“Pagliacci”, il dramma di Ruggero Leoncavallo diretto da Marco Bellocchio: dal 21 al 29 maggio al Teatro Petruzzelli, Bari

“Condamnés à expliquer le mystère de leur vie, les hommes ont inventé le théâtre. ” Louis Jouvet

 

In scena dal 21 al 29 maggio 2014, presso il Teatro Petruzzelli di Bari, “Pagliacci“, il dramma in un prologo e due atti di Ruggero Leoncavallo. Per la regia di Marco Bellocchio, una produzione della Fondazione Lirico Sinfonica Teatro Petruzzelli.

Mentre diretta dal Maestro Giuseppe La Malfa l’orchestra del Teatro Petruzzelli affronta l’overture con chiarezza e rigore, il sipario si solleva e solo una tela leggera vela la scena curata da Giovanni Carluccio: un grande portone sul fondo, ai lati di un ampio corridoio si sollevano grigi e segnati da crepe i muri delle celle chiuse. Alcune guardie controllano i prigionieri e una alla volta aprono quattro celle. Da una di queste si fa avanti Tonio, interpretato da un convincente e potente Elia Fabbian: annuncia al pubblico, nelle vesti del Prologo, che sul palco non vi sarà la rappresentazione di una storia interpretata da attori, ma si consumerà una tragedia di uomini.

L’autore ha cercato/invece pingervi/uno squarcio di vita./Egli ha per massima sol/che l’artista è un uom/e che per gli uomini/scrivere ei deve./Ed al vero ispiravasi.”

Così canta Tonio: in poche semplici frasi esprime il manifesto del verismo lirico e al contempo anticipa gli atti di cui sarà motore.

Fin dalle prime note e dai primi gesti, però, l’attenzione del pubblico è rivolta in maniera particolare allo spazio, al luogo in cui si svolge la scena: perché i Pagliacci sono prigionieri?

Durante l’incontro dello scorso lunedì 19 maggio presso il Conservatorio “Niccolò Piccinni” di Bari, organizzato e promosso dallo stesso Conservatorio in collaborazione con la Mediateca Regionale Pugliese e la Fondazione Lirico Sinfonica Teatro Petruzzelli, Marco Bellocchio ha spiegato la sua intenzione di rappresentare attraverso il carcere la “bellezza reclusa in una istituzione chiusa e violenta ed il tentativo di inserire nella messinscena la sua idea di immagine. Il carcere è dunque un luogo che sussume una serie di intenzioni, tensioni, ragioni e significati: rende collettivo il turbamento e lo sconvolgimento del “Pagliaccio”.

Con la musicista Angela Annese (Docente di Pianoforte presso il Conservatorio) e con il dott. Angelo Amoruso D’Aragona (Direttore della Mediateca) il Regista ha rimarcato la centralità del melodramma (e della musica in generale) all’interno delle sue opere, dalla regia televisiva del “Rigoletto” di Verdi nel 2010, all’ormai lontano 2002 quando diresse “…Addio del passato…”, un film-documentario che raccoglie voci, pensieri e volti della Piacenza sospesa nel ricordo sempre vivo di Verdi. “Lo sguardo del regista segue e si muove sugli attori” ha spiegato Bellocchio, recuperando così il contatto diretto e puntuale con la “cupa depressione” di Canio.

Fortemente simbolico, dunque, l’ambiente che apre la via a molteplici interpretazioni: tutti i gesti e le parole degli attori sono controllati e seguiti dalle guardie della prigione come a farci intendere che ogni azione è predeterminata, che l’andamento della vicenda è già programmato, che i personaggi del dramma stiano seguendo uno schema preciso, prigionieri anche nelle azioni, negli sguardi e nei gesti vissuti nella solitudine delle celle, ma ripresi da telecamere a circuito chiuso che li proiettano contro il fondo del palcoscenico.

Ecco giungere tra le acclamazioni della folla degli altri prigionieri usciti da quel portone di legno scuro sullo sfondo, Nedda con Canio (Yusif Eyvazof ) e il giovane Peppe, issati su di un carro costruito con i letti dei penitenziari, bianchi e a castello.

“Tra ventintrè ore” annuncia Canio. Ventintrè ore e la commedia andrà in scena. Nedda (Sofia Soloviy) viene lasciata sola. Canta di quando era bambina e ricorda il volo degli uccelli liberi nel cielo azzurro proiettato alle sue spalle sulla parete grigia. Una donna che vorrebbe allontanare da sé gli obblighi che la legano a Canio, suo sposo. Una donna che, proprio come gli uccelli, vorrebbe volare, fuggire verso una vita diversa. Tonio è rimasto ad ascoltarla, ne è affascinato e la desidera talmente tanto da cercare anche con la violenza di poterla possedere. Ma Nedda lo allontana, non può certo accettare di amare un corpo deforme e sgraziato. Lo allontana esattamente come quando veste i panni di Colombina nelle piazze dei paesi dove la carovana dei commedianti si ferma. Tonio è sconvolto, offeso e rabbioso le giura vendetta.

Giunge Silvio (Marcello Rosiello) e stringe la sua Nedda, le due voci all’unisono danno vita ad uno struggente e appassionato duetto.

Ma Tonio scopre i due amanti e per vendicarsi del rifiuto della donna chiama Canio e gli mostra il tradimento. Silvio fugge, a stento si riesce a placare l’ira di Canio, ed è Peppe a ricordargli che la commedia deve andare in scena.

Canio viene lasciato solo, gli altri personaggi tornano nelle rispettive celle. Yusif Eyvazof è potente, preciso e struggente nell’aria che da sola costituisce il cuore dell’opera di Leoncavallo. “Vesti la giubba” vibra per tutto il Teatro e lo sguardo si ferma sulla figura del tenore la cui notevole presenza scenica rende al meglio la scelta del regista: l’ambiente grigio, inospitale, illuminato a stento dai raggi freddi che penetrano tra le sbarre del soffitto si contrappone allo slancio appassionato che sconvolge il personaggio.

Cala il sipario. Ancora un momento in cui protagonista è l’orchestra. Ancora dietro quel velo sottile, ecco muoversi le guardie che allestiscono un palco. Sempre dal portone sul fondo giunge il pubblico. Il coro del Teatro Petruzzelli è efficace e puntuale nel mantenere potente il suono mentre si dispone accaldato e vociante attorno al palchetto in attesa dello spettacolo.

Inizia la commedia.

Beppe (Emanuele D’Aguanno), il giovane Arlecchino incanta Colombina che rifiuta un beffardo Taddeo innamorato, ma quando Canio entra in scena non è il Pagliaccio pronto a credere all’innocenza di Colombina o a bastonare per la gioia degli spettatori Taddeo. Canio è Canio, incapace di controllare la rabbia, di frenare il desiderio di vendicare l’amore che Nedda ha tradito e dileggiato. “Par vera questa scena” ripetono le donne del coro, mentre la giovane rifiuta di confessare il nome dell’amante al marito tradito. Silvio è celato tra il pubblico, ma non può intervenire, non ancora. Si getterà sul palco solo quando Canio, al colmo della rabbia, colpirà Nedda che muore sul palco: anche all’amante spetterà la medesima sorte.

“La commedia è finita” conclude Tonio. E mentre il sipario cala e tutti tornano alle proprie prigioni, Nedda e Silvio si rialzano afflitti. Nello spazio breve della rappresentazione il pubblico, quello del Teatro, non può non interrogarsi su quanto è accaduto sulla scena e sulle forme del Teatro, si chiede se il dramma che si è appena consumato sia la condanna ultima inflitta a Canio oppure l’abile gioco di un demiurgo che si sia divertito a confondere i piani della narrazione per sorprendere e sconcertare: come prima, incapace di trattenere la pulsione della rabbia, ha agito nella rappresentazione come se fosse la realtà annullando il confine tra Teatro e Mondo, ecco che adesso è costretto, come per un contrappasso dantesco, a rivivere all’infinito lo spasmo reale nella finzione, a perpetrare il dolore reale senza potersene mai liberare, ma, anzi, costretto, recitando, a rappresentare se stesso e ad esporsi al giudizio e alla commiserazione degli altri.

Come l’arte non riesce a sublimare l’essenza drammatica dell’uomo, ma precipita imprigionata in se stessa e di fatto, senza scioglierne le tensioni, finisce per coincidere con la realtà e tuttavia propone, se non risoluzioni, una riflessione distaccata e razionale, così Canio, il “comédien” – per dirla con Jouvet – è assorbito nel suo ruolo e si annulla in esso senza speranza di liberazione. Bellocchio usa la prigione proprio per rappresentare il limite che la società impone a se stessa, il limite che l’uomo si costruisce addosso nell’amore e nella vita, ma anche il limite che l’uomo e la società impone all’attore nel momento in cui chiede una commedia fine a se stessa, una commedia che si limiti a riproporre la realtà senza rappresentarla e ri-pensarla.

Canio era prigioniero della sua passione, della maschera del Pagliaccio che doveva divertire un pubblico a sua volta prigioniero della necessità di partecipare alla commedia per non pensare.

Caino è ora ancora prigioniero, ma anche della sua colpa: non è più importante sapere se la Nedda che uccide sul palco in carcere sia la vera Nedda o una proiezione, un fantasma, un’altra attrice. Quello che conta è l’atto, la violenza che rende l’uomo condannato a rappresentare la propria irrazionalità e incapacità di amare prima di tutto se stesso.

Quello che conta è che se prima la prigione era solo interiore, adesso è anche effettivamente esteriore: ora è scandita dagli interventi istituzionali delle guardie che partecipano alle azioni sceniche. Adesso Canio è irrimediabilmente imprigionato nell’attesa. Fino a quando dovrà riproporre la sua colpa? Potrà mai liberarsi dalla maschera che oramai sembra essere penetrata talmente tanto dentro la pelle da non poter più essere strappata. Qual è il suo volto, chi è Canio?

 

Written by Irene Gianeselli

 

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