediatamente che nella vita si cambia. Una volta Maurizio sarebbe arrossito e avrebbe iniziato a balbettare. L’agnellino s’era mutato in un leone che ruggiva e censurava il mondo intero. Purtroppo non ho mai avuto la possibilità di incontrarlo di nuovo di persona e di sottoporlo a verifica.
Ribadisco che Internet deve rimanere privato a controllo pubblico, per cui l’accettare che esista come un mondo a se stante svincolato dalle regole può essere gradito solo a chi intenda approfittare della possibilità di delinquere rimanendo ammucciato, che è l’eterno sogno dei criminali. Per combattere il fenomeno l’unica arma è la possibilità di rintracciare i dati di ognuno: segnalanti e segnalati.
Terzo capitolo: L’odio collettivo. Leggo del genocidio voluto in Cambogia dai Khmer Rossi di Pol Pot dal 1975 al 1979. Del fatto, a cui non ho mai prestato la necessaria attenzione, ricordo a malapena i tanti teschi ammucchiati l’uno sull’altro. Ben altro ricordo l’ho per gli analoghi teschi che vidi (stavo per scrivere che li ammirai) all’interno del Duomo di Otranto, non solo perché li ho vissuti a pochi metri, e non in foto, ma soprattutto perché erano italiani e cattolici come lo furono i miei genitori. Erano teschi nostri.
Per quanto riguarda il “mezzo milione di morti in Ruanda nel 1994, in soli 34 giorni (dall’11 aprile al 14 maggio)”, credo che per la maggior parte degli italiani (si tratta di un mio pregiudizio forse avventato) ritenga che fosse causato da un dissidio fra negri alti e negri bassi. In realtà era fra hutu ricchi, da una parte, e tutsi poveri e hutu moderati, dall’altra. Era di fatto uno sterminio di chiara origine economica, cioè una guerra come migliaia d’altre.
“… i singoli individui subiscono una radicale trasformazione quando entrano in una folla…”, perché il collettivo “nasconde le differenze individuali”.
D’altra parte, chi è individualista è a suo modo asociale. Si tratta sempre di una scelta fra due modi d’esistere, nessuno dei due appare assoluto e definitivo.
“… un gruppo – un Paese, una nazione, una regione o l’intera comunità globale – può essere afflitto da una sofferenza cronica senza saperlo” – immenso e tormentato essere umano composto da miliardi di anime gementi.
“E oggi?” – oggi il virus globale sta di certo svolgendo un egregio compito a riguardo.
“Gli psicologi distinguono tra un pensiero più di tipo esplorativo, che considera in modo imparziale punti di vista alternativi, e quello confermativo, che razionalizza solo un punto di vista.” Scopo di alcuni ragionamenti è “trovare prove a supporto di posizione su cui ha già deciso di attestarsi, di solito basandosi sull’intuito.”
Mi sento orientato verso entrambi i pensieri, ma forse più sul primo, almeno a livello conscio. Del resto, sul secondo è fondata la scienza galileiana: attestare con prove sul campo di una teoria astratta e cioè concretizzare un’idea. Poeti vs. scienziati?
Il poeta esce misticamente dalle parti e diventa creatore di una realtà relativamente nuova. Lo scienziato ha bisogno di preconcetti, detti postulati, come il filosofo necessita di assiomi e il religioso di dogmi.

Il pensatore indiano Jiddu Krishnamurti negò tutto ciò. Egli invitava a osservare la realtà così com’era, esattamente come si scorge un cobra, senza lasciarsi condizionare da sovrastrutture culturali. Fu definito un anti-guru, perché il suo insegnamento era volto al disconoscimento del valore informativo di quello che è diventato una parte di te. Era diventato il mio maestro preferito, tanto che lessi tutte o quasi le sue opere tradotte in italiano, di cui ricordo un titolo a caso: Libertà dal conosciuto. Anzi, due: La prima ed ultima verità. E ora mi sovvengo di un terzo, che fu invero il primo che lessi: Cominciare a imparare. Purtroppo ho solo imparato a cominciare a farlo, restando ancora fermo al suo primo suo ragionamento: evita i preconcetti che ora posso finalmente tradurre, non farti condizionare a lungo da essi.
“Non potremmo essere in disaccordo in modo più costruttivo?”, si chiede lo psicologo americano (stavo per scrivere yankee) Jonathan Haidt, citato da Milena Santerini.
Una volta il mio antagonista Gino e io eravamo nel bel mezzo di una disfida a chi non mollava la tenzone. Lui mi si avventò addosso col suo vocione e io, messo alle strette, gli sussurrai, vilmente: Lo sai, caro amico, che quando parlo con te, io miglioro sempre?! Al che lui mi fissò con un misto di pena e riconoscenza, e gli sembrò forse che stessi finalmente per cedere (era cintura nera di judo, campione italiano jr. over 95 chili). Ah sì?, mi disse. Sì, caro, io miglioro ogni volta, tu invece rimani sempre quello che sei! Queste mie parole finirono per farlo vieppiù infuriare.
Quante volte ho rimpianto questi vaghi momenti di dissidio, dopo che Gino ha deciso di salire (o scendere) Altrove!
“Non si vuole la stessa cosa, ma quello che l’altro, invidiato, vuole.” Quel che ci piace diventa parte di noi anche se appartiene all’Altro.
Tal dei Tali, famelico ingegnere amalfitano, era egoista anche da guaglione. Se una cosa tua gli piaceva ti diceva Ora è mia, perché mi piace. Quel che è mio è mio. Quel che è tuo diventa di mia proprietà, ma solo quando m’intriga. E tu mi devi essere grato perché ti rispetto, mostrando di gradire quel che ti appartiene.
“Il venticinquenne Amir non fece che obbedire coerentemente alla sua logica, risultando anzi il più ‘coerente’ tra quelli che avevano accusato Rabi di svendere Israele” – e lo ammazzò in quanto logica conseguenza di un suo ragionamento.
Similmente fece Bruto col Dittatore a vita e s’illudevano di fare Tito Zaniboni col Duce e Claus Schenk von Stauffenberg col Fuhrer. “Attentati come questo non possono essere considerati follia” – difficile essere d’accordo con se stessi a proposito di essere d’accordo con tale enunciato.
Uccidere il prossimo, chiunque egli sia, è un atto potenzialmente razionale?
È umana la pena di morte?
Le tesi di Cesare Beccaria sono ancora valide?
La guerra è un diritto umano?
Esistono stragi motivate razionalmente?
“Tra le file dell’ISIS o di al-Qaida molti sono giovani musulmani ma in realtà ‘disaffiliati’ che esprimono un odio antioccidentale, si sentono vittime e trasformano il disprezzo di sé in disprezzo dell’altro”. Se rinunciano al loro ideale, rischiano di essere giustiziati, ma vengono poi rimpiazzati da nuovi volontari provenienti da tutto il mondo.
Perché Hemingway lasciò il suo tranquillo lavoro di cronista per andare a combattere in Europa, al pari di altri geni della scrittura come Cummings, Dos Passos, Faulkner e Scott Fitzgerald? La scelta fu condivisa anche da Hans Castorp, mentre suo padre Thomas preferì rifugiarsi dapprima in Svizzera e poi in America.
I neorazzismi è il titolo del quarto capitolo.
Stimolante è l’osservazione che “i cinesi, per esempio, furono considerati bianchi dai gesuiti in missione nel Cinquecento, ma solo con un complicato processo si finì per definirli ‘gialli’ nel diciannovesimo secolo, così li si poteva collocare in quella “scala dei colori” che tanto tranquillizzava: non bianchi come gli europei, ma neanche neri come gli africani.”
A quanto mi risulta, Cam, Sem e Jafet non avevano un quarto fratello (che alloggiava fuori casa, nell’altra parte dell’emisfero) coi tratti mongoli.
Il fatto è ridicolo, nel senso che fa ridere e costernare al contempo, e dà l’idea dell’assurdità della divisione dell’umanità secondo quell’assurdo spettroscopio di colori.
E i cinesi moderni? Per quello che ho percepito esiste una forma di razzismo nei loro confronti, perché li si percepisce come diversi, ma non come pericolosi. Risultano anzi graditi a chi vuole comprare oggetti di uso comune senza spendere troppo. Non si fanno coinvolgere in azioni criminose, ma soprattutto appaiono solo quando servono (al di là del bancone), per poi sparire quando non sono più utili.
“Il ruolo della politica, come è evidente, diventa centrale per dare una struttura a gesti e opinioni di tipo razzista, e per legittimarli.” – la politica, cara Milena, diceva quella donna ricca di pregiudizi che era mia mamma, l’ē na brōta bèstia, perché poco belli sono quelli che se ne occupano.
