“A ritroso” di Joris-Karl Huysmans: la vita è una scrittura aerea
Io credo molto nel principio della non località quantistica. Nell’entanglement.

Questa è la cultura, la scrittura, il dialogo fra gli esseri. Io dico una cosa, oppure la scrivo, o la dice Roberto o Riccardo, o qualcuno fra gli infiniti loro la scrive: essa si propaga nel cosmo, e raggiunge l’Altro.
Immediatamente o fra mille anni, non conta. In questo senso il tempo non esiste, e nemmeno la sua freccia, se vale il detto di Borges che “Ogni autore crea i suoi predecessori”. L’importante è l’interazione, da qualunque avvallamento o cavità gravitazionale provenga.
Nella prefazione l’autore indica nell’articolo scritto il 28 luglio 1884 da Barbey d’Aurevilly la visione più chiara del suo romanzo, quando si afferma: “Dopo un libro tale non resta altro all’autore che scegliere tra la canna di una pistola e i piedi della croce.”
“Già fatto.” – aggiunge poi. Così pare. Otto anni dopo c’è il crollo finale o l’ascensione estrema o forse è meglio dire la conversione (a U).
“I Des Esseintes sposarono per due secoli i loro figli fra di loro, consumando in unioni consanguinee gli ultimi residui di valore.”
Questo è il dramma della famiglia dominante in un luogo, rifiutare il prossimo e auto-degenerarsi senza più alcuna speranza di rinascita.
Il primo, incompleto, gesto catartico da arte del nostro eroe è quello di vendere il vecchio castello parentale e i suoi beni, tenendosi soltanto i due domestici che avevano curato la mamma. La femmina di tale coppia di subordinati è tenuta a indossare “un costume di rossa tela fiamminga con la cuffia bianca e un largo cappuccio nero, abbassato”, così da parere una donna “del beghinaggio”, la cui ombra “ricordava muti e devoti villaggi, quartieri morti, chiusi e sepolti nei recessi di una città viva e attiva.”
Ogni mattina una nuova, mezza catarsi lo prendeva per mano e lo conduceva da nessuna parte.
“Alle cinque, d’inverno, dopo il tramonto, faceva una leggera colazione con due uova al guscio, un po’ di arrosto e del tè; poi desinava verso le undici; durante la notte beveva del caffè e qualche volta tè e vino; verso le cinque del mattino, prima di coricarsi; speluzzicava una merendina.”
Una dieta semplice, quasi monastica, direi anche raffinata. Ideale per chi “si immaginava allora sotto il ponte di un veliero e contemplava curiosamente i meravigliosi pesci meccanici, con movimenti a orologeria, che passavano davanti al vetro dell’assito o si nascondevano nelle finte alghe.”
Essendo ovunque stia, “ascoltando il rumore del vento sotto gli archi e il sordo carrucolio degli omnibus che passano poco sopra le nostre teste, sul ponte Reale, l’illusione del mare è innegabile, imperiosa, sicura.”
L’illusione è reale solo quando la realtà è illusoria. “Tutto sta nel saper fare, nel saper concentrare lo spirito su di un solo punto, nel sapere astrarsi abbastanza per far sorgere l’allucinazione e sostituire il sogno della realtà alla realtà stessa.”
Sono attimi terapeutici che però non bastano a salvare l’eroe dalla sua “ipocondria, schiacciato dallo spleen…”, per cui un “volto umano appena intravisto per via era stato uno dei suoi più lancinanti supplizi.”
Egli, che non ama nessuno, sa però odiare “con tutte le sue forze le nuove generazioni, figliate di ignobili tangheri che hanno il bisogno di parlare e di ridere forte nei ristoranti e nei caffè…”, luoghi da evitare, se si vuol conoscere il male che è in se stessi.
A cosa può aggrapparsi in questa clausura, se non alla miriade di libri che quasi lo perseguitano con i loro immondi difetti e le immani qualità. Oppure a un paio di immensi quadretti di Gustavo Moreau, uno più assurdo e assordante dell’altro, che hanno la funzione di adeguarsi all’arredamento, anzi di rispondere allo stesso in un dialogo assai ciarliero.
