Le métier de la critique: incontrare Agatha Christie, un’infanzia vittoriana verso dove… fino a quando
Di quell’Agatha Mary Clarissa Miller che diventò Christie in seguito al primo matrimonio con Archie, figlio di un giudice, e che fu più tardi nominata Dame Agatha (come a dire ‘Sir’ al femminile) per volere di Sua Maestà Britannica, ho letto almeno una trentina di libri.
Dico ‘almeno’ perché forse, a pensarci bene, sono ben più di trenta le trame oscure nelle quali mi sono tuffata a partire dalla mia giovinezza, nuotando a volte sulla superficie del testo, esplorando in altri casi il fondale delle storie grazie agli spunti intuitivi offerti dall’autrice come manna dal cielo, come caramelle ai lettori.
Sì, perché ad aprire le pagine di un giallo scritto da Agatha Christie si percepisce già quella eccitazione che coglie i più piccoli quando questi sentono aria di mistero, di ‘lupi cattivi’, o di avventure affascinanti e un po’ paurose, e dopo averne ascoltata una, con occhi sgranati chiedono alle nonne: “Me ne racconti un’altra? Me la racconti ancora una volta?”.
Sanno, i bambini, che quella speciale cantastorie si darà da fare per non deluderli. Vanno sul sicuro, insomma. Così come noi, lettori ingordi, sappiamo di puntare sul numero fortunato quando decidiamo di entrare nel mondo inventato da lei.
Lei che, nella sua mezzo-secolare carriera, ha scritto quasi settanta romanzi. Il grande pubblico ha applaudito quei titoli e contenuti che sono rimasti nella storia della letteratura in giallo. Dire “Assassinio sull’Orient Express”, per fare un esempio, è quasi come nominare la Coca-Cola; azzardare un “Dieci piccoli indiani” solleva un coro di “Ma certo!”
Chi non la conosce? Agatha è un brand, è qualcuno che ha saputo suscitare l’interesse di tante persone – o perché queste persone hanno letto i suoi libri, o perché hanno visto i numerosissimi film tratti dagli stessi. Oltre ai settanta romanzi di cui sopra, questa forza di donna ha partorito sei libri sotto lo pseudonimo di Mary Westmacott; ha prodotto un volume di ricordi sulla sua spedizione in Siria e in Iraq, ovvero “Viaggiare è il mio peccato” ‒ un testo che non ho ancora avuto modo di leggere ma che immagino ironico e a tratti esilarante, pungente e ricco di spunti così com’è la sua autobiografia ‒, due sillogi poetiche, un volume di poesie a racconti dedicati ai bambini, una dozzina di storie poliziesche per il teatro e la radio, nonché, per finire, più di centocinquanta racconti.
Chissà che cosa ne penserebbe del proprio successo continuo oltre la soglia del millennio. Chissà che direbbe delle continue repliche di “Trappola per topi” che ancora compaiono in cartellone in tutte le città più importanti del globo. Se pensiamo che i suoi libri sono stati tradotti in più di cento paesi e quasi altrettante lingue e in innumerevoli edizioni!
La scrittura di Agatha è stata un esercizio quotidiano, per lei naturale come respirare ma anche impegno con il tempo e con lo spazio, a giudicare da quel che scrive ne “La mia vita”. Io l’ho sempre ritenuta un genio – il suo spirito mi ha sedotta! – una mente eccezionale, soprattutto perché è stata capace di uscire dal coro in un’epoca che non si può dire sia stata facilitante per le donne e, di conseguenza, per le donne romanziere.
Agatha è stata una scrittrice capace di farsi notare e ottenere il favore degli altri a ogni livello: editori, promotori, critici, registi teatrali, lettori assidui, estimatori di passaggio; è stata in grado di rendere economicamente produttiva la fantasia. Una qualità, la sua, legata ai temi del mistero, del delitto, delle ombre che si muovono come personaggi nella mente umana e che sono semplicemente il buono e il cattivo in ognuno di noi.
La meschinità, la crudeltà, la grettezza, la povertà di spirito, la gelosia, l’invidia: ogni moto naturale della psiche più nera è stato per lei fonte di ispirazione. Sarebbe stata, posso ipotizzare, una bravissima psicoterapeuta – almeno per quel che riguarda l’aspetto riflessivo nelle relazioni umane. Probabilmente non ha mai letto Jung (non ho notizie di questo argomento) ma credo che le sarebbe piaciuto; d’altronde quando lo psicologo analista svizzero ha scritto “Tipi psicologici” (1921), lei aveva trent’anni. Se i due avessero avuto modo di confrontare l’autobiografia di lui, “Ricordi, sogni e riflessioni”, e “La mia vita” di Agatha di fronte a un tè con pasticcini, immagino avrebbero avuto moltissimo da condividere.
Sin da piccolissima, dotata di una fervida immaginazione, la Christie ha inventato storie e intrecci nati dall’incontro tra personaggi con un curriculum realistico, corredati di volti e di corpi, con tratti di personalità luminosi e oscuri ma… completamente fantastici.
