Intervista di Irene Gianeselli alla regista Francesca Staasch: U.G.O. è un laboratorio permanente e un gesto politico
Francesca Staasch è un’autrice e una regista di audiovisivo e spettacoli dal vivo. Nata a Roma nel 1973 ha vissuto a Londra, Parigi, Berlino, per poi ristabilirsi a Roma. Ha frequentato la London Film School ed è stata residente alla Cité Internationale Des Arts a Parigi nel 2000.
Happy Days Motel è la sua opera prima, una commedia nera del 2013 prodotta da Rai Cinema con Lino Guanciale (nel suo primo ruolo di protagonista in un lungometraggio) e Valeria Cavalli. Nel 2018 ha creato U.G.O. insieme a Annalisa Dianti Cordone, Arianna Dell’Arti, Paola Michelini, Cristina Pellegrino e Cristiana Vaccaro. Ogni “volume” di U.G.O., ogni nuova puntata è un unicum a sé che differisce per testi, ospiti, autrici, performer. Il prossimo appuntamento è il Volume 10 – ovvero la puntata 10 – e andrà in scena l’8 Febbraio al Monk di Roma.
Il circolo ARCI Monk Roma ospiterà U.G.O. per tutta la stagione 2018/2019 – i prossimi appuntamenti saranno il 16 Marzo (VOL.11), il 27 Aprile (VOL.12) il 25 Maggio (VOL.13) e vi suggeriamo di cercare U. G. O. su Facebook e Instagram per restare aggiornati su tutti gli appuntamenti.
“Ma U.G.O. è anche una community, un laboratorio permanente, un gesto politico” spiega Francesca Staasch che ha recentemente pubblicato per Edizioni Progetto Cultura, all’interno della collana Scena Muta, un suo testo teatrale, scritto nel 2006, ad oggi ancora non rappresentato, al titolo “Il tempo liquido”.
Proprio nel 2006 Francesca scrive “Il Dolce Mondo Vuoto” un monologo che poi andrà in scena nel 2011/2012, interpretato da Lino Guanciale, regia e video-installazioni dell’autrice.
Francesca Staasch racconta ai lettori di Oubliette Magazine i suoi più recenti progetti.
I.G.: Qual è il film che ti ha fatto decidere di fare la regista?
Francesca Staasch: Sono andata a vedere “Frankenstein Jr” in un piccolo cinema vicino casa mia, con la mia famiglia, all’inizio degli anni Ottanta. Avrò avuto 8/9 anni. Quando ero molto piccola, credo succeda a molti bambini, non distinguevo in maniera netta la vita vera e quello che accadeva nello schermo. Piangevo per tutto e tutto mi metteva paura. E.T. era partito per sempre, Elliot non lo avrebbe più rivisto. Ho pianto per due giorni di seguito. Il brutto anatroccolo era stato accettato in una nuova famiglia, ma come avrebbe fatto a dimenticare tutti i soprusi delle anatre. Insomma prendevo tutto troppo sul serio. “Frankenstein Jr” è una parodia per adulti ed infatti seduta davanti allo schermo ero terrorizzata dalle atmosfere, non coglievo affatto l’ironia e sono uscita dalla sala. Fuori dal cinema ho intravisto la porta della stanza della proiezione. E quando sono entrata e ho visto che niente di quello che accadeva sullo schermo era vero, ma proveniva da una pizza di pellicola all’interno di un enorme marchingegno che girava e che la retro-illuminava, proiettando le immagini in movimento prima su un vetrino sfocate e poi sullo schermo del cinema, beh, per me è stata come un’epifania. E anche se lo svelamento del mistero è stato terapeutico e mi ha guarito dall’immedesimazione patologica, confesso può succedere che ancora piango e mi emoziono parecchio. In quel caso dico sempre che il film ha vinto, mi ha fatto dimenticare il marchingegno che ci sta dietro. Poi ci sono stati altri film che sono stati importanti e che mi hanno cambiato la prospettiva. Uno è “Blade runner”, che ho visto quando è uscito al cinema, nell’83, a 10 anni. Non esattamente una pellicola azzeccata per una ragazzina (che poi queste scelte bizzarre di film me le sciroppavo solo perché i miei mi portavano a vedere i film che volevano loro, senza pensare se potevano essere adatti, tutto qua…). In ogni caso, non ho capito granché ma sono rimasta affascinata dalla possibilità di creare un mondo che fosse totalmente altro dal nostro, ho capito la possibilità della metafora all’interno di un racconto cinematografico. Ho capito anche, rivedendolo compulsivamente in VHS, la potenzialità filosofica che hanno i film. Se vogliono. Poi ci sono molti altri film visti nei periodi dell’adolescenza-giovinezza che mi hanno traviato in altre forme: “Il cielo sopra Berlino”, “Apocalypse Now”, “Colazione da Tiffany”, “Il Regno” di Lars Von Trier, tutto Kiewslowski e tutto Wong Kar-wai, le rassegne di Nouvelle Vague al Filmstudio, di pomeriggio. E poi i Coen, Hal Hartley, Paul Thomas Anderson, Todd Solondz, Todd Haynes, tutti i film prodotti da Christine Vachon e sicuramente ne sto dimenticando molti.