Una volta, azzeccato agli altri viaggiatori sul pulmân che da Salerno conduce ad Amalfi, conversavo con una coppia del Queensland. Chiesi loro se dalle loro bande i politici fossero onesti. La risposta fu immediata: Of course! Diversamente, mi spiegarono, nessuno li avrebbe eletti. E pensare che alcuni fra i primi coloni australiani erano dei forzati a vita, o giù di lì.
Una volta un’amalfitana mi disse con fierezza che suo marito faceva o politicante a Salierno. Questo è il pregiudizio da cui non so liberarmi: in Italia un gran numero di politici è tendente alla finzione. Le recenti acrobazie eseguite da due leader che in comune non hanno solamente il nome di battesimo, ma una certa elasticità mentale (chiamiamola così) comprovano quanto detto (almeno per loro). C’è un partito che è nato come specifico di una zona del nord, che anni fa propugnava la secessione dal resto d’Italia, e che giudicava i meridionali come cittadini inferiori culturalmente (probabilmente non conoscevano né Vico, né Sciascia).
Dopo le numerose invasioni di extracomunitari, come comunemente vengono da loro definite, anche i Lucani del Sud e i Trapanesi del Nord sono tornati a essere definiti italiani. Ieri ho scorto in tivù il loro leader che sfoggiava una patriottica mascherina tricolore. Gli ex irredentisti sono ora diventati sovranisti.
Ipotizzo un futuro distopico in cui i Jivaro peruviani penetreranno con tanto di astuccio penico nel Bel Paese e ipotizzo che soltanto allora gli Estoni, i Maghrebini e persino i Burkinafasini saranno dei Nostri.
In un rapporto dell’ONU si “notava che in Italia viene utilizzata una terminologia basata sul disprezzo che legittima l’esclusione o la criminalizzazione dei migranti, specie se irregolari, creando un contesto in cui si giustifica il loro sfruttamento.”
La nostra appare una società quantomeno assurda, contraddittoria e a volte ipocrita.
Se un Ispettore del Lavoro rinviene al lavoro un clandestino intento alle mansioni di lavapiatti o di chef, è tenuto a chiamare immediatamente le forze dell’ordine.
Se un cittadino qualsiasi usufruisce delle prestazioni erotiche di una prostituta in genere non si azzarda certo a controllare il suo permesso di soggiorno.
Mio padre ha lavorato 46 anni alle OMI Reggiane di via Agosti, che era definita la piccola FIAT reggiana, miseramente fallita qualche decennio fa. Ora quella piccola cittadella è ridotta a una disgraziatissima ghost town. Qualche buontempone ha scritto un THE END tra una fila e l’altra di alcune finestre coi vetri rotti. Nei suoi cadenti ex ambienti lavorativi, dove non mancano dei fantasiosi murales, dimorano numerosi emigrati dell’Africa centrale, di cui ignoro lo stato giuridico e la nazionalità. So soltanto che sono inequivocabilmente negri. L’ambiente è sprovvisto di strutture di accoglienza (letti, refettorio eccetera). Quei poveri esseri abitano quel luogo abbandonato non potendo usufruire di alcun agio e servizio.

Una volta, nel 1994, mi ero recato con mia moglie al Monastero abbandonato di Montefalcone, che si stagliava desolato e immenso sullo sfondo di un panorama unico. Dovemmo poi spiegare a un paio di carabinieri sopraggiunti con una Gazzella che ci trovavamo da quelle parti solo per ammirare quell’architettura religiosa. Ci intimarono di andarcene all’istante, ché quella zona era pericolosamente infestata da clandestini e da spacciatori.
Narro queste amene storielle per mostrare come il fenomeno del diversamente etnico sia foriero di ogni sorta d’ipocrisia umana e sociale.
Vorrei lasciare un commento attinente al sottocapitolo Rom e antiziganismo. Lessi anni fa La vergogna e la fortuna di Bianca Stancanelli, che esaminava con compiutezza il fenomeno.
A mie specifiche domande, provo a rispondermi (userò d’ora in poi la parola zingari per comprendere tutti i nomadi, di qualunque etnia):
Ospiteresti a casa tua una famiglia di zingari? Non credo, sarei probabilmente prevenuto. Però non ospiterei nemmeno una coppia di islandesi senza prima conoscerli a fondo.