Ha cominciato a pochi anni, raccontando a se stessa le avventure dei ‘gattini’ – cuccioli colorati figli della ‘signora Benson’. Ha proseguito nella tarda infanzia immaginando ogni dettaglio de ‘le ragazze’, ovvero un gruppo articolato di fanciulle, una diversa dall’altra per ogni minuzia fisica e psicologica, e facendo loro rappresentare storie di vita quotidiana, portandole con sé dappertutto – nei giochi e nella crescita. La forte Ethel Smith, la timida Annie Grey, la presuntuosa Isabella Sullivan, l’allegra Elsie Greer: Non un amico immaginario ma ben quattro amiche immaginarie! Dopo un po’ Agatha arricchì la schiera con Ella White e Sue De Verte.
Quest’ultima restava per la giovane futura scrittrice “una figura indistinta”, in quanto proiezione di se stessa: “Era strano ma non riuscivo a sentirla. (…) Forse perché, in realtà, Sue ero io.”
“Le ragazze rimasero a lungo a farmi compagnia, crescendo e trasformandosi con me.”
Agatha sarebbe stata, più tardi, capace di entrare nel ruolo di tantissimi personaggi, a partire dai suoi ‘protagonisti’ principali: l’anziana investigatrice per passione, Miss Marple ‒ una meravigliosa figura di “Nemesi” ‒ dando energia e intensità a una vecchina. Un tipo di femminile che, solitamente, di primo acchito è sì guardato con venerazione, con affetto – o dimenticato ‒ ma di al quale non si tende a dare molto credito. Agatha è stata abilissima nel rivestire il ruolo psichico di un ometto buffo con i baffi più curati della terra, nonché di una coppia di sposi affezionati e investigatori dilettanti per passione ‒ Tommy e Tuppence.
Per lei era facile immedesimarsi nella psicologia della gente comune della sua epoca, rendendo universalmente comprensibile un gesto criminale occorso in un paesino della campagna inglese, perché di collettivamente (in)coerente c’è, in primis, l’animo umano.
Sferruzzare intrighi. Viaggiare per davvero in capo al mondo. Scoprire città antiche e ritornare nei prati tagliati alla perfezione. La vita di Agatha Christie non ha conosciuto la ‘noia’.
Io me la immagino ancora sorridente e intenta a tracciare un delitto nella polvere di Nimrud, l’antica Calah, capitale militare degli assiri a sud di Mosul, seduta appena fuori da un edificio di mattoni all’esterno del quale è affisso un cartoncino quadrato su cui è stampato in caratteri cuneiformi “Beit Agatha” ‒ (la casa di Agatha) ‒ targhetta fatta installare apposta dal secondo marito Max Mallowan, noto archeologo e scrittore, nonché amorevole consorte di sedici anni più giovane di lei, uomo che lei ha voluto seguire in territori decisamente esotici e pieni di stimoli per una giallista.
“Così questa è la mia casa, dedicatami perché possa starmene in pace e applicarmi seriamente al mio lavoro. È probabile però che, col procedere degli scavi, non me ne resti affatto il tempo.”
La scorgo adesso mentre scrive di fronte a una finestra che affaccia a oriente con “gli operai arabi che lavorano all’ombra” e “l’abbaiare dei cani”.
“In teoria dovrei scrivere un racconto poliziesco ma con l’impulso tipico dello scrittore a scrivere qualsiasi cosa pur che non sia quello che deve, sento sorgere in me, del tutto inaspettato, il desiderio di scrivere la mia autobiografia.”
Me la vedo prendere il tè tra le rovine come una “Domatrice irredenta”, una regina di storie. Leggendo “La mia vita” mi sono fatta coinvolgere completamente nel mondo vittoriano della famiglia Miller, un gruppo amorevole di individui legati alla tradizione ma anche fuori dagli schemi.
Il libro è un calderone per i ricordi ai quali attingere, per le memorie legate alla casa – la scrittrice ha amato traslocare, organizzare spostamenti ma anche arredare e riarredare gli ambienti amati, e il tema della casa ritorna spesso e volentieri nei suoi romanzi – casa come ambiente dotato di luci e di ombre. Ashfield (a Torquay) ed Ealing sono le case amate.
Sono i giardini in cui Agatha gioca al cerchio, un oggetto che di volta in volta diventa cavallo, mostro marino e treno, e lei si trasforma in cavaliere lungo le vie del giardino o in macchinista creando rotaie e strade verso i sogni. Verso il futuro, conservando la memoria di quel che è stato. La memoria è, in effetti, una casa d’anima nella quale abita il nostro ‘Io autentico’.
“Cosa determina la scelta dei ricordi? È come essere al cinema. Clic! Quella sono io, che mangio i bignè, il giorno del mio compleanno. Clic! Sono passati due anni e io sono seduta in grembo alla nonna, che simula con molta solennità di ingozzarmi come un pollo, tra le mie risate quasi isteriche. Qualche lampo isolato… e, in mezzo, lunghi spazi vuoti, mesi interi, forse anni. Dov’ero? Cosa facevo? (…) La persona intera non la si conosce mai; al massimo riusciamo ad avere qualche folgorazione sull’uomo che è in noi. Per parte mia sono convinta che ci ricordiamo i momenti in cui si è manifestata la nostra vera personalità, il nostro Io più autentico.”
