Donne contro il Femminicidio #22: le parole che cambiano il mondo con Giulia Mastrantoni

Le parole cambiano il mondo. Attraversano spazio e tempo, sedimentandosi e divenendo cemento sterile o campo arato e fertile.

 

 

Femminicidio

Per dare loro il massimo della potenza espressiva e comunicativa, ho scelto di contattare, per una serie di interviste, varie Donne che si sono distinte nella lotta contro la discriminazione e la violenza di genere e nella promozione della parità fra i sessi.

Ho chiesto loro, semplicemente, di commentare poche parole, che qui seguono, nel modo in cui, liberamente, ritenevano opportuno farlo. Non sono intervenuta chiedendo ulteriori specificazioni né offrendo un canovaccio. Alcune hanno scritto molto, raccontando e raccontandosi; altre sono state sintetiche e precise; altre hanno cavalcato la pagina con piglio narrativo, creando un discorso senza soluzione di continuità.

Non tutte hanno espresso opinioni univoche, contribuendo, così, in modo personale alla “ricerca sul campo”, ma tutti si sono dimostrati concordi nell’esigenza di un’educazione sentimentale e di una presa di coscienza in merito a un fenomeno orribile contro le donne, che necessita di un impegno collettivo.

Oggi è il turno, per “Donne contro il Femminicidio“, di Giulia Mastrantoni, nata a Frosinone nel 1993, laureatasi in Lingue a Udine e specializzatasi in Marketing e Social Media. Scrive recensioni e articoli per vari blog e ha pubblicato Veronica è mia, un romanzo sul sesso fra i giovani e sulla violenza psicologica, con Panesi Edizioni. A settembre inizierà un dottorato interdisciplinare in Australia, inerente la scrittura creativa e la violenza di genere.

 

Femmina

Il primo impatto che ho avuto leggendo questa parola è stato negativo: dovrebbe essere un termine legato alla biologia di un corpo, quindi neutrale, ma ha assunto connotazioni non positive nella cultura popolare italiana, come si legge sul Treccani. È sotto queste accezioni che leggo la parola “femmina”, mio malgrado. La filosofa italiana Nicla Vassallo, (Genova, 1963) ha parlato della differenza tra “femmina” e “donna” in modo acuto: in questa prospettiva, ciò che la società ha costruito come ideale di donna diventa molto più determinante di ciò che la biologia ha scelto per noi, a livello delle nostre scelte di vita. Tra le due, preferisco essere chiamata “donna”, anche se sono ancora troppo giovane per essere qualcosa di diverso da una semplice “ragazza”.

 

Femminismo

Giulia Mastrantoni

Le idee sono sempre poco chiare, quando si parla di “femminismo”: la famosa parità dei sessi non è pagare il conto della cena alla romana, né rinunciare a quei gesti maschili di cavalleria che fanno parte dei riti romantici in una coppia. Parità dei sessi, non me ne voglia chi la pensa diversamente, non è neppure battersi perché il termine “Ministra” entri nell’uso comune. Significa, piuttosto, poter votare, poter abortire, poter fare carriera, poter studiare, poter guadagnare in modo giusto. Parità dei sessi è qualcosa di ben diverso dal non desiderare un uomo nella propria vita o dal considerarsi superiori agli uomini: significa aver il diritto di percorrere un certo cammino che pensiamo possa portarci alla felicità, si tratti esso di iscriverci all’Università o di inviare un CV per un ruolo manageriale. Parità dei sessi, in un mondo ideale, sarebbe anche niente più molestie per le donne, siano esse sul lavoro o in contesto sociale. Faccio il tifo per le donne, com’è giusto che sia, ma non mi definisco una femminista: qualcuno di molto più in gamba di me mi ha detto che l’unica cosa che ha senso essere è “umanista”, perché non bisogna difendere solo i diritti delle donne, ma anche quelli di tante altre persone che sono discriminate o deboli. E penso sia qualcosa di estremamente importante per il mondo, essere “umanisti”. Aggiungo che ci sono differenze innegabili tra gli uomini e le donne, così come è stato provato dalle neuroscienze, e che sarebbe bello se si potesse trarre il massimo beneficio da queste scoperte: immaginate se a ciascun individuo venisse data l’occasione di sfruttare al massimo il suo potenziale, in un ambiente per lui o lei ideale – sarebbe meraviglioso! Lo stesso dicasi per le culture diverse. Vivremmo in un mondo di persone che si sentirebbero utili, appagate e capite – e questo sarebbe il vero “umanismo”.

 

Femminicidio

Si dice spesso che non è una parola da usare a cuor leggero, perché non sensibilizza alla violenza di genere e non è utile. Il punto è che descrive un fenomeno e, in questa prospettiva, mi sembra un termine che bisogna assolutamente utilizzare, se non altro per definire quel certo qualcosa che esiste e che va pur denominato in qualche modo. Però occorre porsi una domanda a priori: esiste realmente un fenomeno da descrivere? Sono morte molte donne, quest’anno come in passato, così come ne sono state violentate a migliaia durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale: la violenza di genere è qualcosa che è sempre esistito e che non si è mai descritto con un termine come “femminicidio. Perché, allora, usare questa parola, quando “stupro” e “omicidio” hanno sempre assolto il loro compito di descrivere azioni deplorevoli? “Femminicidio”, inoltre, da un punto di vista prettamente personale e legato all’ideale popolare di cui sono impregnata, indica l’uccisione di una “femmina”. E “femmina” connota negativamente una donna, associandola, almeno nell’immaginario collettivo, a una poco di buono o a una creatura dai costumi facili. “Femminicidio” dà l’idea di qualcosa di meritato, quindi, se proprio occorre trovare un termine altro che non sia “omicidio”, sarebbe meglio se fosse un neologismo privo di qualunque sfumatura dispregiativa. Se non altro per rispetto nei confronti di coloro che sono morte e la cui fine descriviamo con “femminicidio”.

 

Educazione sentimentale

Temo non esista, ma sarebbe auspicabile se venisse insegnata nelle scuole: bisognerebbe insegnare l’empatia, l’autocontrollo, la gestione delle emozioni e la comprensione dei sentimenti. Al di là dell’accezione romantica che “sentimentale” ispira, un’educazione di questo tipo è alla base di una società civile che fa del rispetto dell’altro il suo vessillo. Comprendere ciò che si prova e saperlo gestire aiuterebbe a combattere xenofobia, invidia, rivalità (anche sul lavoro) e darebbe senz’altro una vita migliore a tutti.

 

Written by Emma Fenu

 

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