“David Bowie” l’album omonimo: inizia nel 1967 la grande avventura da solista dell’artista londinese
“La visione di Bowie è dritta e penetrante come un raggio laser. Scava attraverso ipocrisia, pregiudizio e convenzioni. Vede l’amarezza dell’umanità ma è raramente aspro. Coglie il lato umoristico nei nostri fallimenti, la commozione nelle nostre virtù”.
A leggere una frase come questa nel 2016 verrebbe da pensare che sia una descrizione da biografia postuma, un epitaffio perfetto – non fosse per i verbi al presente – di tutto quello che David Bowie ha rappresentato durante i suoi quasi 50 anni di carriera per il rock e per la musica in generale. Peccato che sia l’esatto contrario, e chi è in possesso dell’album di debutto di David Bowie lo può verificare sul retro della sua opera prima.
La frase è firmata Kenneth Pitt, manager dei The Buzz, l’ultimo di una lunga lista di band che vedono nelle loro fila il nome di David Bowie, ed è proprio Kenneth Pitt a convincere definitivamente quello che diventerà il Duca Bianco (ancora non era nato nessuno dei suoi alter ego) ad intraprendere la carriera solista, e mai scelta fu più azzeccata.
È il 1967 e da quel momento nasce uno dei più importanti e influenti artisti che la musica moderna abbia mai conosciuto, da qui inizia un lungo viaggio alla continua ricerca di nuovi suoni, nuovi temi e continue rivoluzioni introspettive e artistiche prima ancora che musicali, e visto che ogni lungo viaggio comincia con il primo passo, è giusto che – dopo avervi raccontato il capitolo conclusivo – il secondo appuntamento del nostro percorso lungo la musica di Bowie riguardi proprio il suo primo (ancora un po’ acerbo e incerto) passo.
Nel 1967 David Bowie non è ancora il personaggio che tutti noi conosciamo, è lontano (ma non troppo) da quelli che diventeranno i suoi più grandi successi, non ha ancora incontrato il grande mimo e attore Lindsay Kemp, dal quale imparerà gran parte della teatralità che lo contraddistingue, non c’è il glam, nè tantomeno le paillettes, c’è soltanto l’uomo, il ragazzo David Jones, affascinato come lo sarà per tutta la vita dalle nuove correnti artistiche e musicali, con un fratellastro confinato nel reparto psichiatrico di un ospedale perchè affetto da schizofrenia, che sarà al contempo fonte di ispirazione e causa di disagio psicologico per David (è a lui che dedicherà canzoni come “The Bewlay Brothers” o interi album come “The man who sold the world”).
È proprio seguendo il fratello Terry che Bowie all’inizio degli anni ’60 inizia ad appassionarsi alla letteratura beat e al jazz, impara a suonare il sax e scopre un mondo che lo affascina in quanto libero dalle convenzioni, che già in questi frangenti stanno strette al Nostro.
Il jazz diventa quindi il suo punto di partenza, ma siamo nella Londra degli anni ’60, e gli stili, le influenze e le mode sono talmente tante e varie da rendere l’aria della City satura, così Bowie più che ispirato si ritrova confuso, affascinato da quel turbinio di creatività da cui attingere ma perennemente indeciso su quale strada prendere, seguire Beatles, Rolling Stones, Who e tutto quel rock britannico oppure gettarsi sul folk?
Farsi ispirare dalla stagione hippy che partendo dalla California stava per invadere il mondo, oppure darsi alla musica nera?
E perché non quella musica d’autore impegnata, poetica e un po’ maledetta che arrivava dalla Francia?
Impossibile prendere una decisione definitiva, ma Bowie imbraccia il suo sax e ci prova, prima mettendo in piedi diverse band, e poi finalmente in solitaria. Kenneth Pitt è convinto che Bowie possa avere successo come cantautore folk, e così lo porta lungo questa strada, scarrozzandolo in giro per tutta la Gran Bretagna a suonare in locali del circuito cantautorale underground. Durante questo periodo Bowie scrive i testi dei brani che finiranno nel primo album, che viene pubblicato nel 1967 sotto il titolo di “David Bowie“, ma di quei cantautori alla Bob Dylan che Pitt tanto sperava non c’è traccia.
“David Bowie” é un miscuglio di generi e ispirazioni senza una linea guida fissa, acerbo in quanto a continuità, ma già abbastanza maturo su altri fronti, come ad esempio la sintonia tra i testi e le musiche, che seppur non elaborate o orchestrali come nei successivi e imponenti lavori, riescono a cogliere i diversi mood dei brani. Se proprio si vuole andare a trovare un filo conduttore, in questo primo lavoro bisogna analizzare l’ambientazione che viene resa dai 14 brani del disco.
Siamo di fronte ad una dimensione familiare sviscerata con piccoli racconti o aneddoti in cui é facile ritrovarsi o ritrovare situazioni già viste nella realtà, come nel caso della opening track, “uncle Arthur”, un racconto tragicomico che ha come protagonista un fantomatico zio Arthur, stereotipo di un trentenne mammone, che legge ancora i fumetti, per nulla indipendente e che alla fine torna sempre a casa dalla mamma. Musicalmente è un divertissement tra il folk e la filastrocca, anche se il timbro bowiano della voce è già ben riconoscibile.
