“Uno splendido isolamento” di Edna O’Brien: quell’esecrabile utopia che si chiama umanità
Sto leggendo un libro perfetto, uno di quelli a cui è quasi impossibile aggiungere qualcosa, come si raccomandava Borges, e quindi non so se ne scriverò, ma ci sto pensando.

Ignoro come ne uscirò, ma si sa che per me reagire a un libro significa iniziare la sua digestione.
In una pagina a caso, scovo finalmente un anfratto a cui potermi aggrappare: “Chiude la finestra e poi la riapre di colpo perché l’aria gelida e frizzante possa entrare e circolare nella casa decrepita.”
Ogni luogo umano contiene una serie impressionante di storie, alcune sopite, altre non ancora, altre che non lo saranno mai. Cambiare abitazione non è la soluzione e ogni storia è un’eventualità che si somma a tutte le altre.
Questa qui riguarda una tipa ormai anziana che vive sola, dopo che gli è morto quell’infame ubriacone di marito che la malmenava e l’amava a modo suo, quando e come pareva a lui.
Nella sua casa, a forza di aprire e di richiudere la porta e le finestre, s’intrufola un volontario, un membro dell’IRA, un ribelle, un delinquente: un tale di nome McGreevy, un gran bravo ragazzo che ha ucciso una ventina di persone e che è soprannominato La bestia.
Fra i due si stabilisce un entanglement:
“‘Se credi che uccida per il gusto di uccidere, sei matta… sei come tutti gli altri.’
‘Prima o poi ti esploderà tutto in faccia!’ gli dice, avvilita per aver pensato di poter fraternizzare con lui.
‘Credo proprio che hai ragione,’ ammette mentre lei esce. Non gli risponde nemmeno. Nel suo animo, nella sua natura di uomo qualcosa si è spezzato per sempre.”
Sempre accade che, prima o poi, due particelle correlate inizino ad allontanarsi l’una dall’altra, o a dare quest’impressione. Nel loro splendido isolamento, in cui lo spazio-tempo sembra zittirsi, i due piccoli enti, interagendo, si sentono esterni al cosmo e in qualche modo sublimi.
Quei due cuori appassionati si sono conosciuti nel momento in cui ognuno è intento a rimirare la propria fine. Entrambi hanno perso tutto e ormai non gli rimane che l’Altro, che ogni volta riappare.
“Quanto ci vuole per uccidere un corpo e poi quell’immagine racchiusa in quel corpo, che gli sopravvive, resiste e rifiuta di rendere l’anima?”
Sono domande inutili quanto essenziali, se la più banale delle risposte, quella sancita dalla scienza, è che nulla si crea e nulla si distrugge, ma che ogni cosa si dilegua nel nulla e poi si ricrea.
È un mondo miserrimo quello in cui basta premere un grilletto e qualcuno sparisce per non tornare mai più: “Non l’avrebbe mai vista, chiaramente, quella faccia…” – né mai più la vedrà: “… un uomo i cui familiari ignoravano ancora la morte. Chi erano? Chi lo avrebbe pianto? Chi lo avrebbe portato al cimitero?”
E i vivi? Non sono certi di esserlo ancora: “Josie allunga la mano ancora per toccarlo, solo una volta, ma lui se ne accorge e si tira indietro, poi si volta a prendere una sigaretta”, che potrebbe essere l’ultima.
Josie vorrebbe agguantare quell’anima sfuggente, destinata a scappare per sempre; ma lui resiste: “Per favore, fate che non mi chieda altro, non mi cavi fuori quello che è soltanto mio, non apra porte che io ancora non ho visto ma che un giorno dovrò vedere e varcare…” – ti auguro, volontario mio, di tardare il più possibile quell’attimo imperdibile e imperdonabile. I tuoi numi ti aiuteranno ad aspettare, senza farti fretta, perché ormai sono assisi là, dove non ci si danna più a cercare quell’illusione che, così assurdamente, non esiste.
Il tempo va e viene e, ogni volta che gira l’angolo, ammicca. Prova a prendermi, se ci riesci, sembra voler dire. Non solo si trasforma in quello che non è ancora, ma spesso torna ad assumere le sue forme antiche.

E ora dove ti sei ficcato, disgraziato? “Era andato a rintanarsi nel ripostiglio delle scarpe e se ne stava rannicchiato sotto un ripiano, fra le scarpe e la muffa. Una volta calata la sera gli aveva detto di venire fuori.” Non era però un attrezzo, né una calzatura, ma un’anima che gemeva come tutte le altre.
“Piange, la terra, e c’è poco da meravigliarsi. Ma la terra non può essere occupata; è lì.”
Non può essere invasa che per dei brevi attimi che paiono eterni, ma che non sono altro che pagliuzze che bruciano nel ventre di un vulcano eterno.
Edna chiude con un augurio che non sono sicuro di essere in grado di comprendere fino in fondo: “Penetrare fino alla fonte dell’odio e dell’ingiustizia, abbeverandovisi ed esserne assorbiti. Questo i libri non lo dicono. Un giorno lo si capirà. Si dovrà capirlo.”
Tutti i conflitti recano il male, tutti i mali indossano i conflitti, come se fossero delle vesti mai logore.
Non c’è un’anima che si salvi. Forse perché non c’è salvezza alcuna. A meno che non sia tutto un unico groviglio che dispera ognora di evitare quell’abisso, che dista ormai un solo passo.
Pochi libri, come quelli di Edna, mi hanno reso consapevole della tragedia che regge l’esistenza. Non potrà mai esistere quell’esecrabile utopia che chiamiamo umanità, essendo noi persi in quell’anelito folle che insegue quell’incerto miraggio che si chiama uomo.
Tutto questo disastro lo devo a te Edna, e a te Anna Bassan Levi, traduttrice di tanta grandezza.
E non so se riuscirò mai a perdonarvi. Aiutatemi entrambe, se riuscite.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Edna O’Brien, Uno splendido isolamento, Einaudi, 1997