I.G.: Come definiresti la tua generazione cinematografica?
Francesca Staasch: Una volta ho sentito Nicola Lagioia definire gli italiani dei “geniali individualisti”. Questo è vero in generale, ma è ancora più vero nel campo dell’arte e dell’intrattenimento. Personalmente, io sento molto che la mia generazione, quella dei nati negli anni Settanta, sia in un certo senso una generazione dimenticata. È come se ci avessero “saltato”. Non siamo stati capaci di creare un movimento culturale vero e proprio. Non abbiamo fatto Dogma negli anni Novanta. Non abbiamo fatto gruppo. Ci sono molti registi/colleghi di cui apprezzo tantissimo il lavoro, ma non vedo una rete. Questo non è vero per quelli più giovani di noi che invece si sono conosciuti, contaminati e che in varie forme e modalità interagiscono molto di più tra loro. Sono anche più compatti nel confrontarsi con “il sistema”. In più in Italia, c’è questo culto dell’autore che finalmente va un poco scemando. D’altronde non abbiamo (più) i numeri per competere con il cinema in lingue molto più diffuse dell’Italiano (Inglese, Spagnolo, Francese, Cinese… ma anche il Tedesco). Nel nostro territorio, quella del cinema più che un’industria è un artigianato. Un po’ per la prossimità di chi fa cinema, tutti conoscono davvero tutti: serie A e sottobosco, è tutta una grande famiglia di adorabili disadattati. Ma soprattutto perché all’interno della realizzazione di un film prendono parte tantissime professionalità. Ci sono tantissimi player che decidono le sorti di un prodotto audiovisivo. Dalla produzione, alla distribuzione, ai canali televisivi che entrano in partecipazione, alla promozione. Anche gli attori, soprattutto se conosciuti, determinano, anche senza fare nulla, la direzione artistica, oltre che commerciale di un prodotto audiovisivo. Ma anche nella realizzazione pratica del film, non è il regista/autore che controlla tutto: ci sono ruoli e reparti ben distinti che si devono amalgamare per dare vita all’opera. Tra l’altro io non penso che abbia alcun senso parlare di “cinema” in senso stretto nel 2019. Preferisco parlare di storytelling o in italiano di racconti tramite immagini in movimento che è molto meno cool come terminologia, ma è quello che è. Il cinema è morto, è stato già fatto (quasi) tutto, quello che si può fare adesso è citare. E questa cosa di citare si fa tantissimo: c’è una grande bulimia di contenuti e di storie. Le serie TV hanno avuto un rinascimento meraviglioso negli anni zero, un momento di vera sperimentazione, ma anche questo media è in arcata discendente. Il web ha aperto canali interessanti per vari one man (o one woman) show ed è stato un terreno interessante, che ha visto la nascita di molti talenti, ma che nella maggior parte dei casi rischiano di diventare fenomeni che si esauriscono presto, in preda più del bisogno del consenso più che dell’urgenza ragionata di dire qualcosa. La forma dello spettacolo dal vivo, in realtà, benché sia la più antica, è forse la meno obsoleta, perché l’esperienza fisica di avere l’artista o l’opera davanti a te è qualcosa che non ha surrogati.