Questo Io autentico è un centro della personalità che va a toccare quel che Carl Gustav Jung chiama il Sé e ci comprende tutti, nel nostro tutto, e che non ci abbandona mai, se lo recuperiamo e teniamo con coscienza il filo del tempo.
“Tra me e quella ragazzina solenne con i boccoli biondo-chiaro non c’è nessuna differenza. La dimora in cui risiede lo spirito cresce sviluppando istinti e propensioni, emozioni e capacità intellettive, ma io, la vera Agatha, sono sempre la stessa.”
La Christie è stata una più che attenta osservatrice delle dinamiche che intercorrono nelle relazioni di ogni genere: personali, affettive, sociali. Lo è stata in un’epoca di crinoline e rossori; in un periodo storico in cui non era lecito o auspicabile o degno di una signora farsi vedere entrare e uscire dal bagno ‒ così racconta, corredando la narrazione di imbarazzi ‒ in un’epoca in cui: “Gli abiti erano abiti! Ogni ragazza ne aveva molti, tutti elaborati e confezionati con tessuti sfarzosi. Gale, balze, volants, cuciture e pinces, complicate sottane che strisciavano per terra tanto da dover essere sollevate elegantemente con una mano per camminare.”
Leggendo ci si emoziona nell’incontrare il fratello Monty, un ragazzino po’ scapestrato, fonte di dispiaceri e grattacapi per i genitori ma coinvolgente a livello affettivo, al punto di rendere gli altri un po’ dipendenti, fino a farli lavorare per lui e riuscendo a evitare ogni impegno. Un tipo furbetto e un po’ lassista. Agatha di lui dice: “Gli mancava qualcosa. Forse l’equilibrio, il senso delle proporzioni o la capacità di integrarsi.”
La sorella Madge viene descritta come una fanciulla molto seducente e degna di ammirazione. Meno fantasiosa di Agatha, si era però inventata un gioco spaventoso, forse il primo scherzo pauroso che restò nella memoria della scrittrice come la terrificante “sorella maggiore”, una sorta di storia da fantasmi con gioco di ruolo.
Recitare, inventare, rappresentare, assumere le vesti di un personaggio: tutti esperimenti che in casa Miller erano all’ordine del giorno.
La creatività e la personalità complessa come dono ‘genetico’: la Christie ci parla di sua madre, donna decisamente stimolante che lei ricorda come volubile ma non superficiale, sempre in esplorazione delle possibilità della vita e considerata un po’ ‘spregiudicata’ per l’epoca.
“A cosa stai pensando Fred?” – domandava mia madre a mio padre.
“A niente” – rispondeva lui in perfetta sincerità.
“Com’è possibile che uno non pensi a niente?”
Per mia madre si trattava di un’affermazione incomprensibile, che la lasciava immancabilmente sconcertata. A lei i pensieri attraversavano la mente rapidi come rondini in volo. Lungi dal non pensare a nulla, mia madre di solito era impegnata con tre pensieri alla volta.”
“I suoi impulsi a fare esperimenti si manifestarono soprattutto in campo religioso. Penso che fosse una natura mistica. Mio padre la seguiva, paziente nei suoi pellegrinaggi da un luogo d’adorazione all’altro. Penso che abbia tirato un gran sospiro di sollievo quando lei tornò alla Chiesa d’Inghilterra.”
Stessa strada con il cibo: “Al grido di ‘niente nutre come un uovo’ fummo costretti a trangugiare uova praticamente ad ogni pasto finché mio padre si ribellò. Si passò poi al periodo del pesce durante il quale ci nutrimmo quasi esclusivamente di sogliole e naselli con netto giovamento delle nostre facoltà intellettive. Tuttavia, dopo un certo numero di evasioni, la mamma tornò alla dieta consueta.”
Narrare storie. Inventarle. Leggere. Ma soprattutto vivere. Agatha cominciò a scrivere storie più tardi nell’adolescenza, ma la lettura fu sua precocemente, nonostante il divieto della madre, convinta sostenitrice del gioco libero fino agli otto anni. Lettura e scrittura come spazio per sé, Beit Agatha, un luogo che si costruì in lei prima nella mente e poi nella realtà concreta dei fatti.
“Ed eccoci qui, la piccola Agatha Miller e Agatha Miller cresciuta, Agatha Christie e Agatha Mallowan, che procedono per la loro strada… dirette dove…”
Verso dove.
Fino a quando.
“Non si sa ma è proprio questo che rende eccitante la vita perché è così che l’ho sempre considerata e continuo a considerarla.” ‒ Nimrud, Iraq, 2 aprile 1950
Written by Valeria Bianchi Mian
Info
Le citazioni sono tratte da “La mia vita”, Arnoldo Mondadori Editore
Un pensiero su “Le métier de la critique: incontrare Agatha Christie, un’infanzia vittoriana verso dove… fino a quando”