“Le sommeil d’or”, film di Davy Chou – recensione di Raffaello Scolamacchia

Le sommeil d’or“. Tutto comincia con una carrellata all’indietro. Un camera‐car invertito che ci riporta alle origini del cinema cambogiano, lungo una strada in terra battuta immersa in un’oscurità primigenia.

Il racconto prende forma attraverso i ricordi di alcuni protagonisti del fertile periodo creativo situabile nel quindicennio 1960‐1975: due produttori (Ly You Sreang e Ly Bun Yim), un regista (Yvon Hem), l’attrice forse più conosciuta e ammirata in quegli anni (Dy Saveth).

Sono i superstiti pionieri di un’età dell’oro del cinema cambogiano che ha conosciuto il suo apogeo attorno al 1970, in concomitanza con l’affermazione al potere dei Khmer Rossi di Pol Pot.
Consolidatosi come unica pratica di svago per le masse urbanizzate sempre più oppresse e terrorizzate, il cinema cambogiano verrà soffocato brutalmente già agli inizi del 1975.

Quelli che erano i suoi templi ‐ palazzi del cinema più che sale – verranno rasi al suolo o dati alle fiamme, insieme alle pellicole conservate nei loro magazzini.
Ma quei pochi anni di vita che gli sono stati concessi hanno comunque consentito al cinema cambogiano di segnare indelebilmente la memoria e l’immaginario di un’intera generazione di spettatori e cinefili (ben 400 film prodotti in 15 anni).
Immagini scolorite come cartoline spedite da Atlantide fanno da sfondo al racconto.

Le parole si adagiano su un tappeto sonoro intessuto da voci cristalline, che sono la colonna sonora di quel cinema perduto.
Storie d’amore, perlopiù, con trame da feuilleton che facevano sognare il grande pubblico.
Un intero patrimonio culturale è stato scientificamente distrutto, e molti di coloro che avevano contribuito a crearlo sono stati assassinati oppure costretti all’esilio, quando ne hanno avuto la possibilità.

Le uniche tracce rimaste di questa storia collettiva sono le colonne sonore (rintracciabili sul web) e le rare fotografie di scena, che raccontano di un grande sogno che è stato interrotto sul nascere.
A rendere testimonianza di questo sogno, che era anche una speranza condivisa, restano le voci dei pochi superstiti. Un patrimonio che, se opportunamente valorizzato, potrà servire da background per una nuova generazione di cineasti.

Il merito principale del film è l’aver saputo raccogliere questa eredità, traducendola in una serie di immagini suggestive ed evocatrici.
Come quelle che prendono corpo dalla descrizione concitata della trama fantasmagorica de “Il ritorno dell’ippocampo” da parte del suo produttore, Ly Bun Yim. Un film che si discosta dal filone romantico e che avrebbe invece i caratteri di una science‐fiction. Si resta nell’ipotesi, perché purtroppo non avremo mai la fortuna di vederlo.

Nella ricostruzione del regista, le parole diventano fantasmi di luce. I vecchi palazzi del cinema si illuminano come d’incanto, e per un’ultima, magica notte, riprendono vita.
Davy Chou ha saputo raccontare con rigore da documentarista una storia di dolore e di disincanto. Ma allo stesso tempo ha usato il mezzo cinematografico per indagare il suo stesso “essere cinema”, e mostrarci la materia di cui sono fatti i sogni e le speranze.
Un patrimonio è stato perduto, una generazione è stata sconfitta.

Ma il valore del cinema come arte collettiva è stato illustrato e ribadito, e questo è il più alto riconoscimento che possiamo tributare a questo film.

 

Written by Raffaello Scolamacchia

 

 

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