“Il processo” di Franz Kafka: l’uomo che perseguita se stesso
“Ora le mani di uno dei signori si posarono sulla gola di K. mentre l’altro gli immergeva il coltello nel cuore e glielo girava due volte. Con gli occhi prossimi a spegnersi K. fece in tempo a vedere i signori che vicino al suo viso, guancia contro guancia, osservarono l’esito. ‘Come un cane!’ disse e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere.”

Sono trentasei anni che ho deciso di vendicarti, amico mio.
Josef, io sono con te da allora, una parte di me mai ti ha lasciato da solo, nemmeno per un attimo. Ascolta le mie parole, ti prego.
“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato.”
Il tale che lo arresta gli chiede se ora ha intenzione di andare in banca. “‘In banca’? domandò K. ‘Credevo di essere arrestato.’”
K. usa l’ironia: “Di essi si prendeva gioco. Qualora se ne fossero andati aveva l’intenzione di seguirli fino al portone di casa e di proporre loro di arrestarlo. Perciò ripeté: ‘Come posso andare in banca se sono arrestato?’” Ma forse non ha capito la situazione granché: “Se… lei mi ha frainteso. Certo è in arresto, ma ciò non le deve impedire di attendere al suo ufficio.”
Con un’ora e cinque minuti di ritardo inconsapevole, K. si presenta all’interrogatorio. Il burocrate glielo fa notare. Chissà perché ho usato questo termine, burocrate: bureau ufficio, kratos potere. Quindi, Joseph con chi lo sta esaminando, accusando e, prima o poi, condannando, condivide una metà delle caratteristiche. Egli svolge una sua funzione sociale, ma ha cessato di avere il benché minimo potere. È ancora un cittadino, ricordiamoci di questo, un adepto, un credente, ma ora si sta trasformando rapidamente in un idiota.
In cosa crede, K? Non è dato sapere. Una fede vale l’altra: quello che differenzia gli uomini è il grado della speranza.
“K. aveva deciso di osservare piuttosto che parlare, perciò rinunciò a giustificarsi del suo preteso ritardo e si limitò a dire: ‘Sarò arrivato troppo tardi, ma ora sono qui’. Seguì un applauso, sempre dalla parte destra della sala.”
K. sta aggravando la sua già disastrosa posizione. Varie colpe si aggiungono alla prima, qualunque essa sia: 1) è in ritardo 2) non sapeva di esserlo 3) accetta supinamente il fatto 4) ma, al contempo, ironizza.
Caro mio, questa è gente con cui non si può dialogare con un certo spirito.
Tra il brontolio di chi affolla la sala dove è stato condotto, gli risponde un tale, che è deputato a qualche cosa, non si sa a che (non aveva nessuna targhetta sulla scrivania, nemmeno le iniziali si sapeva di lui): “… ma io non sono più obbligato a interrogarla ora.”
Poi, mosso a pietà (lo so, pare un ossimoro che un uomo empio provi pietà, ma non lo è: si può essere pii anche della propria empietà!), “… l’uomo facendo cenno che smettessero proseguì: ‘Eccezionalmente però oggi lo voglio fare. Ma che un simile ritardo non si ripeta. E ora venga avanti!’”
La prima domanda è inaspettata: “Lei fa il pittore decoratore?”. Ovviamente K. nega, lui è “il primo procuratore di una grande banca”.
“La risposta fu seguita nel partito di destra da una risata così cordiale che K. dovette ridere a sua volta.”
“Ma la metà sinistra continuava a mantenere il silenzio…”
Dice K.: “‘La sua domanda, signor giudice, – anzi lei non ha nemmeno domandato se faccio il pittore, me lo ha detto direttamente sul muso – è significativa del modo con cui si procede contro di me. Lei può obiettare che questo non è affatto un procedimento, e ha perfettamente ragione, perché è un procedimento solo se io lo riconosco per tale. In questo momento dunque lo riconosco, per compassione, dirò così.”
K. comincia a rendersi conto della gravità della situazione. Non si sta confrontando con persone, ma con individui elementari facenti parte integrante e integrata di un organismo assai complesso: “… non vi è alcun dubbio che sono tutte le manifestazioni di questo tribunale, nel caso mio dunque sotto l’arresto e l’odierna inchiesta si nasconde una grande organizzazione.” Quello che Roberto Saviano definisce “il Sistema”. Tutto ciò K. lo sta spiegando in tutti i suoi suggestivi particolari ai suoi pur gentili aguzzini.
