Ricordando Giorgio Faletti: “Io uccido”, il suo capolavoro
“L’uomo è uno e nessuno. Porta da anni la sua faccia appiccicata alla testa e la sua ombra cucita ai piedi e ancora non è riuscito a capire quale delle due pesa di più. Qualche volta prova l’impulso irrefrenabile di staccarle e appenderle a un chiodo e restare lì, seduto a terra, come un burattino al quale una mano pietosa ha tagliato i fili”.
È l’incipit di “Io uccido”, romanzo d’esordio di Giorgio Faletti e anche il suo libro migliore. Quello che nel 2002 lo ha consacrato romanziere e autore di thriller apprezzato in tutto il mondo. L’opera con la quale noi di “Oubliette Magazine” vogliamo ricordare il genio poliedrico di questo autore, morto a Torino il 4 luglio 2014.
Ho letto “Io uccido” a pochi giorni dall’uscita, nel 2002, nella sua edizione originale, quella della Baldini&Castoldi, e ne ho un ricordo piacevolissimo, come se allora avessi fatto la scoperta del secolo. Perché il romanzo scritto da colui che io ricordavo essere un cabarettista di “Drive In” e un cantante di Sanremo, per quanto bravo, si è rivelato uno dei migliori thriller dell’ultimo decennio. In questi giorni l’ho ripreso con immutato entusiasmo e, rileggendolo, non mi stupisce che abbia venduto più di quattro milioni di copie.
Perché Faletti era così, bravo in tutto quello che faceva, ma come scrittore era davvero formidabile. Originale e diretto, arrivava puntuale col suo messaggio. Il 2002 è stato per l’autore anche un anno difficile, poiché ha dovuto riprendersi da un ictus che lo aveva colpito, e che lo aveva portato a mettere in discussione tutta la sua vita. Ma desiderava scrivere, Giorgio. Lo desiderava da sempre.
Ricordo che in un’intervista mi ha colpito la motivazione che lo ha spinto a scrivere “Io uccido”. Ha affermato che in giro non ci fossero thriller in grado di spaventarlo, e così ne ha voluto scrivere uno. Che ancor prima di spaventare il lettore, incutesse in lui stesso quel senso di “allerta” che un buon noir dovrebbe sempre trasmettere. Ha scritto il libro per intrattenere se stesso. E ci è riuscito in pieno. Difficilmente abbiamo provato quella tensione che ci ha fatto sobbalzare dalla sedia per un nonnulla, con altri romanzi.
Difficilmente siamo riusciti ad impressionare i nostri interlocutori come quando abbiamo raccontato loro la trama di questo libro. La trama, vero, dobbiamo parlare della trama. Siamo a Montecarlo. Difficilmente Faletti ha ambientato un suo libro in Italia. Lo ha fatto solo una volta, con “Appunti di un venditore di donne” perché diceva che un thriller con nomi italiani avrebbe fatto ridere. Il personaggio che rimarrà nella storia, il suo detective Frank Ottobre, anche se dal nome italianizzato, non avrebbe potuto mai chiamarsi Vito Catozzo, e non avrebbe potuto essere un maresciallo dei carabinieri per esempio della Garbatella.
Faletti voleva la perfezione… voleva scrivere un thriller il più possibile vicino ai grandi noir americani. Però sto divagando, perché parlare di Faletti porta anche a questo. Ha detto e fatto talmente tante cose che, per chi ama i thriller, come me, ha lasciato spunti di conversazione infiniti.
Dicevamo della trama. Jean-Loup Verdier è un dee-jay di Radio Monte Carlo che durante una registrazione notturna, riceve in trasmissione la telefonata di uno sconosciuto, dalla voce artefatta, che rivela di essere un assassino. E che a lungo abbiamo sognato la notte, mi permetto di aggiungere, “ospitato” nei nostri incubi più subdoli. Perché la possibilità di avere istinti omicidi è apparsa come una possibilità, qualcosa di naturale, come una patologia che può colpire tutti in qualunque momento.
