“Nel blu tra il cielo e il mare” di Susan Abulhawa: parole che pesano come macigni

Gaza, una striscia di terra stretta fra le onde del mare Mediterraneo e la vergogna del muro. Una prigione a cielo aperto.

 

Nel blu tra il cielo e il mare

Ma Gaza è anche una patria, un luogo del ritorno, un luogo dove ritrovare la famiglia perduta da sempre. È questo Gaza per Nur, una delle protagoniste dell’ultimo romanzo Nel blu tra il cielo e il mare” di Susan Abulhawa, edito in Italia da Feltrinelli.

La Abulhawa è una scrittrice di origini palestinesi, costretta a fuggire dal suo paese e a rifugiarsi negli Stati Uniti. Nur, donna fra tante figure femminili che popolano una storia intensa, dove la magia dello spirito si intreccia con la cruda realtà delle bombe e delle violenze perpetrate quotidianamente dai soldati israeliani ai danni dei profughi palestinesi.

“Il sangue sgorgava e la sabbia si alzava. Il fumo anneriva i polmoni e i cuori battevano veloci. Il mulino, l’ultima fonte rimasta per il pane, fu bombardato, insieme a scuole, case, moschee e università. Poi gli israeliani spruzzarono il fosforo bianco su Gaza”.

È in questo scenario che si dipana questa saga familiare che origina dai tempi della Nakba, ovvero il momento in cui gli israeliani espulsero i palestinesi dalle loro terre per istituirvi, nel 1948, lo stato di Israele.

Sorprendente nel romanzo il fatto che, sebbene tutte le protagoniste siano donne di varie generazioni, la voce narrante sia invece quella di un ragazzo, Khaled, che cerca di sopravvivere a un male inguaribile pur di trattenersi il più a lungo possibile con le donne della sua vita.

“Loro tre erano le donne della mia vita, il canto della mia anima. Chi in un modo chi in un altro, avevano tutte perso gli uomini che amavano, tranne me. Io rimasi più a lungo che potei”.

Khaled batte le palpebre per dialogare con la piccola sorella Reth Shel, un gesto che emoziona ed entusiasma, come emoziona l’amore che si sprigiona da questa tribù di donne che si stringe e fa quadrato nella famiglia per affrontare e risolvere i problemi grandi e piccoli che la condizione di profughi e rifugiati pone quotidianamente.

Nel romanzo è presente anche l’elemento della migrazione, dell’allontanarsi dalla propria terra e della nostalgia che si prova nella lontananza.

“Nur, invece, non aveva radici da nessuna parte. Era selvaggia e completamente smarrita. Non ho mai visto una solitudine più devastante”.

Susan Abulhawa

È presente l’elemento della violenza domestica che si coniuga con quella delle bombe, sebbene perpetrata in ambienti e in luoghi lontani decine di migliaia di chilometri.

Un romanzo che cattura per l’intensa umanità dei personaggi, per le struggenti storie di vita, ma anche per la leggerezza dei buoni sentimenti e dell’amore che anche fra mille difficoltà sa sempre, in modi diversi, confortare nel cammino di ciascuno.

La Abulhawa, dopo “Ogni mattina a Jenin”, ci regala un altro realistico dipinto della situazione dei profughi palestinesi, delle deprimenti condizioni in cui sono costretti a vivere, sottomessi alla volontà dell’invasore.

I suoi racconti sono permeati dal ricordo di ciò che lei stessa ha vissuto, soffrendo con la sua famiglia la condizione di profuga, di fuggiasca e di rifugiata in uno stato straniero.

Parole che pesano come macigni e che ancora una volta ci invitano a riflettere su uno dei conflitti più longevi e crudeli della storia recente dell’umanità.

 

Written by Beatrice Tauro

 

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