“L’illusione era facile, perché conduceva un’esistenza quasi analoga a quella dei religiosi. Aveva così il vantaggio della clausura e ne evitava gli inconvenienti, la disciplina soldatesca, la mancanza di cure, la sporcizia, la promiscuità, l’ozio monotono.” Detto in altro modo, Jean Des Esseintes si è costruito il modo perfetto per andare a messa e stare a casa al contempo. Se il tempo è illusorio, il contempo lo è molto di più.
Poi ci sono i ricorsi spazio-temporali e più sono sordidi più sembrano fissati nella memoria. C’era una volta un ragazzo di nome Augusto. Il fine (infinito) di Jean è stato di cercare “semplicemente di preparare un assassino”, a cui dare ottimi consigli, come: “Fa’ agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.” L’intento più che onesto è “accecare definitivamente e per compassione gli occhi dei miserabili, a spalancarglieli per forza perché possano vedersi attorno destini immeritati e più clementi, gioie più laminate e più acute e, di conseguenza, più desiderabili e più care.”
Ma tutto questo non serve quasi a nulla. “In mezzo alla solitudine in cui viveva, senza nuovi alimenti, senza fresche impressioni, senza rinnovamento di pensieri, senza lo scambio di sensazioni venute dal di fuori, dalla società frequentata, dall’esistenza condotta in comune, in quell’esilio contronatura in cui si ostinava, tutti i problemi dimenticati durante il soggiorno a Parigi, si affacciavano ancora come interrogativi irritanti.”
Capita anche a me quando sono in vacanza, che si affacciano dei brutti ceffi, come spettri idioti e inestinguibili.
“… continuava a considerare la religione come una superba leggenda, una magnifica impostura. E tuttavia, a dispetto di tutte le sue spiegazioni, il suo scetticismo cominciava a intaccarsi.”

Di qualcosa bisogna pur morire, o di santità e di dannazione eterna. L’esito non è cogente, come la crisi che non cessa mai di prepararlo.
Non si sa se è meglio avere certezza della pena, oppure se dibattere all’infinito le ragioni della propria pur illusoria umanità. Se rimane il movimento fra due estremi, la speranza mantiene qualche residua possibilità di esistenza. Prima decediamo noi, poi sarà lei l’ultima a svanire come un diafano punto interrogativo da questo tragico e discontinuo cosmo.
Il bisogno di nuove e sempre diverse esperienze spinge Jean a riempire all’inverosimile il suo oscuro oratorio di piante di tutti i tipi, colori e abitudini alimentari, dando una netta preferenza a quelle carnivore, soprattutto “la Pigliamosche delle Antille, che secerne un liquido digestivo, munita di spine curve che si piegano le une sulle altre formando una grata sopra l’insetto prigioniero”: un’ipostasi della sua stessa anima, pare.
“Paragonava volentieri il negozio di un orticoltore a un microcosmo in cui erano rappresentate tutte le categorie della società: i fiori poveri e canaglieschi, i fiori da catapecchia…” eccetera eccetera.
“Dopo i fiori fittizi che imitavano i veri, voleva adesso dei fiori naturali che imitassero i falsi.”
Verso la fine di questo ottavo capitolo, Jean s’imbatte in una creatura maledetta, che non sarebbe parsa sconosciuta all’autore di It: “davanti a lui, in mezzo a una vasta radura, immensi Pierrot saltavano come lepri nel chiarore lunare.”
Era sì “l’immagine della sifilide” e lui non riusciva a non pensare che sarebbe stato da lei schiacciato come una mosca, mentre “la serie immensa dei pierrot si moltiplicava”. E il sonno giungeva come una necessaria decapitazione dell’anima.
“Si sentì morire, si svegliò di soprassalto, soffocato, agghiacciato, folle di paura, sospirando: – Dio sia ringraziato, è soltanto un sogno!”
“L’impero selvaggio, il talento aspro e abbandonato di Goya lo avvincevano, ma l’ammirazione universale raggiunta dalle sue opere lo allontanavano tuttavia un poco…”; fantasmagorie troppo universali, popolari, forse. E lo stesso avveniva per il realista ma un po’ grigio Rembrandt.
