“Blair Witch” di Adam Wingard: entrerà nella storia, al contempo meglio e peggio di quanto ne hanno detto
17 anni dopo il lungometraggio che ha inaugurato l’uso innovativo, poi spregiudicato, del found footage come elemento fondativo dell’estetica cinematografica finzionale, giunge nelle sale un sequel sicuramente più dignitoso de “Il libro delle streghe: Blair Witch 2” (2000).

Adam Wingard, regista di “You’re Next” (2011) e di alcuni episodi dei primi due “V/H/S” (2012 e 2013) appone la firma a “Blair Witch”, titolo che per ora non sembra riscuotere particolari dimostrazioni di stima sia fra la critica che, soprattutto, fra gli spettatori, la cui affluenza è ben lontana dal poter anche solo avvicinare il risultato conquistato nel lontano 1999, quando 600 mila dollari di budget fecero fruttare 20.000 punti percentuali di ritorno sugli investimenti di “The Blair Witch Project”.
La Lionsgate (distributore della recente saga “Hunger Games”) ha acquisito il patrimonio creativo della minuta Haxan Films, la quale dall’esordio di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez ha prodotto l’unica stagione di “FreakyLinks” (2000-2001) e altri 4 film di Sánchez (2006, 2008, 2011, 2014); la compagnia ne ha anche debitamente oscurato lo sviluppo, celato fino a pochi mesi prima della première, avvenuta al TIFF 2016 (Toronto International Film Festival), dietro la denominazione progettuale “The Woods”.
L’opera è meritevole del predecessore, condividendone pregi e difetti, risoluta e degna di nota nel tentativo di aggiornare la vicenda all’ambiente contemporaneo.
Sono passati 20 anni da quando Heather e i suoi amici Josh e Mike si sono inoltrati in un bosco del Maryland alla ricerca di prove che confermassero l’esistenza della famosa strega di Blair, antico nome con cui era stato battezzato l’adiacente villaggio su cui è stata successivamente costruita Burkittsville.
Nel 2014 James, fratello di Heather, trova sul web un video in cui crede di scorgere la sagoma della sorella, mai più rivista da quando partì a caccia di materiale documentaristico di prima mano; supportato da tre amici, lascia casa per incontrare lo youtuber Lane e la sua fidanzata, che sono cresciuti al limitare della foresta e tempo addietro hanno trovato il nastro della sventurata ragazza, espungendone alcuni metri fra i meno consunti. Mosso dalla speranza che questa sia sopravvissuta nel folto della macchia, trascina tutti oltre la staccionata di demarcazione e precipita nel peggiore dei suoi incubi.

C’è chi ha asserito che “il film horror ricomincia da qui”, e chi all’opposto ha bollato la produzione con tendenzialmente gratuiti giudizi di demerito. Si tratta evidentemente in entrambi i casi di forme di drammatizzazione: “Blair Witch” non getta le basi di alcuna nuova sottocorrente del genere, né si distingue quale epigono di un movimento che accenna ad estinguersi; viceversa, nonostante i bordi stretti in cui gongola senza brillare, privo della lungimiranza necessaria ad acquisire un tocco di visionarietà, non si abbassa mai al punto da confondersi col marmagliume confuso che in questi tempi s’avviluppa senza accennare ad una maturazione concreta.
Esso ricopre piuttosto il ruolo di esperienza riepilogativa, riflessione di leggero spessore che sfrutta con consapevolezza tutti gli stratagemmi lievitati nei lustri passati, riuscendo a regalare istanti di angoscia reale.
Accanto ad alcune spiegazioni inerenti i misteri già riportati sullo schermo, le quali apprezzabilmente si inseriscono nel tessuto narrativo senza risultare affatto oziose, il miglior ammodernamento è adducibile all’armamento tecnologico (e al conseguente scarto qualitativo nelle dinamiche ed opportunità del racconto) di cui si equipaggiano i protagonisti: handycam e fotocamere, videocamere auricolari e persino un drone adatto a sorvolare il manto silvano.

Queste le sicurezze su cui conta il gruppo di escursionisti, i quali potranno comunque poco o nulla contro i poteri di un essere dalle fattezze autenticamente avernali, così spaventoso da uccidere al solo sguardo, così inarrivabile da manipolare lo scorrere del tempo e creare un collegamento diretto con l’inferno, dalle cui profondità fuoriescono urla inumane e schianti portentosi.
A visione conclusa ci si può ritenere perlomeno più fortunati di quanto non lo si potrebbe essere assistendo al primo capitolo: il mostro ci par sul serio di averlo adocchiato, seppur per qualche misero fotogramma.
Dal presente (e da altri) franchise non è possibile esigere di più: alla ristrettezza delle buie inquadrature, all’incombenza costante del fuori campo, si aggiungerà, ecco, una singolare riduzione dei punti di ripresa, fino a sfiorare un soffocante minimalismo, che dà i suoi esiti migliori in prossimità del noto edificio abbandonato e, con sensibile ardore, sottoterra.

La nostra personale fruizione è inscindibilmente legata all’attività e al raziocinio dei personaggi, i quali nel riprendere gli accadimenti testimoniano (o se non altro cercano di trasmetterne un ricordo a lungo fissato, mantenendo una certa credibilità drammatica, anche se in definitiva con minor affetto che nell’avventura precedente) le loro atroci sofferenze, gli accessi di rabbia profonda, la sempre più svilita fiducia che li lega, la tenacia nel resistere fino all’ultimo nel buco più oscuro del mondo.
Si può perciò convenire, a proposito di Wingard & Co., su un’adesione tangenziale all’horror puro e lambiccata al mockumentary, da questa prospettiva perfettamente in linea con le direttive lanciate da Myrick e Sánchez, qui coinvolti in veste di semplici (e soddisfatti) produttori esecutivi; ma allo stesso tempo occorre forse operare un ripensamento, a propria discrezione parziale o radicale, del significato stesso del termine “horror”, sulla scia peraltro di coevi contributi di rilievo come “The Witch” di Robert Eggers (2015), che preferiscono approcciarsi con cautela all’entità maligna anteponendole il fenomeno “uomo” in tutte (o quasi) le sue numerosissime sfumature interiori e manifestazioni esteriori.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni