Femminicidio ed il diritto di scegliere come vivere e di essere lasciate vivere

Non stilerò statistiche.

 

Femminicidio

Ne abbiamo lette molte e troppi si sono improvvisati esperti in materia, cercando di dimostrare che uomini e donne vengono uccisi in pari numero. Non è questo il tipo di parità a cui auspico e non è scartabellando numeri che una donna di parole, come me, affronterà, aprendosi ad un sano confronto costruttivo, il tema del femminicidio.

Le donne uccise sono moltissime: questo aggettivo superlativo è un punto di partenza sul foglio e un mancato punto di sutura su una ferita sociale che non possiamo ignorare, perché il sangue delle vittime ci imbratta. Tutte e tutti.

Ho letto svariati libri e articoli in merito, nell’empatia per le storie vere raccolte e per le testimonianze delle sopravvissute; nell’angoscia di una risposta, da parte dei saggisti di varia formazione, che mitigasse l’orrore; e, soprattutto, nel tentativo di abbracciare una soluzione, o meglio di un progetto di soluzione. La cronaca, non solo nera, che ci propone e ci racconta di donne – bambole, oggetti d’uso e di scarto, è rivolta anche a me, che sono nella società e ho il dovere di sapere, di dire e di fare.

Userò il termine femminicidio. Non perché sui cadaveri si debbano celebrare “ismi”, ad alcuni dei quali cui dobbiamo anche essere grati, seppur in questo momento non sono oggetto di indagine, ma perché, come sottolineano Loredana Lipperini e Michela Murgia, le parole cambiano il mondo, in bene e in male, e hanno peso.

“L’uomo è cacciatore”: no, non è solo un modo di dire, anzi lo è, ed è qui, nelle parole che si insinuano nei secoli, il suo potere.
L’uomo, dunque, cerca, ottiene, possiede e non contempla abbandono.
La donna è lusingata dall’essere oggetto di attenzioni e, se vuole assicurarsi una vita serena, deve stare sottomessa, non cambiare il proprio ruolo scritto fin dagli esordi del Tempo umano, altrimenti il cacciatore finirà il suo lavoro, uccidendola, come una preda, appunto.

Femminicidio

Attenzione alle parole. Nessuno di noi vuole veicolare il messaggio che ho espresso nell’ultima perifrasi. Nessuno. Eppure, se non ci si libera dagli stereotipi di una cultura sessista, si finisce, involontariamente, per giustificare il boia e colpevolizzare la vittima.

Gli uomini sono perfettamente in grado di gestire l’emancipazione femminile, il legittimo desiderio di modificare un modello ideato dai maschi e perfino la degenerazione di alcune donne.

Non vanno compresi e scusati se uccidono perché in preda ad un raptus, perché depressi, perché confusi. Sono esseri liberi e razionali. Pari alle donne. Le donne hanno il diritto di scegliere come essere e come definirsi come mogli e madri, senza dover essere uccise se deludono presunte aspettative. Sono esseri liberi e razionali. Pari agli uomini.

Non sto usando i termini “buono” e “cattivo”.
Gli uomini sono buoni e cattivi. Come le donne.
Le donne sono buone e cattive. Come gli uomini.
Però gli uomini, al termine di una relazione, restano vivi: le donne a volte no.

Non sto usando il termine “amore”.
Non si uccide per amore. Non si picchia per amore. Non si stupra per amore. Non si molesta per amore. Non si stalkerizza per amore.
L’osmosi ciclica di Eros e Thanatos funziona in ambito letterario, quando Tancredi trafigge Clorinda durante l’ultimo duello che rappresenta l’amplesso (in cui si “muore” per un attimo), per citare uno degli esempi più sublimi. Ma la simbologia e lo studio ermeneutico non si applicano alle relazioni quotidiane fra esseri umani: l’arte rende palese, o addirittura denuncia, una caratteristica universale, frutto della cultura, spesso reale, ma degna di biasimo.

Voglio usare il termine “educazione”.

Femminicidio

Quando un uomo uccide una donna, infatti, distrugge il simbolo del “divino” femminile, ossia l’origine della vita e il ventre fecondo della nostra storia che è sacro, ossia, secondo l’etimologia latina, degno di rispetto.

La violenza e la chiusura mentale si combattono con le parole e con le idee e, soprattutto, con l’alleanza, non con la guerra, fra i sessi. Maria Giovanna Farina usa un’espressione di bellissima intensità, ossia “avere cura dell’amore”, per indicare il fulcro pratico e teorico di un’educazione sentimentale, la quale deve essere impartita fin dall’infanzia, che concepisce la relazione fra uomini e donne come scambio reciproco in cui fondersi in corpo e anima.

Riporto un estratto dell’analisi condotta dalla scrittrice e filosofa:Il termine cura ha un doppio significato, per prima cosa è cura nel suo saper diventare mezzo di guarigione: l’amore ha una forte valenza terapeutica in grado di farci superare difficoltà e malesseri interiori. […]Dobbiamo averne cura anche nel significato di proteggere l’amore”.

Educhiamo all’amore, dunque, con l’esempio, con i termini giusti e pertinenti, senza indulgere negli stereotipi: insegniamo alle bambine ad amarsi, ad essere indipendenti, a non sacrificarsi come vittime sulla pira in nome di un amore falso; insegniamo ai bambini che la virilità non si realizza nel possesso e che non ci sono altre armi che la parola in tempo di pace, l’unico tempo a misura d’uomo.
E ricordiamolo alle generazioni future e a noi stessi: “Non si ama da morire, si ama da vivere”.

 

Written by Emma Fenu

 

 

Bibliografia citata
Loredana Lipperini-Michela Murgia, “L’ho uccisa perché l’amavo”. Falso!, Laterza, 2013.
Maria Giovanna Farina, Il giardino delle mele. La violenza non deve vincere, Silele, 2015.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

OUBLIETTE MAGAZINE
Panoramica privacy

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.