Credi che la maggioranza degli zingari chieda l’elemosina o rubi? Non lo so, ma credo che chi è privo di un lavoro stabile, probabilmente è costretto a farlo.
Nel saggio, la Stancanelli indicava delle cifre, che ora non ricordo con esattezza, che quantizzavano la percentuale (comunque alta) di zingari che tentavano di uscire dal loro ambiente, ma raramente era loro offerta la possibilità di cambiare la propria condizione.
Aneddoto sfizioso. Quando mia figlia frequentava la scuola materna, avvenne una serie preoccupante di fatti incresciosi, in una parola: furti. Era stata da poco assunta una zingara e le maestre nutrivano dei forti sospetti su di lei. Alla fine di un pranzo, un’altra neoassunta si alzò dal tavolo, mentre gli altri dipendenti della scuola erano ancora seduti alla mensa. La zingara seguì il suo esempio. Alla chetichella, un paio di maestre si alzarono e cominciarono a seguirla. E la sentirono a un certo punto sbraitare: Tu rubi a me che sono zingara! Aveva sorpresa la sua nuova collega con in mano il suo portafoglio e quella si stava giustificando dicendo che si era limitata a raccoglierlo, avendo per caso notato che era caduto. Finì tutto a male parole e nulla più.
Informo chi legge che aveva rinvenuto a terra il portafoglio, era una napoletana, che da allora fu sospettata di essere stata l’autrice degli altri furti, ma che non confessò mai alcuna colpa.
Rubano più certi napoletani o certi zingari? Non credo esistano stime attendibili a riguardo.
Gli zingari vivono un’esistenza “dura e difficile, spesso ai margine della società o nell’illegalità”.
Lo stesso accade ad alcuni residenti dei Quartieri Spagnoli (che io visitai una volta di pomeriggio, ma che evitai accuratamente di sera) o del Rione Sanità (non ancora frequentato). Anche a Reggio Emilia esistono delle vie più pericolose di altre. In ogni città più o meno grande accade lo stesso.
Non so dove piazzare l’argomento, perciò lo metto qui, dopo i diversamente etnici. Ho sentito gente di sinistra e di elevata istruzione affermare che i coglioni e gli ignoranti non dovrebbero votare, perché la destra (il populismo, il sovranismo) pesca i suoi voti tra quelle due tipologie di cittadini. Fino al 1971 fa le donne svizzere non potevano votare a livello federale. Poi il suffragio venne loro concesso, pur essendo tenute a possedere un documento di riconoscimento. Per individuare un rappresentante d’entrambi i sessi della specie umana occorre una semplice carta d’identità.
Non è ugualmente facile identificare con certezza un coglione, perché in tal caso entra in gioco la doxa, l’opinione personale o un giudizio medico-legale (a cui dovrebbe essere lecito opporsi mediante un ricorso amministrativo).
Per l’ignoranza si potrebbe introdurre come crisma il possesso di un minimo titolo di studio.

Leonardo da Vinci non fu granché scolarizzato, alla sua epoca, tanto che si autodefinì omo sanza lettere.
Mia madre (sempre lei) aveva la quinta elementare, ma era più saggia del sottoscritto (per esserlo non le usciva l’ernia). Sognava di diventare infermiera, ma le dissero che non era cosa per una donna di campagna. Mio padre cominciò a lavorare in regola a quattordici anni e, appena poté, iniziò a frequentare le scuole serali.
Il quinto capitolo è intitolato Un mondo senza antisemitismo. Inquietante come tutti gli altri, il che non significa che non ne abbia scorto una minima criticità.
Nessuna opera scritta può essere perfetta, neanche una recensione, e nemmeno una reazione spontanea come la presente, che non è per nulla critica, ma rappresenta la descrizione del fenomeno occorso al sottoscritto durante la lettura. Quando scrivo questi commenti, cerco innanzitutto di rinvenire il luogo, per me sacro, dove l‘autore si rapporta al lettore (l’immagine mi deriva ovviamente da Il sacro e il profano di Mircea Eliade).
Qualsiasi forma di razzismo è da condannare in modo assoluto, e l’antisemitismo non fa eccezione. È importante però cercare di comprendere le cause che portano oggi ad avversare quell’antico popolo.
Non voglio intervenire sul tema sulla legittimità della creazione dello stato d’Israele, né su chi l’ha avuto: senz’altro non ebbero voce in capitolo né i Pixuntiani, né gli abitanti di Altavilla Silentina. Ormai sono passati vari decenni e l’usucapio è consumato.