Continua: “… E qual è, signori mie, lo scopo di questa vasta organizzazione? Consiste nel fare arrestare signori innocenti e di istruire contro di essi una procedura insensata e per lo più, come nel mio caso, infruttuosa. Data questa assurdità come sarà possibile evitare la più grande corruzione dei funzionari?”.
Per nascondere le loro colpe, K. spiega che essi accusano gli innocenti di avere accumulato indebitamente la proprietà degli altri. E ciò, al fine, aggiungo io, di non farsi arrestare: non si può arrestare uno che sta arrestando qualcun altro: sarebbe un attentato alla (così detta) democrazia. Un attentato al potere giuridico del Sistema. Un dare del Diavolo a Satana.
La parte più bella del libro è l’incontro che fa K. con persone di tutti i tipi: splendide, innocue, tremende, simpatiche, arcigne etc. anche in questo caso l’unica cosa da fare è leggere il libro, oppure limitarsi a vivere: nell’esistenza di chiunque, questi incontri capitano regolarmente.

Accenno soltanto allo zio con cui Josef si confronta e che gli propone di andarsene che, al suo caso, ci penserà, amorevolmente, lui. Josef rifiuta, negando l’addebito di non essere intenzionato a difendersi con sufficiente vitalità e quindi non se ne fa niente. Il processo avviato appare inevitabile. Però… che bella invenzione è lo zio!
Io ne ho avuti tanti, ma nessuno mi ha reso nipote: avevano tutti troppi figli a cui badare. Lo zio è un uomo che ha un po’ di potere dovuto alla sua esperienza, e che ti ama. Ormai non ne fanno quasi più di questo genere di prodotti a chilometro zero!
Per i Latini lo zio materno era detto avunculus (da cui derivò il provenzale ovoncles, il francese oncle e l’inglese uncle), vale a dire piccolo nonno (Mater semper certa est). Lo zio paterno era invece detto patruus, affine al pater. In gran parte dell’Italia nordoccidentale la forma dialettale per zio è barba: per analogia figurata, è l’uomo adulto degno di rispetto.
Presso i Pigmei i bambini sono allevati anche da tutti gli anziani. Non esistono capi, ma il saggio consiglio degli anziani decide il comportamento dei giovani.
Nel Tibet una persona autorevole è detta akou, cioè zio paterno. I primi cugini sono germani. Perciò il figlio di un cugino germano è considerato un nipote a tutti gli effetti.
Nello stesso modo, il figlio di Maria è nipote della di lei prima cugina (sora cugina), ma è secondo cugino del figlio di quest’ultima. Quando portai mio figlio al Sud la prima volta, ebbi un bel da fare a dire ai Pixuntiani che questi era cugino dei nostri cugini e nipote di mia sorella e di mio cognato, oltre che dei nostri zii. I parenti di mia moglie scuotevano la testa e con un certo compatimento mi correggevano: egli era nipote dei nostri zii, dei nostri fratelli e dei nostri cugini e cugino dei nostri nipoti. A Pixuntum, dove non ti chiedono di chi sei parente, ma a chi appartieni, gli anziani sono chiamati zi’ per rispetto, anche se manca o, almeno, non risulta chiara o vicina alcuna parentela con i relativi nipoti.
L’America è una nazione giovane e selvaggia, ma, fino a un secolo fa, era assai primitiva. La popolazione autoctona, insieme agli Europei che arrivavano in cerca di miglior fortuna, guerreggiavano fra di loro e gestivano il territorio, mescolando le culture. Anche ora, nell’America dei grattacieli e delle grandi università che detengono il primato della ricerca, è basilare il concetto di zio: basti pensare a Zio Paperone, Zio Paperino, Zia Paperina, Zio Gastone, Zio Paperoga, lo Zio Sam che cerca proprio te (pa arruina’ u munnu), fra milioni di nipoti, e lo Zio Tom così eroico nella sua capanna da schiavo.
Si discende da migliaia e migliaia di progenitori, ma viventi si conoscono solo i due genitori e al massimo i quattro nonni, e qualche raro bisnonno, per lo più molto anziani e che fatalmente moriranno prima di noi. Se si allarga il legame stretto di sangue agli zii (per altro cioè giustificato dall’estrema somiglianza genetica) ci si assicura il futuro: gli zii sono a volte più giovani dei genitori, e i loro figli, i così detti germani, sono per lo più coetanei. I figli di questi potrebbero essere la discendenza che la vita potrebbe negare o privare.
