“Io odio Internet” di Jarett Kobek: l’altra faccia del web

Adeline è una donna di quarantacinque anni, fumettista di professione. Vive a San Francisco. Invitata a parlare in università, commette l’unico reato imperdonabile del XXI secolo: esprime le proprie opinioni impopolari in pubblico e non si accorge che qualcuno la sta registrando: dopo poche ore sarà online su YouTube.

Io odio Internet

Da questo momento inizia la sua tormentata esperienza con Twitter, con i suoi ammiratori, i suoi haters: un viaggio verso l’inferno.

È così che inizia il romanzo Io odio Internet di Jarett Kobek, edito dalla Fazi Editore nella collana Le Meraviglie. Non occorre conoscere altro circa la sua trama poiché essa si rivelerà essere un semplice escamotage per una più profonda critica irriverente e caustica all’universo di Internet e a tutto quanto gli orbita attorno.

Jarett Kobek, scrittore americano di origine turca, è stato da alcuni definito un Houellebecq americano per la sua prosa sferzante e ironica, per la capacità di raccontare la virulenza dei social e di non risparmiare un’aspra critica ai colossi del web e non solo.

“Questa era il mondo in cui Adeline si era avventurata. Un posto in cui i sistemi complessi davano ai malati di mente le stesse piattaforme di espressione che davano ai membri sani della società, senza nessun riguardo per i danni che causavano a se stessi e agli altri. Un posto in cui sistemi complessi permettevano di distruggere esseri umani come Ellen Flitcraft senza nessun altro scopo se non far fare soldi a Google e Facebook” (p. 178).

Così, divorando le pagine, il lettore si sente sulle montagne russe mentre lo scrittore attacca senza posa il business dei supereroi e dei blockbuster, la gentrificazione, il mito di Steve Jobs e l’agenzia pubblicitaria Google. Nessuno ne uscirà indenne.

La lucida analisi che Kobek porta avanti sconquassa il lettore, costretto a squarciare il velo di abitudinarietà e normalità che ricopre i social network e le nostre attività su di essi. La tirannica dipendenza dall’uso di Internet rende i suoi utenti schiavi della rete e la maggior parte di essi ignari della condizione in cui vivono. Il meccanismo complesso in base al quale i colossi del web monetizzano le nostre attività social è ai più ignoto e a ben pochi interessa che cambi. L’illusione che le nuove tecnologie siano neutrali ed anzi progettate per enfatizzare la libertà di parola e la libertà di espressione è assai diffusa.

Mail sistema era stato progettato con il solo scopo di massimizzare la quantità di cazzate che la gente digitava sui propri computer e telefoni. Maggiore era l’interconnessione, maggiori erano i profitti. Era il feudalesimo a servizio dei marchi e si fondava sull’indurre esseri umani a indulgere ai loro istinti peggiori” (p. 177). Ecco che la certezza di essere nella rete e possederla viene meno leggendo queste pagine… al contrario, si insinua nel lettore il timore di essere posseduto dalla rete.

Le graffianti parole di Adeline descrivono Internet come finestra sul mondo ma al tempo stesso gabbia che intrappola: invisibile per chi vi è rinchiuso, comoda per quanti, al suo interno, protetti dall’irreale lontananza dello schermo, urlano e si accaniscono sul web.

Allora Internet sembra proprio essere quella fiera dell’ipocrisia a cui tutti partecipano; quel posto in cui si danno lezioni di morale digitando su dispositivi costruiti da schiavi in chissà quale lontana parte del mondo.

Niente urla individualità come cinquecento milioni di dispositivi elettronici fabbricati da schiavi. Benvenuti all’inferno” (p. 225).

Jarett Kobek – Photo by Helmut Fricke

Io odio Internet è una storia di tanti, ma prima di tutto è una storia per tutti. Una realtà descritta in modo così pungente e alacre, senza pause, senza sconti, che restituisce al lettore l’amara verità del mondo digitale. Uno stile che asciutto, schietto e ipermoderno raggiunge i lettori di tutte le età che, seppure in modo diverso, si accorgono di essere invischiati nell’oscuro digital world.

Un libro impopolare e senza filtri per le critiche argute e spietate; che disseziona crudelmente le abitudini degli utenti tecnologici; che con molta, forse talvolta troppa, veemenza ci vomita addosso parole dure e verità taciute; che coinvolge con spassosa ironia ma che allontana, col desiderio di chiudere il libro e voltare la testa dall’altra parte. Ed è proprio per questo che andrebbe letto. Ora.

“Fanculo a Steve Jobs e alla vostra adorazione per Steve Jobs. Steve Jobs valeva meno di zero! Il suo unico merito era che, a differenza di tutti gli altri orridi amministratori delegati del campo tecnologico, aveva un vago senso del design. I suoi jeans facevano schifo! I suoi maglioncini a collo alto erano orribili! Possedeva il sette per cento della Disney! Apple era un’azienda diretta da un bullo circondato da adepti così indottrinati che non si rendevano neanche conto di essere bullizzati! (…) Lo so, lo so, lo so. So che le mie critiche non valgono niente perché so che l’iPad ha cambiato tutto!” (p. 314).

 

Written by Maria Cristina Mennuti

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