È innegabile che la nostra nazione sia stata liberata 161 anni fa, a seguito di una guerra combattuta fra Italiani, vinta dai Savoia grazie all’aiuto decisivo offerto da forze estere (soprattutto il governo francese e la massoneria inglese).
“L’antisionismo – che non è dello stesso ordine, poiché riguarda lo stato d’Israele e la sua politica – serve talvolta come uno schermo per l’antisemitismo, alimentandolo e portando ad esso.”
Ormai l’Italia non è più soltanto un’espressione geografica, ma uno Stato politicamente definito. Lo stesso vale per Israele.
“Se si nega questo diritto soltanto a Israele, mentre lo si riconosce a tutti gli altri Stati, o se ne invoca la distruzione, è probabile che ciò sia frutto di antisemitismo.”
La Shoah: “Perderne la memoria, usurarla, banalizzarla o istituzionalizzarla comporta l’indebolimento delle difese che possiamo opporre alla disumanità. In questo senso, tutte le forme di antisemitismo, e non una più dell’altra, sono una minaccia per la nostra convivenza”.
Leggendo il già citato “Deserto bianco” scopro che “gli ortodossi della fede ebraica hanno il privilegio di non lavorare e di ricevere sussidi dallo Stato. Per cui hanno il tempo di accudire i figli, educandoli agli studi religiosi. Porteranno a passeggio i più piccoli camminando tre metri avanti rispetto alle loro mogli”.
Non so decidermi a quantificare il mio disappunto, soprattutto perché vivo in una nazione dove restano in vigore i fascisti Patti Lateranensi, che impongono degli obblighi civili per salvaguardare la religione cattolica. Si tratta di un insieme di privilegi che ha un’origine legislativa e che pertanto è cosa buona e giusta, pur rimanendo discutibile.
Il mio amico Riccardo mi disse un giorno di non essere Ebreo, ma che avrebbe desiderato esserlo. Egli abita a Parigi al quartiere Le Marais, pieno di boutique, gallerie e bar gay, che una volta ospitava il quartiere ebraico, dove si trovano ancora molti ristoranti kosher (che cucinano cibi conformi alle norme dietetiche previste del Pentateuco). Per provocarlo (sono fatto così) gli dissi che il nazismo e l’ebraismo in comune hanno l’idea del Popolo Eletto, uno dal Fuhrer e l’altro da Yahweh.
Esistono diverse interpretazioni della domanda di chi sia un Ebreo. La disamina presenta difficoltà: lo si è per discendenza (matrilineare?) o per conversione?
A chi occorre presentare domanda?
È legittimo inoltrare il ricorso avverso un’eventuale reiezione?
Purtroppo sono sprovvisto delle necessarie conoscenze giuridiche, per cui mi limito a proporre tali quesiti.
Riporto un secondo passo tratto dal libro di Spoto: “Il Gran Muftì di Gerusalemme parla di mussulmani e cristiani come di un popolo palestinese unico… e, poche righe sotto: Nelle parole del Muftì è chiaro l’invito a un fronte comune delle minoranze, in un sistema in cui religione e politica sono inscindibili.”
Ebreo è chi crede nell’elezione divina del proprio popolo.
Nazista è chi crede nell’ideale di supremazia della razza ariana.
Il sesto capitolo è Una normale violenza. L’odio a sfondo sessuale. Finora l’autrice non ha parlato della discriminazione fra uomo e donna, quella che maggiormente si conosce, che a volte pare addirittura scontata e inevitabile, ma anche, paradossalmente, in via di soluzione, se le cronache non riportassero quasi giornalmente notizie raccapriccianti di femminicidi, in cui risulta chiaro che un certo tipo d’uomo si pone su un piano di pericolosa alterità possessiva rispetto alla propria donna.
A tali misfatti può porre rimedio soltanto un’educazione psicologica e sessuale fin dalla primissima infanzia. All’immenso problema non pare prospettarsi alcuna soluzione definitiva.
Meno tragica e forse un po’ risolta è la discriminazione che avviene sul piano della professionalità.
Mia sorella si laureò in Chimica Pura nel 1980, in soli cinque anni, col voto finale di 110 e lode (e bacio accademico), prima e meglio dei suoi compagni d’Università. Lo stesso accadde alla sua amica e compagna di studi. Ad entrambe fu precluso l’accesso alle industrie, presumibilmente in quanto donne (le uniche del loro corso).
