Avant-première: “Ulysses: A Dark Odyssey”, film di Federico Alotto – Povero Omero…
Il 14 giugno prossimo approderà nelle sale italiane il secondo lungometraggio di finzione firmato dal torinese Federico Alotto, di produzione italiana benché recitato in lingua inglese da un cast eterogeneo.

“Ulysses: A Dark Odyssey” si rifà in maniera tutt’altro che velata al classico omerico, riportando in testa un cartello programmatico che recita: «Anche i dolori sono, dopo lungo tempo, una gioia per chi ricorda tutto ciò che ha passato e sopportato».
Non che possa fungere anche solo lontanamente da paragone, trattandosi di un’opera di natura e livello completamente differenti, ma va premesso che a visione conclusa è pur sempre ammissibile si rimpianga l’adattamento, meglio ancora la libera rivisitazione che prende il nome di “Fratello, dove sei?” (2000).
Scomodare il capolavoro dei Coen, rimandando implicitamente alla raffinatezza della loro scrittura, serve a mettere in guardia i futuri spettatori che possano interpretare il ricorso alla profondità abissale delle parole del poeta cieco come un buon auspicio, quando questo invece si riduce a pretesto debole di fronte al trattamento della vicenda.
Ciò che segue contraddice ogni nobile intento affogandolo in un mare magnum di trivialità e distorsioni di bassa levatura, e il genere di nei peggiore non è certo da rinvenire nel cameo delle figlie di Alcinoo che giocano a volano, le quali al più possono anche strappare un sorriso.
Più grave colpa è aver trasformato Eolo (Giovanni Mancaruso) in un tossico spocchioso e Circe (Sigal Diamant) nella gerente di un postribolo d’alto bordo, o aver fatto straripare la dissolutezza che un tempo era prerogativa dei Proci nelle aree narrative circostanti, aggiungendoci luci stroboscopiche, cocaina e bocce ballonzolanti.
Al di là di queste irriverenze purtuttavia di rilevanza marginale, coll’approssimarsi del nostos, il tanto agognato ritorno, l’agire dell’eroe Johnny Ferro in arte “Uly” (Andrea Zirio) galoppa in fuga sia dalla statura mitica del modello originario che dall’affezione destinabile dal pubblico all’“itacese dai mille inganni” 2.0, il quale sembra aver smarrito molti, troppi dei connotati positivi del campione di un’avventura rocambolesca.
Genero indesiderato del despota Michael Ocean (Danny Glover), spedito al fronte in una missione suicida lontano dalla futuristica (quel poco che basta) Taurus City che si erge a bastione dei neonati Stati Uniti d’Europa, escamotage di carattere fantapolitico peraltro sostanzialmente ininfluente nell’economia del racconto, Uly è sì disposto anche a morire pur di incrociare un’ultima volta lo sguardo con quello dell’amata Penelope (Anamaria Marinca), sottratta a quelle che un tempo erano le mura domestiche della coppia, ma nel tracciare il sentiero o, forse piuttosto, nel seguire la via intesa a condurlo alla rovina definitiva si rende reo di una serie di errori valutativi raffigurati magari sulla carta come i marchi indelebili propri di un inedito antieroe.

L’esito è difforme, il belloccio (lo si ammette senza ironia stavolta, vista l’azzeccata fotogenia di Zirio) è costantemente succube del fato contrario, semplice pedina sulla scacchiera dell’intoccabile villain, un reduce che incoscientemente, quando non in ricorrente stato di allucinazione, brama evadere da un inferno in cui, nonostante i molti moniti, precipiterà daccapo.
Ma non basta, perché la “pericolosa minaccia” la si vorrebbe restituire in tutto il suo fascino oscuro, fedina penale sporca, linguaggio scurrile e irresistibile sex appeal compresi, senza rinunciare neppure a una tormentata ripugnanza per la violenza e le armi giustificata dai traumi subiti sul campo di battaglia: difficile saper conciliare nuances così contrastanti e auspicare di uscirsene con un ritratto convincente.
Se la cava meglio Niko (Drew Kenney), il compagno di viaggio più ragionevole, custode di un segreto insospettato che, funzionando da chiave di lettura con valenza retroattiva, condona solo parzialmente alcune forzature narrative rilevabili ogniqualvolta Uly escluda stoltamente il comprimario dalla scena.
Ancora una volta dunque il tallone d’Achille di un soggetto fantasioso che cerca numi tutelari in autori inarrivabili risiede nell’incapacità di distinguere il grano dal loglio, di respingere le intuizioni che ridondano e al contrario permettere di lussureggiare alle alzate d’ingegno, fin pure (il lettore permetterà una chiosa ancor più polemica) di aborrire certe leccate poste sotto l’egida gender che, sintomi di un’irriflessiva decontestualizzazione, accontenteranno un pugno di idealisti, ma ai più necessariamente verranno a noia.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni
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