Ricordate il messaggio dell’assassino al dee-jay? “«Anche in questo siamo uguali. L’unica cosa che ci fa differenti è che tu, quando hai finito di parlare con loro, hai la possibilità di sentirti stanco. Puoi andare a casa e spegnere la tua mente e ogni sua malattia. Io no. Io di notte non posso dormire, perché il mio male non riposa mai». «E allora tu che cosa fai, di notte, per curare il tuo male?» «Io uccido»”.
Faletti ha portato un serial killer nel Principato di Monaco, dove prima non vi era mai stato. Una triste constatazione per l’agente dell’Fbi in congedo temporaneo, Frank Ottobre e il commissario della Sureté Publique, Nicolas Hulot, perché è a loro che viene affidato il caso. E di caso vero e proprio si tratta, poiché dopo aver momentaneamente archiviato l’episodio della radio come uno scherzo di cattivo gusto, ha inizio una serie di delitti, preceduti ogni volta da una telefonata a Radio Monte Carlo con un indizio “musicale” sulla prossima vittima e ogni volta sottolineati da una scritta tracciata col sangue, firma e provocazione dell’assassino, “Io uccido”.
Inizia così la caccia ad un fantasma inafferrabile, perché molto probabilmente il meno consapevole di tutti è proprio lui, l’assassino. La caratteristica di quest’opera è una serie di eventi che si susseguono a catena, e “inchiodano” il lettore, lo trattengono. So di molti casi in cui questo libro è stato letto d’un fiato, in una sola notte, e vi faccio notare che sono ben 680 pagine. Lo stile pulito, ed evocativo di Giorgio Faletti ha fatto il resto. Ricordo che ad ogni pagina, mi sembrava di essere al cinema. Vedevo chiaramente le scene scorrere davanti ai miei occhi, senza alcuna difficoltà ad immaginare.
Ne sono usciti personaggi che rimarranno nella storia, perché nessuno di loro è un supereroe. Sono uomini con le loro bassezze, le loro debolezze, le loro paure. Persone che fanno quello che possono, senza strafare. Questo ha permesso di renderli “umani”, di farci immedesimare in essi, di renderli vicini a noi. Questo Faletti lo sapeva, e qui sta il suo genio. Altre due o tre cosette, che è meglio non rivelare, nell’eventualità doveste ancora leggere il libro, mi hanno fatto pensare che stesse un passo avanti a tutti, e fosse degno dei più grandi romanzieri di genere americani.
Chi invece il libro lo ha letto, sa di cosa sto parlando. Pazzesco l’espediente creato nel delineare la moglie di Hulot, tenero e comprensibilissimo. L’entrata in scena di un corpo mummificato, poi, è sempre teatrale, e contribuisce ad aumentare la tensione. E se mi permettete, il finale. Portentoso e spiazzante. Ecco, per quanto mi riguarda ho detto tutto, su questo capolavoro che ho tanto apprezzato. Spero di avervi reso giustizia. Una cosa, all’epoca non avevo notato, e adesso, dopo gli eventi di questi ultimi giorni, ha attirato la mia attenzione.
Faletti ha scelto, come introduzione al romanzo, una citazione di Federico Garcìa Lorca: “Per la strada va/ la morte, incoronata,/ di fiori d’arancio appassiti./ Canta e canta/ una canzone/ sulla sua chitarra bianca/ e canta e canta e canta”. Be’ speriamo che in questo caso, la morte sia giunta dolce, con una corona di fiori d’arancio, e sia venuta davvero a prendersi ciò che restava, cantando.
Written by Cristina Biolcati
eccomi qua … sono uno di quelli rimasti incollati al testo una notte di alcuni anni fa … http://www.ildialogodimonza.it/grazie-giorgio-faletti/
Benvenuto nel clan, Aldo! :D