I.G.: Cosa intendi esattamente, quando dici che il cinema è morto?
Francesca Staasch: Penso che il cinema a un certo punto morirà, come le serie TV, come tutto quello che esiste tramite un supporto. Ad un certo punto diventerà obsoleto e si cambierà supporto, ma resterà sempre l’idea dello storytelling. Magari non si faranno più i film da vedere al cinema. Magari si farà la realtà virtuale. Magari si faranno i videogiochi. Magari ci si vedrà tutti in dei luoghi stesi per terra con delle maschere che chissà che tipo di esperienza sensoriale forniranno. Non lo so. Lo storytelling però ci sarà sempre. Perché l’umanità ha bisogno di ascoltare storie, di purgarsi con la catarsi, di ragionare sulla propria condizione attraverso metafore. Per questo lo spettacolo dal vivo, con tutti i suoi difetti e le sue autoreferenzialità, non muore mai. Perché offre un’esperienza fisica, carnale ed è una cosa che ci manca tantissimo, ancora di più ora.
I.G.: A proposito di esperienza fisica e di incontro con gli spettatori, uno dei tuoi ultimi progetti è U.G.O., di che si tratta?
Francesca Staasch: U. G. O. è un progetto collettivo. Nato un po’ per caso, in un momento favorevole. Per cui intanto ci tengo a precisare che non è un progetto solo mio, ma neanche un’idea solo mia. L’idea di fare qualcosa insieme è partita da Cristiana Vaccaro che ha coinvolto me, Cristina Pellegrino e Annalisa Dianti Cordone. Abbiamo parlato del progetto che ha preso una forma tutta sua, espandendosi in maniera organica. All’interno di questo primo nucleo sono entrate subito Paola Michelini e Arianna Dell’Arti, a tutti gli effetti creatrici di format insieme alle altre. Ma U.G.O. deve ringraziare tantissimi talenti che lo hanno sostenuto in un modo o nell’altro. Veronica Raimo, Carmen Barbieri, Betta Cianchini, Federica Tuzi, Elisa Simonelli che hanno contribuito alla forma che oggi ha U.G.O. e che è un progetto in divenire, sempre aperto a nuovi stimoli e nuove contaminazioni. A un certo punto, dopo aver fatto già tante serate abbiamo trovato una definizione che piaceva a tutti: U.G.O. è un dramedy club. Perché U.G.O. è tante cose: è una serata mensile, contenitore di pezzi brevi, una kermesse, un varietà, ma è anche una community, un laboratorio permanente, un gesto politico. La serata che va in scena ogni mese si rifà come format ai comedy club americani, perché è una successione di “numeri” diversi. Allo stesso tempo data la natura tragicomica dei pezzi abbiamo pensato che più che comedy forse stavamo facendo dramedy.
I.G.: Cosa ti coinvolge di più in questo lavoro?
Francesca Staasch: La mia motivazione principale di lavorare a U.G.O. sta nel fatto che finalmente sento un’aggregazione con tante altre incredibili artiste. Perché le serate di U.G.O. ti obbligano a metterti in gioco, a scrivere, a pensare, a interpretare una cosa diversa ogni mese. Otto minuti al mese, sembrano pochi, ma sono tantissimi e sono elettrizzanti. Ogni volume di U.G.O. è come fare l’esperienza di un debutto. Senti l’elettricità, senti che da te dipendono le altre e che tu dipendi da loro. Si crea una connessione compatta perché nessuna deve cadere ma ognuna di noi allo stesso tempo è responsabile di quegli otto minuti e in quegli otto minuti è sola. È una delle esperienze più belle e faticose della mia vita. Mi ha obbligata a lavorare sodo, a mettermi in gioco su tutti i livelli e mi ha fatto incontrare tantissimo talento con cui sto collaborando in diversi modi. Ma per me soprattutto U.G.O. è un gesto politico. È una situazione creativa in cui il fatto che tu sia una donna non conta, perché puoi tranquillamente uscire fuori dagli argomenti rosa. Se uno show è composto da soli maschi non viene definito uno spettacolo al maschile. Noi siamo tutte donne ed è la prima definizione che viene usata per caratterizzarci. La cosa più facile da dire: una serata al femminile. Ed è una definizione limitante se ci pensi. Non dice nulla della qualità dei contenuti di quello che facciamo. Dice solo “attenzione tutte donne!” Noi costruiamo le serate dando come un diritto assodato la parità di genere. Questa modalità è inaspettata ed è secondo me il vero modo per abbattere i cliché di gender e la ghettizzazione e per sensibilizzare, abituando il pubblico a non aspettarsi dalle “femmine” uno spettacolo tutto rosa.
