“Il dio delle piccole cose” di Arundhati Roy: il realismo magico di una famiglia indiana

“Maggio ad Ayemenem è un mese caldo, meditabondo. Le giornate sono lunghe e umide. Il fiume si ritira e corvi neri si impinzano di manghi lucidi sugli alberi verdepolvere, immobili. Maturano le banane rosse. Si spaccano i frutti dell’albero del pane. Mosconi viziosi ronzano vacui nell’aria fruttata. Poi si schiantano contro i veti delle finestre e muoiono, goffamente inermi sotto il sole.”

Il dio delle piccole cose

Opera di esordio della scrittrice indiana Arundhati Roy, Il dio delle piccole cose è libro di non facile interpretazione.

Scritto e pubblicato nel 1997 da Guanda editore, è stato comunque letto e apprezzato in tutto il mondo, tanto da ricevere il Booker Prize, il premio letterario più prestigioso d’Inghilterra.

Romanzo da ascrivere alla categoria della saga familiare, vi si raccontano le vicende di una famiglia indiana residente nella regione dell’estremo sud dell’India: il Kerala.

Opera narrativa dalla trama alquanto intricata, l’ambientazione è quella degli anni ’60 ed è sviluppata su piani temporali diversi, durante i quali, fin dall’origine del racconto, il lettore viene messo al corrente degli eventi amplificati nel seguito della narrazione.

I protagonisti sono principalmente due gemelli dizigotici, i quali raggiungono Ayemenem, in compagnia di Ammu, la loro madre, che fugge da un marito violento e fa ritorno presso la propria famiglia d’origine.

Altri personaggi che prendono vita nel racconto sono lo zio Chako, separato dalla moglie inglese, la zia Baby Kochamma, la ex moglie di Chako e la loro piccola Sophie Mol.

“Quando si guadava nelle foto del matrimonio, Ammu sentiva che la donna che le restituiva lo sguardo non era lei. Era una sciocca sposa tutta ingioiellata. Con i puntini bianchi di pasta di sandalo sulle sopracciglia arcuate. Mentre si guardava conciata a quel modo, la sua morbida bocca si piegava in un sorrisetto amaro al ricordo…”

Il romanzo inizia quando i fatti sono già accaduti da tempo e i gemelli Estha e Rahel, ormai adulti, tornano ad Aymenem e fanno memoria di quando, da bambini, decidono di fuggire per suscitare un maggior interesse nei loro genitori. Fuga che purtroppo si risolve in maniera drammatica.

La rappresentazione scenografica del libro è spostata continuamente dal presente al passato più prossimo a quello più remoto, procedendo attraverso i personaggi e la loro storia, per spingersi fino a quella del popolo indiano. Caratteristiche queste, che danno a Il dio delle piccole cose anche la connotazione di opera epica.

Ed è mediante le peculiari vicende di questa famiglia, che l’autrice ricostruisce quelle più ampie e lontane dell’India, delle sue tradizioni culturali, artistiche, letterarie e linguistiche. Oltre che dei suoi costumi, delle sue religioni e dei suoi miti.

Gli eventi narrati sono distribuiti fra una dimensione concreta e una ideale, lasciando ipotizzare che avrebbero potuto avere un altro corso; si viene così a creare un’atmosfera indefinita, sospesa tra ciò che è evidente e ciò che sarebbe potuto accadere.

A dipanare la narrazione, presenze reali e irreali, arcane e misteriose. Tali da determinare un certo dinamismo a far da corollario agli accadimenti, cui corrisponde un racconto anch’esso movimentato, dovuto al passare dal presente al passato e da quest’ultimo al futuro, su suggerimento di ogni situazione o personaggio del percorso narrativo.

Ed è grazie al procedimento stilistico della paratassi, il quale non dà troppo respiro alla lettura, che si crea nel lettore un senso dell’attesa, anche perché l’attenzione viene distratta dalle ampie digressioni dell’autrice. Digressioni che sublimano l’opera nella rappresentazione di ogni aspetto, non solo della vita umana ma anche di quella animale e vegetale, in rapporto alle peculiarità sia della famiglia sia dell’intero popolo indiano e delle sue traversie.