Incontra miss Urania, un’erborista-ginnasta americana, che riesce a farlo sentire diverso, leggermente femminile, Altra. Non appena la donna rivela la sua, di femminilità, l’illusione finisce miseramente.
La religione finisce per far “nascere un ideale extraumano”, mischiandovi “l’illegittimo ideale della voluttà.”
Viene preso da una strana smania: “Adesso usciva da queste fantasticherie annientate, spezzato, quasi morente; e subito accendeva candelieri e lampade per inondarsi di luce, credendo udire così, meno distinto che nell’ombra, il rumore sordo, persistente, insopportabile, delle arterie, che gli battevano, a ritmo accelerato, sotto la pelle del collo.”
Quando accade l’inevitabile: “… improvvisamente, un pomeriggio, apparvero allucinazioni dell’odorato…”
L’illusione è in grado di ricreare svariate congerie d’immagini.
“Non potevano esservi dubbi. Così la sua nevrosi tornò come una volta sotto l’apparenza di una nuova illusione dei sensi.”
Un mix pantagruelico di effluvi “si diffuse dalla valle di Fontenay fino al forte, assalendo le sue narici esauste, scuotendo ancora i suoi nervi rotti, gettandolo in una tale prostrazione che si affacciò, svenuto, quasi morente, Sul davanzale della finestra.”
L’ennesima e frustrante, per quanto orgiastica, petit mort.
Sinceramente, vorrei parlare del decimo (o era l’undecimo?) capitolo solo che, un goccio tira l’altro, ci siamo fott… sorbiti qualche bicchierino di Porto, vini aspri e amabili, color mogano o amaranto distinti da epiteti laudativi: Old Port, Light delicate, Cockburn’s Very Fine, Magnificent Old Regina, Champagne, le marche di Pierrer e di Roederer, di Heidsieck e di Mumm e una testa di monaco incappucciato col nome, scritto in caratteri gotici, di Don Perignon…. Un certo languore ci avvolse in quell’atmosfera d’accordo di guardia storditi dal chiacchiero degli Inglesi che parlavano tra loro. Insomma, un casino.
Sembrava a quel punto di essere nella “città del romanziere, la casa bene rischiarata, ben riscaldata, le bottiglie lentamente versate dalla piccola Dorrit, da Dora Copperfield, dalla sorella di Tom Pinch, gli apparvero navigando come una tiepida barca in un diluvio di fango e di fuliggine.”
Last but not least, dopo “un po’ di formaggio turchino di Stilton, la cui dolcezza è impregnata di amaro…” che c’è di meglio di una torta al rabarbaro e, per variare “dissetarsi con del porter, quella birra nera che sa di liquirizia senza zucchero.”
Ahimé, sullo stomaco ancora sta cercando la sua strada verso il nulla silente l’haddok, una specie di merluzzo affumicato, il rosbif con patate e due pinte di ale, dal sottile gusto di cascina muschiata che esala da ‘sta fine e pallida birretta…
Infine c’empimmo il cuore di un bel bicchiere di brandy.
Sento che abbiamo fatto un errore di valutazione, nonché comportamentale: non siamo andati in salendo di gradazione, ma in alternando e, vi giuro, mua me vavu a curca.
Trascorrono, ignobili e indifferenti, alcuni millenni.
E mua me scetu e vavu nu pocu all’arretru…. E risento “tutta la stanchezza fisica e morale di un uomo che torni a casa sua dopo un lungo e pericoloso viaggio.”.
“Nei giorni che seguirono il suo ritorno, Des Esseintes contemplò i suoi libri…”
Essi erano editi esclusivamente per lui, avendo egli in spregio le pubblicazioni “su carta corrente e con gli scarponi chiodati di un montanaro di Alvernia.”