Entrambe si iscrissero a un concorso per una cattedra di matematica.
Entrambe lo vinsero.
Entrambe insegnarono tutta la vita.
Entrambe erano diversamente bianche.
Oggi la situazione sta cambiando. Speróm!
Il settimo e ultimo capitolo è: Il sentimento antimusulmano. Anche in questo caso occorre cercare di capire il perché il mondo islamico appaia come uno spettro che incombe sul mondo occidentale.
Il discorso è più complicato che nel caso dell’antisemitismo. Unico è il Sion, tanti (e variegati) sono gli Islam. Tento soltanto una parziale disamina.
Anni fa lessi la traduzione italiana del Corano (di Roberto Piccardo Hamza, Newton Compton Editore, 1997) e, come già anni prima mi accadde con la Bibbia, molti passi sollevarono in me delle curiosità e delle perplessità dovute senz’ombra dubbio alla mia ignoranza.
Ho cercato di confrontarmi en passant con alcuni mussulmani, i quali mi dissero che l’avevano letto un po’ di sfuggita e che, per gli interrogativi che ponevo, avrei dovuto rapportarmi con l’imam di Reggio Emilia, con cui però non ho confidenza.
Alcuni versetti che mi lasciarono dubbioso:
“Nei loro cuori c’è una malattia e Allah ha aggravato questa malattia. Avranno un castigo doloroso per la loro menzogna.” II, 10
“Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete.” II, 216
“Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono i loro beni. Le virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse. Allah è altissimo, grande.” IV, 34
“O voi che credete, non sceglietevi per alleati i Giudei e i Nazareni, sono alleati gli uni degli altri. E chi li sceglie come alleati è uno di loro. In verità Allah non guida un popolo di ingiusti.” V, 51
“O Profeta, incita i credenti alla lotta. Venti di voi, pazienti, ne domineranno duecento e cento di voi avranno il sopravvento su mille miscredenti. Ché in verità è gente che niente comprende.” VIII, 65
Di tutti questi versetti, e di altri, vorrei discuterne con qualche esperto, ma mi ha sempre trattenuto la diffidenza per l’Altro differentemente religioso, ed è questo il pregiudizio mi che mi frena, non la mancanza d’interesse.

Intorno al 1993 feci amicizia con una coppia, lui era di Cava dei Tirreni, lei era berbera del Marocco. Lei vestiva all’occidentale e spesso portava la gonna corta e una t-shirt. Una volta incrociammo in via Adua una donna che indossava un niqab. Chiesi alla mia amica di che religione esatta potesse essere (sunnita, sciita o che altro). Lei mi rispose in modo sintetico: mussulmana. Quando i due si sposarono, lui si convertì all’islamismo. Era la condizione imposta dal padre di lei, diversamente l’avrebbe rinnegata e diseredata. Nell’Islam è il genitore maschile che si occupa della religione dei figli. Quando si lasciarono, a lei fu affidato il bambino. Nel frattempo il padre di lei era morto e fu risolta in tal modo ogni possibile aporia.
Il primo immigrato africano che conobbi, oltre quarant’anni fa, era un marocchino che spacciava (si fa per dire) tappeti casa per casa e che tutti chiamavano affettuosamente Muhammad, ma ignoro se fosse il suo vero nome. Poi ne arrivarono altri due, cinque, sette, dieci, cento, mille, e poi diverse centinaia di migliaia, per lo più occupati nei trasporti, nell’edilizia e nel facchinaggio.
Non ho mai sorpreso un arabo che chiedesse l’elemosina. Qualcuno un po’ brillo sì.
A nessuno ho domandato se fosse islamico. L’ho sempre dato per scontato.
Ripenso ora alla tesi dell’autrice: l’odio è un sentimento immediato che precede qualsiasi ragionamento e che è arduo superare.
Ne consegue che ogni forma di odio razzistico è fondato sull’ignoranza e sull’estrema difficoltà a porvi rimedio, per cui occorre prendere coscienza del problema e cercare di conviverci in un qualche modo, senza mai darlo per scontato, confidando nella superiore saggezza e razionalità.
Il saggio di Milena Santerini ha il pregio di essere chiaro, e perciò illuminante. Ed è anche profondo, nonché, come s’è forse intuito, assai stimolante, e per tutto ciò intendo ringraziarla.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Milena Santerini, La mente ostile – Forme dell’odio contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, 2021