A Reggio Emilia il termine sio individua in modo derisorio una persona priva di importanza e magari un po’ ridicola, testimoniando per antifrasi l’antico rispetto. Ma ormai, quasi ovunque, si differenzia una persona che conta con titoli onorifici, direi quasi nobili, quali dottore, cavaliere, funzionario, figlio di putt… come se si dicesse principe o conte. Queste qualifiche non originano in alcun modo dalla famiglia, ma da un’istituzione regale che sovrasta gli individui, ad esempio una scuola, una struttura sociale, un’organizzazione pubblica, una corte. Allora ti viene naturale scappellarti col dovuto rispetto di fronte a una persona che detiene un certo status sociale o culturale, e poi ti capita di guardare con una certa aria di superiorità il tuo vecchio zio, che a malapena riesce a discorrere in una lingua che non sia l’avito dialetto. E capita di sovente che costui chieda consiglio a te che hai studiato, e tu glielo concederai, non appena i tuoi impegni te ne lasceranno il tempo…
Lo ripeto: che bell’invenzione lo zio! Ma… e K? in quale guaio sarà andato ora a cacciarsi?!?
Sorvolo sulla figura dell’avvocato odioso che K. si ritrova a trattare: anche lui fa parte del Sistema. Mentre ti difende, ti tende una trappola. Mentre ti invita a sederti, ti toglie la seggiola di sotto. Merda!
Fuggiamo a pagina 217, dove K. incontra un prete, che “presa quasi la rincorsa”, inizia a salire “a passetti rapidi” su un pulpito, da dove lo chiama: “Josef K.!” e poi gli dice, con secchezza: “Tu sei Josef K.”
“‘Sì’ rispose K. e pensò con quanta franchezza avesse sempre pronunciato il suo nome che invece da tanto tempo gli era diventato un peso…”.
Il prete gli dice che era lui che cercava in quanto è il cappellano del carcere. Quando si dice il caso. K. era lì per mostrare il duomo a un italiano. Il prete lo stoppa subito: “Lascia andare le cose secondarie.”
“… Non so come finirà…” – gli chiede K.
“… temo che finirà male. Ti considerano colpevole. Il tuo processo forse non finirà al di là di un tribunale inferiore. Per lo meno si reputa ora che la tua colpa sia provata.”
K. compie qualche conatino di entrare in confidenza con l’ecclesiastico, a cui questi un po’ rudemente risponde con un’eternamente secca domanda: “Non vedi a due passi davanti a te?”
Perché, pur sollecitato, il pretonzolo sembra non voler scendere? Lo spiega tranquillamente, mentre si appresta a soddisfare la richiesta di K., non ha segreti, lui: “Prima dovevo parlarti da lontano. Altrimenti poi mi lascio influenzare e trascuro il mio dovere.”

K. gli chiede se ha tempo per lui. “Tanto quanto te ne occorre.” L’accusato comincia a volergli un po’ di bene e gli confessa (è sempre un prete, no?): “Tra tutti quelli che fanno parte del tribunale sei un’eccezione.” Il prete gioca come il gatto col topo. Gli dice di non illudersi sul Tribunale. Perché “Davanti alla legge c’è un guardiano. A lui viene un uomo di campagna e gli chiede di entrare, anche con comodo, più tardi se gli è consentito, nella legge. Il guardiano lo sfida di entrare, anche se è proibito e che lui, l’ultimo dei guardiani, rappresenta un ostacolo insuperabile. Il guardiano poi gli dà poi uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta”, dove può (dove deve, anche se non vuole) solo attendere. Cosa? La liberazione? La felicità? Dio? No. Solo il potere (dico io, eh!, nessuno ha accennato a questa parolaccia: la parolaccia era anche quella di tre lettere, oltre che quella di sei).
Dopo un brevissimo e illusorio tempo, avviene lo scioglimento (molto banale) della questione.
“Il guardiano si rende conto che l’uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che fanno diventare insensibili. Grida: ‘Nessuno altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te! Ora vado a chiuderlo’.”
E sottintende: Coglione!
Ora che non serve più.
La libertà, l’eros, serve ai vivi che possono ancora scegliere, non ai morituri!
Il prete difende l’operato del guardiano. Il contadino, nella sua scempiaggine, non aveva fatto la domanda giusta. Qual era? Forse: a chi è destinata la libertà di entrare nella legge?