Non Voltaire né Diderot: “In odio a questo ciarpame, si limitava quasi esclusivamente alla lettura dell’eloquenza cristiana…”, soprattutto Pascal. La letteratura francese che gli interessava “si divideva in due gruppi: l’uno comprendeva la letteratura ordinaria, profana; l’altro la letteratura cattolica…”

C’era qualche eccezione, la signora Augusta Craven: “Mai, assolutamente mai Des Esseintes si era immaginato che si potessero scrivere tali baggianate. Quei libri erano dal punto di vista della concezione, di una tale stupidaggine ed erano scritti in una lingua così nauseante da divenire quasi personali, quasi preziosi.”
E ora, finalmente, Barbey d’Aurévilly: due suoi libri “attraevano specialmente Des Esseintes: Il prete sposato e le Diaboliche.” Jean “si interessava veramente solo delle opere malaticce, minate e irritate dalla febbre.”
Nel primo Barbey “aveva cantato le sue lodi al Cristo”; nell’altro “celebrava il Diavolo a cui si era sottomesso, e allora appariva il sadismo, figlio bastardo del cattolicesimo che per secoli ha esso stesso applicato sotto tutte le forme, con i suoi esorcismi e con i suoi roghi.”
Il sadismo dà a Satana quel che è di Dio, e a Dio praticamente nulla, o forse tutto il resto.
Solo “le opere di Barbey d’Aurévilly erano ancora le uniche che nelle idee nello stile presentassero quella scollatura, quei segni morbosi, quell’epidermide maculata, quel sapore di maturità eccessiva che amava tanto negli scrittori decadenti, latini e monastici, delle antiche età.”
S’imbatte in mocciosi che litigano, ricchi e poveri accomunati dalla medesima miseria animalesca: “In fondo, il succo della saggezza umana consiste nel tirare in lungo le cose, nel dire no per dire infine sì: perché le generazioni si tengono veramente in pugno solo a forza di fumo negli occhi. – Ah, se fosse così anche per il mio stomaco!” anche per il mio!
“In arte, tuttavia, le sue idee erano partite da un punto di vista molto semplice. Per lui non esistevano scuole; solo il temperamento dello scrittore aveva importanza, solo il lavoro del suo cervello aveva interesse quale che fosse l’argomento da lui affrontato.”
Fratello caro, TVB.[1]
“… ma egli andava assai più in là per questa via, e richiedeva cerebrali fuori bizantini, complicate deliquescenze di linguaggio. Desiderava un’indecisione conturbante sulla quale poter sognare fino a poterla rendere, a volontà, più vaga o più consistente secondo lo stato momentaneo della sua anima. Voleva insomma un’opera d’arte.”
Voleva viaggiare ovunque insieme a lei, senza scopi, senza fine, senza ragioni, senza profitto. Alla ricerca delle opere perdute!
“… entrava, per mezzo loro, in completa comunione di idee con gli scrittori che le avevano concepite, perché essi si erano trovati allora in una condizione di spirito analoga alla sua.”
Una rivelazione è tale quando finalmente si sa tendere l’orecchio nel modo corretto.
“Vengono in lui ricordi di esseri e di cose che non ha conosciuto personalmente, finché giunge il momento in cui egli evade violentemente dal reclusorio del suo secolo e si avventura in piena libertà in un’altra epoca con la quale, estrema illusione, gli sembra di essere in maggiore armonia.”
Evadere non significa mai ridiventare libero, se la prigione è il como intero: semmai, cambiare cella.
“… lo scrittore subalterno della decadenza, lo scrittore ancora personale ma incompleta riesce a distillare un balsamo più eccitante, più suggestivo, più aspro dell’artista della stessa epoca che è veramente grande e veramente perfetto.”
Ascoltava Schubert. “Quella musica gli entrava vibrando fin nelle ossa e gli faceva rifluire un’infinità di sofferenze dimenticate, di antiche malinconie nel cuore stupito di poter contenere tante miserie confuse, tanti vaghi dolori. Questa musica di desolazione gridava dal più profondo dell’essere, lo atterrita estasiandolo.”
Voleva essere felice, nulla più. Che strana e folle richiesta!
“Ma più la desiderava e meno si colava il vuoto del suo spirito, più tardava a venire la visita del…”
Lupo mannaro?