I.G.: Cosa si nasconde dietro l’acronimo?
Francesca Staasch: U.G.O. suona come il nome proprio dell’uomo medio italiano, ma allo stesso tempo è un acronimo che ricorda U.F.O. Ed è perché ci teniamo a dirlo che siamo un po’ aliene, che veniamo da un altro pianeta. L’acronimo può voler dire un po’ quello che vuoi ma se vuoi la versione ufficiale è Unidentified Gabbling Object – gabbling in inglese significa parlottare, bofonchiare, blaterare, e ci sembrava un verbo molto azzeccato per quello che volevamo proporre.
I.G.: Parlavi di gruppo e di incontri.
Francesca Staasch: Beh per tutte le persone che hanno preso parte a U.G.O. è stata una possibilità di incontro, scambio e condivisione. Devo dire che per me che normalmente per esigenze pratiche lavoro spesso in solitaria è stato davvero un bacino di stimoli continuo. Ho conosciuto modalità di approccio alla scrittura completamente distanti dalla mia e super interessanti. Nel gruppo dei fondatori c’è Paola Michelini con cui avevo già scritto sketch-comedy e il trattamento per un lungometraggio quindi è stato naturale all’inizio lavorare con lei come attrice ai miei testi. Dopo vari tentativi ora lei ha già scritto tre pezzi suoi bellissimi di stand-up ed è potentissima. La mia amica Veronica Raimo che ha scritto uno dei libri più belli del 2018 (Miden) ha creato un sodalizio con l’attrice Cristina Pellegrino (“4,5,6”, “La linea Verticale”). Io e Arianna Dell’Arti ci siamo immediatamente prese anche perché siamo due tipe molto pratiche – lei è la aiuto regista ufficiale degli autori di Boris e ha una solida esperienza da aiuto regia, lavoro che ancora porta avanti parallelamente alla sua attività di autrice e performer. Ma nonostante questa intesa, non pensavo che lei sarebbe finita a fare un testo mio. Invece a un certo punto ha letto un pezzo su mia madre che avevo scritto, lo ha fatto a U. G. O. e lo ha inserito nel suo repertorio. Grazie a U. G. O. ho incontrato Mimosa Campironi per cui ho diretto il videoclip “Hurrah” – in cui partecipano come attrici ballerine anche due delle creatrici di U.G.O. Annalisa Dianti Cordone e Arianna Dell’Arti. – e ora con Mimosa sto scrivendo e curerò la regia della sua performance concertante “Mordimi” che andrà in scena il 29 Marzo allo Spazio Diamante. Infine con Federica Tuzi (la scrittrice, nota anche come cantante de Le Nochoice) abbiamo due progetti di scrittura insieme uno per il teatro e l’altro per il cinema e un videoclip. Ma a parte questi entusiasmanti effetti collaterali di U.G.O. che mi riempiono di gioia, anche quando l’incontro non si concretizza in lavoro è proprio bello avere un appuntamento fisso, un territorio franco, una possibilità di incontro, comunicazione, scambio con tantissimi talenti incredibili sia come performer che nella scrittura. Con noi si sono esibite delle stand-up bravissime (Michela Giraud, Martina Catuzzi, Laura Formenti, Daniela Delle Foglie) tra le autrici oltre a Veronica Raimo abbiamo messo in scena le esilaranti Enrica Tesio, Nicole Balassone, Elisa Simonelli. Anche Luisa Merloni, Liliana Donna Fiorelli e Carmen Barbieri sono tra le afficionados di U.G.O. Dopodiché una volta che partecipi a U.G.O. entri una specie di club e se vuoi vieni tenuta aggiornata su incontri, riunioni, serate e anche aperitivi o appuntamenti di brainstorming collettivo al fine di incoraggiare collaborazioni e contaminazioni.Tra l’altro nella mission di U.G.O. c’è lo scouting costante di talenti. Cerchiamo sempre di mescolare la vecchia guardia, per così dire, a nuovi mondi e nuovi stimoli. Chiunque vuole può contattarci tramite la pagina facebook o all’indirizzo email e farci la sua proposta.