Nel prosieguo della disamina del racconto, che secondo quel corvaccio nero, il nostro amato K. fraintende, mentre secondo lui è chiarissimo e virtuosissimo, viene fuori una verità. Per ingannare il popolo (e l’assemblea dei fedeli) bisogna raccontare la verità in modo che essi debbano in ogni caso fraintendere. Quando un politico dice che l’uomo deve cambiare la Storia, intende la sua (piccola, mediocre, assassina) storiella, quella del politico, non quella del popolo. Gli unici che combattevano per gli altri sono tutti morti, l’ultimo mi pare a La Higuera.
Lasciamo perdere tutte ‘ste manfrine pretesche. Alla fine i due si salutano. K. gli dice che lo considera per quello che è un “cappellano delle carceri”.
“‘Io dunque faccio parte del tribunale’ spiegò il sacerdote. ‘Perché dovrei voler qualcosa da te? Il tribunale non ti chiede nulla. Ti accoglie quando vieni. Ti lascia andare quando vai.”
Quello che capita a ciascun pargoletto neonato e a tutti i vecchietti nu pocu patuti.
Chi vive sperando, muore sacrimentando.
È nato un bebè! Uè uè uè!
Assolviamolo subito.
Prima che muoia!
E se muore assolviamolo col battesimo di sangue.
Uè uè uè.
Ora può anche sopravvivere.
C’è chi crede che la condanna a cui Franz si riferisce sia quella che poi sarà eseguita nel sanatorio di Kierling.
Oppure che sia una allegoria della persecuzione contro i…
No! Certo che è un’allegoria della persecuzione, ma dell’uomo contro se stesso.
La religione non è altro che uno dei tanti legami con cui l’umanista si lega a se stessa.
Nel bene e nel male.
Qui è descritto il lato maligno.
Un giorno chiesi a un’eminente eminenza del perché Gesù morì in croce.
Da come rispose, si trattava forse dello stesso prete che fece il sofista con K.
Stessa scuola, comunque.
“Per salvarci tutti?” mi rispose.
“Da cosa?”
“Dal peccato che è in noi dalla nascita!”
“Quale peccato?”
“Il peccato originale!” (forse stava cominciando a temere che io fossi o un pazzo o un provocatore, o un misto angosciante delle due cose)
“Anch’io ce l’ho?”
“Ce l’avevi… ma grazie al battesimo… Tu sei battezzato, vero?”
“Sì!”
“Quindi sei stato purificato da esso!”
“Mi è stato dato un antidoto di una specie di veleno?”
“Beh… non proprio così… ma se ti va di pensarlo in questo modo!”
“Ma chi mi aveva avvelenato?”
L’eminente eminenza si stava forse un po’ scocciando di rispondermi.
“Non è un veleno… è una colpa!”
“Ma chi l’ha commessa?”
“L’uomo!”
“Chi esattamente?”
“La prima coppia di uomini, Adamo ed Eva! Ma non hai mai letta la Bibbia?”
“Sì, a diciassette anni, nel 1975, Anno Santo, ma ero già ateo…”
“Allora perché t’interessa tanto la questione!, se sei ateo?”
“Perché non si sa mai!”
“Quindi c’è un residuo di speranza di conversione…?!?”
“Sì. Non ho più nessuna sorta di fede. Ma un’immensa speranza ancora c’è!”
“Ah! Sono felice per te!”
“Io no…! Sono solo perplesso!”
“Bisogna esserlo, ma poi… occorre credere! Se vuoi salvarti!”
“Lasciamo perdere il futuro. Torniamo al passato!”
“Uh?”
“Lei crede che i primi due esseri umani, nell’Eden, abbiamo commesso la colpa grave di mangiare una mela e a causa di ciò noi siamo nella m…?!?”
“Che volgarità, modera il linguaggio!”
“Mi scusi! Mi è scappato!”
“Ma è evidentemente un’allegoria!”
“Ah, infatti cadeva tutto il discorso Su Lucy, su il più grande uomo scimmia del Pleistocene… etc etc!”
“Oh, adesso basta! Nessuno mette in dubbio la scienza e la paleoantropologia!”
“Quindi?”
“Quindi cosa?!”
“Chi ha commesso quella colpa?”
“Non lo so, non ci è dato sapere!”
“E che colpa era?”
“Non lo so, non ci è dato sapere!”
“Mi hai convertito”
Mi allontanai ridendo come un pazzo: “l’affreux rire de l’idiot”.
Al che lui mi gridò, con tono ben poco cristiano, mentre ancora me la stavo ridendo: “La prossima volta si rivolga al suo parroco!”
Non ne ho.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Franz Kafka, Il processo, Mondadori