“I monasteri si erano trasformati in laboratori di farmacisti e di liquoristi”.
Solo buoni a prendere la ciucca.
“Al pari della lebbra, l’avidità del secolo devastata la Chiesa, teneva i monaci chini su inventari e fatture.”
Cristo!
“… gli oli santi erano adulterati con grasso di pollo, la cera con ossa calcinate, l’incenso con volgare resina e vecchio benzina.”
Un laboratorio di mistiche scemenze!
“Ora Dio rifiutava di scendere nella fecola.”
Troppa fatica anche per lui!
“… i preti e i fedeli comunicavano, senza saperlo, con sostanze neutre.”
Una specie di spirituale e asettico alfabeto morse?
“Dopo l’aristocrazia della nascita, era venuta la volta dell’aristocrazia del denaro”.
Fra córer e scapêr!
“La plebe era stata salassata fino all’ultima goccia per misure igieniche.”
Potata con una roncola, come si fa con una siepe.
Non rimane che venerare la “città idolatra, che eiacolava, ventre a terra, oscene cantiche davanti all’esempio tabernacolo delle banche.”
Fino al termine della notte. Vero, Louis-Ferdinand?
“E va’ dunque rovina società! Crepa, una buona volta, vecchio mondo!”
E non riprodurti mai più. Mi raccomando!
“Il terribile Dio della Genesi e il pallido Dioschiodato del Golgota stavano per riaccendere spento cataclismi e riattizzare le piogge di fiamme che consumano le genti.”
Quanta miseria nell’altrui santità!
“Ahimé, mi manca il coraggio e il cuore mi si spezza! Signore, abbiate pietà del crist…”
Abbiate almeno pietà di quel che non so più cosa diavolo sono diventato!
“Dell’incredulo che vorrebbe credere”, all’ultimo, pur disgraziato momento, stando al sicuro, “sotto un firmamento che non è più rischiarato dai consolanti fari dell’antica sper….”

Pochi libri come questo rappresentano un coacervo di materiali che insieme compongono un’assurda unità. E pochi la realizzano, tale unità, non assoluta, ma relativisticamente collegata al mondo esterno.
Per questo, ho inteso il libro come lo strumento essenziale per una nuova scrittura scenica, che mi serve per realizzare a mia volta un nuovo oggetto composito.
Jean è sconvolto dalle mostruosità di cui si avvede quotidianamente e reagisce con la più esauriente delle descrizioni, avvolgendole con una nuova membrana personale con cui esse acquisiscono una nuova entità.
Anche per lui la vita è una scrittura aerea che consente una sua rappresentazione teatrale.
Per condurre questo mirabolante gioco, egli necessita dell’apporto energetico della luce, le cui particelle sono essenziali per ri-creare il mondo, secondo le sempre nuove esigenze dell’artista. Ad ogni passaggio di livello si sacrifica un fotone, che viene riacquistato ad ogni caduta.
Quest’ultima diventa una cogenza sine qua non accadrebbe più nulla. Eros e Thanatos, Shiva e Visnu. RI-creare e RI-distruggere il mondo: questo è il problema.
Questo è il fardello che, forse inconsapevolmente, Jean si carica sulle spalle e di cui si libera subito dopo. Soltanto la variazione conta, non il mantenimento dell’esistente o una sua ipocrita stabilità.
Il fenomeno elettromagnetico non si limita a creare la diversità, ma concede il dono di quell’illusione che assume l’aspetto di solidità, e che cerca con sé la speranza dell’eternità.
Jean rifugge la stasi, l’equilibrio che significa perfezione. Perfectus Jean non est. E mai lo vorrà essere.
La sua angoscia lo sorregge e lo fa scorrere.
Egli è decadente e non mai decaduto.
Solo nell’incompletezza e dalla crisi che ne deriva si può rinvenire una sembianza, pur illusoria, di movimento e di fugace immortalità.
Eppur Jean si muove!
Written by Stefano Pioli
Note
[1] Abbr. per “Ti voglio bene”
Bibliografia
Joris-Karl Huysmans, A ritroso, Rizzoli, 2017