Si prosegue con i primi netti indizi sulla spontaneità di David, evidenti in “Sell Me A Coat”, una ballata perennemente in bilico tra spensieratezza e malinconia, e forse ancora di più nella successiva “Rubber Band”, scelta come primo 45 giri estratto dall’album e in cui la malinconia del racconto (è la storia di un veterano della prima guerra mondiale che si vede portar via la donna dal direttore di una banda musicale) viene smorzata dagli stacchi ritmici e da un tocco di ironia nel finale del testo (“I hope you break your baton…”).
Se nei primi tre brani le influenze sono forse poco identificabili, dalla quarta traccia in poi i riferimenti si fanno più chiari, a partire dall’impronta Beatlesiana di “Love you ‘til tuesday”, destinata a un successo “di recupero” seguito alla fama che Bowie si guadagnerà negli anni successivi, ma che denota l’ironico cinismo con cui Bowie affronta gli aspetti ridicoli e ipocriti della realtà che lo circonda.
A seguire arriva il dolce sound di “There is a happy land”, brano dall’atmosfera celeste ed eterea, resa splendidamente dall’arrangiamento, forse il più azzeccato dell’album, ma che ispirandosi nei testi a tematiche estremamente mature (il riferimento è tutto a William Blake) non risulta tanto disincantato quanto dovrebbe e quindi il giovan Bowie suona abbastanza impacciato di fronte a tematiche più grandi di lui.
Lo stesso discorso vale per la successiva “We are hungry men”, con cui Bowie affronta temi più socialmente pesanti come il condizionamento della società e la dittatorialità delle paure, il tutto con la sua solita ironia e scandito quasi come un lungo annuncio televisivo o radiofonico, il risultato è una sensazione di ottima idea vagamente sprecata, ma il ragazzo si farà… Il lato A del LP si chiude con l’essenza di un’ambiguità che Bowie si porterà appresso per tutta la vita: “When I Live My Dream” strizza l’occhio ad una teatralità quasi cinematografica, sottolineando il talento drammatico di David, ma allo stesso tempo la sua indecisione su quale strada scegliere tra la musica e il cinema.
Fortunatamente poi la strada maestra sarà quella della musica, ma come dimostrano i numerosi cammei, il grande schermo manterrà per Bowie un grande fascino nei decenni a venire.
Si riparte con il valzer sghembo di “Little Bombardier” a introdurre un lato B forse ancora più vario di ciò che si è ascoltato finora, si va da questo primo valzer con approccio da cantastorie folk, alla successiva “Silly Boy Blue”, in cui gli interessi per il Buddhismo che l’artista stava già sviluppando in quel periodo si fanno sentire non poco, passando per la spensieratezza quasi adolescenziale di “Come and Buy My Toys”, l’unica canzone tipicamente e strettamente folk, tanto che la voce di Bowie è accompagnata soltanto da una chitarra acustica (ok, a 12 corde, ma non pretenderete approcci normali a questo punto?), per arrivare, quasi sul finale, ai ritmi charlestoneggianti di “Join the Gang” in cui Bowie esprime ancora uan volta il suo pensiero allo stesso tempo critico e ironico nei confronti della Swinging London e dei suoi personaggi.
Si termina con un terzetto di brani che sembra definire gli ultimi aspetti di quello che Bowie diventerà: l’ambiguità sessuale si presenta in maniera semi-indiretta con “She’s Got Medals”, in cui viene raccontata la storia di una ragazza che si arruola nell’esercito sotto sembianze maschili per sfidare la morte in un bombardamento aereo e farsi congedare come donna.
In “Maid of Bond Street” si ripresenta l’inclinazione cinematografica, rafforzata da finzione e una drammatizzazione dei testi molto più accentuata degli episodi precedenti, tanto che viene da immaginarsi Bowie sul palco di un teatro o su un set più che di fronte al microfono.
Infine, a dimostrare quanto tutto in Bowie sia indirizzato a trasmettere al pubblico l’enfasi dei temi, arriva “Please Mr. Gravedigger”, una sorta di poesia, recitata a metà tra la prosa e la canzone con i rumori di un temporale in sottofondo, un brano oscuro, tetro per il quale l’artista ha registrato in condizioni a dir poco strane per entrare meglio nella parte, come rivelò durante un’intervista: “Me lo ricordo ancora, piazzato in mezzo alla stanza con un paio di calosce e il bavero rialzato come se si trovasse sotto la pioggia, ingobbito, che rimescola in una scatola piena di ghiaia“.
L’ascolto si chiude e lascia sensazioni strane, non si riesce a capire se ci si trova di fronte a un capolavoro e a un genio assodato, oppure ad un incerto tentativo di sparare in ogni direzione per vedere quale sia quella migliore.
Forse è la seconda ipotesi quella più adatta, perché i piccoli cedimenti sia compositivi che di arrangiamento denotano un artista nella sua fase più embrionale, con un talento incredibilmente evidente e un’altrettanto incredibile indecisione artistica, ma al contempo è una sorta di presentazione (come “Blackstar” è stato il suo commiato) in cui Bowie non mente, non nasconde, non si tira indietro, mette a nudo un’anima portando in musica tutti i pensieri e le emozioni che ha intorno a sé, per quanto goffi o assurdi possano sembrare.
La superstar Bowie, la sua forza espressiva, Ziggy e il Duca, i suoi messaggi e tutta la sua creatività arriveranno a breve, e ve li racconteremo, ma – come in ogni storia che si rispetti – prima è essenziale leggere il prologo…
Written by Emanuele Bertola