Si rievocano le origini, le tradizioni, i primi colonizzatori, la diffusione del cristianesimo e la sua coesistenza con le altre religioni, ai costumi che ne stati la conseguenza, alle caste sociali, alle guerre d’indipendenza fino a giungere ai tempi moderni, sfiorando il marxismo, la società dei consumi, la crisi dei valori morali e i falsi pregiudizi.

“Da bambina, aveva imparato molto presto a disprezzare le storie tipo Papà Orso Mamma Orso che le venivano date da leggere. Nella sua versione, Papà Orso picchiava mamma Orso con un vaso d’ottone. Mamma Osa sopportava quelle botte con muta rassegnazione.”

Un libro, questo della Roy, di non facile codificazione, ma dove c’è tutto dell’India, del suo presente, riferito all’anno della sua pubblicazione, e del suo passato, della sua gente con le sue credenze e la sua povertà. Un libro in cui c’è tutto della vita, che divisa fra presente e passato, fra uomini e cose, finisce e si rinnova.

Insomma, una storia di grandi cose che però concede agli uomini solo “piccole cose”.

Arundhati Roy

Le persone e le situazioni raccontate tendono ad assumere il significato di simboli, di segni di un destino indipendente da esse; persone che si fanno attori di un dramma che le scavalca, trasformandosi in piccole cose facenti parte di un universo composto invece da grandi cose.

Che dire a proposito del registro narrativo sviluppato in questa prima fatica letteraria dell’autrice indiana?

Che, senza dubbio, è immediata, con rappresentazioni suggerite dalla potente creatività indiana.

La costruzione letteraria è strutturata su diversi piani temporali che si rincorrono come pezzi di un puzzle a cui non sempre si riesce a dare la giusta collocazione. Pur essendo il lettore al corrente della trama fin dall’inizio, la tensione sale e scende in funzione dei diversi picchi narrativi.

Scrittura immediata, seppur intrisa di barocchismi, a giocare con parole e frasi che riportano a flashback di carattere favolistico.

Inoltre, i personaggi.

Cosa dire della loro caratterizzazione? Ottima, perchè esaltata da immagini e definizioni suggestive ed evocative, che assumono il carattere della ritualità.

La coppia di gemelli formata da Estha, ragazzino buono e attento, legato da un’alchimia misteriosa a Rahel, la sua gemella; entrambi vedranno scorrere davanti ai loro occhi la triste rappresentazione della società indiana degli anni ’60, anche se i fatti vengono ricomposti anni dopo, quando la consapevolezza dell’età permette ai due di dare un diverso significato alle cose. La cuginetta inglese Sophie Mol che in India trova modo di esprimere un anelito di libertà. Ammu, la mamma dei gemelli, secondo le usanze indiane, in quanto divorziata, non è collocabile in uno status preciso; è donna che va oltre le convenzioni, soprattutto quella delle caste, presente anche in uno stato di tradizione marxista come quello del Kerala.

Lo zio Chako, marxista e dongiovanni; la nonna, aristocratica e autoritaria al contempo.

Infine l’intrigante zia Baby Kochamma, sempre pronta a mettere in atto diatribe familiari e a essere contenta delle altrui avversità.

Personaggio è anche la cittadina di Ayemenem, dove la casa di famiglia, simbolo di un passato aristocratico di cui Ammu non vuole far memoria, si frantuma. Perché Ammu, donna ribelle, rifiuta anche la trasformazione che sta avvenendo in India: secondo lei è una falsa trasformazione che non vuole licenziare i pregiudizi dovuti all’arretratezza della nazione.

Il dio delle piccole cose è permeato da una sorta di realismo magico, in virtù della scelta del punto di vista: quello dei due fratelli che con il loro sguardo assorbono la tragica realtà che li circonda, modificandola, per poi ricomporla. Il loro sguardo innocente si sofferma su cose dall’apparenza insignificanti, ma che per essi diventano fulcro della loro giovane vita.

Uno sguardo ingenuo che può spiegare alcuni elementi che del libro non si comprendono del tutto.

Perché, a questo punto, per il lettore è doveroso domandarsi: è questo un modo come un altro per allontanare ricordi dolorosi dal proprio sé?

“Dei giorni che seguirono aveva un ricordo sfuocato. Lunghe ore oscure di torpida serenità con la lingua ispessita, lacerata da squarci di angoscia dura e aguzza, affilati e taglienti come la lama di un rasoio.”

 

Written by Carolina Colombi

 

 

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