I.G.: Essere donna è (ancora) un problema?
Francesca Staasch: Sì. Io lavoro benissimo sia con gli uomini che con le donne e quando devo fare qualcosa penso solo a chi è la persona più giusta per il lavoro che sto per fare. Ma essere donna nel mondo dell’entertainment nella migliore delle ipotesi è molto faticoso. Il clima che si respira in alcuni ambienti può essere pesante. E sono le donne per prime si ghettizzano all’interno di nicchie rosa per avere la certezza di accaparrarsi almeno quello spazio. Io non ho mai pensato in quel modo, non ho mai voluto mai caratterizzarmi in quanto femmina. Ho sempre voluto raccontare storie universali e alla fine ho scritto più per uomini che per donne. Nel mio corto Monochrome il protagonista è un bambino e il ruolo centrale di Happy Days Motel è maschile ed è interpretato da Lino Guanciale. I miei spettacoli spesso hanno protagonisti maschi. Eppure se i progetti non sono generati da me o indipendenti, se mi chiamano è sempre perché “C’è bisogno della sensibilità di una donna”. A me viene da ridere. Ma le hai viste le mie cose? Li hai letti i miei testi? Dove l’hai vista la sensibilità femminile? Non so quante volte mi sono sentita dire “Potresti funzionare in quanto donna.”. Non per la mia esperienza ma in quanto donna. Una volta un collega mi ha presentato come autrice dicendo “… È incredibile: è una donna, ma scrive cose che fanno tantissimo ridere” come se la comicità e avere una vagina fossero due cose incompatibili. Qualche giorno fa, un lettore de “Il tempo liquido” mi ha fatto i complimenti e mi chiesto come facevo a entrare così bene nella testa di un uomo, in quanto donna. E in questa sede sorvolerò sull’argomento molestie, perché è davvero delicato. Ma questo bisogno di tenerti giù, di rimetterti al tuo posto, di non farti alzare la cresta, io l’ho vissuto. Poi devo dire che in alcuni ambiti le cose stanno cambiando e inizia una presa di coscienza, un’attenzione, una riflessione che prima non c’era. Ma c’è ancora parecchio da fare. E da parte mia devo ammettere che superati i 40 anni alla fine ho ceduto e i due film su cui sto puntando come opera seconda hanno in tutti e i due casi un ensemble cast di protagoniste donne. Ma non come ve le aspettate, questo è certo!
I.G.: Ti aspettano mesi di progetti e incontri…
Francesca Staasch: Sì, a parte i due soggetti di film che porto avanti, di cui uno scritto con Paola Michelini e uno di cui sono autrice unica, ho un progetto di fantascienza che sto scrivendo con Valeria Belardelli, l’attrice che interpreta Candy in Happy Days Motel (che è anche una grandissimo talento drammaturgico). Ho appena consegnato l’ultima stesura di una commedia nera per il teatro, dal titolo “Il Condominio” che sarà prodotta dalla compagnia Formi4 per la regia di Riccardo Scarrafoni. Poi nella mia testa e nel mio cuore ci sono tanti altri progetti e idee, ma magari ci si aggiorna tra un po’…
Written by Irene Gianeselli
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