“We All Play Synth”, quarto album dei Common Deflection Problems – recensione di Emanuele Bertola
Se a scuola i professori parlassero della matematica e della geometria come si parla di una forma d’arte probabilmente nessuno crederebbe loro, e a nulla servirebbe far notare la bellezza di un’equazione lineare o la perfezione di una forma geometrica definita, perché nel pensiero comune l’arte è legata alle sensazioni, alle emozioni, a qualcosa di viscerale e strettamente umano, mentre la matematica e la geometria, con le loro logiche secche e i loro assiomi inoppugnabili corrispondono a qualcosa di freddo, schematico e incolore.
Dopotutto i numeri sono il linguaggio dei computer e delle macchine, antitesi per antonomasia dell’uomo, e dai numeri non si scappa, non c’è interpretazione, rilettura o scappatoia che cambi il risultato di un’operazione, eppure senza le invariabili regole della prospettiva quanti quadri perderebbero parte della loro bellezza?
Quanti monumenti, chiese, cattedrali e piazze non sarebbero le stesse senza giochi di simmetrie e profili netti? Insomma, la matematica e la geometria sono molto più legate all’arte di quanto il sentore collettivo lasci trasparire.
Sembrano pensarla così anche i Common Deflection Problems, trio italiano emigrato a Londra che ha fatto del nomadismo musicale e dei lineamenti secchi e definiti la propria bandiera, il punto fermo di un sound scarno e potente che va ad accostarsi senza troppi fronzoli al math-rock. La band ha già al suo attivo “Naked”, primo album autoprodotto nel 2009, “CDP” e “Never use records as freesbies” (titolo splendido) del 2011 – il primo prodotto da un’etichetta norvegese e il secondo prodotto e distribuito da diverse etichette tra Regno Unito, Spagna e Italia – e ha dato alle stampe quest’anno il quarto lavoro in studio, un LP da 12 pollici intitolato “We all play synth“.
Sei tracce per un totale di meno di venti minuti di math-rock esplosivo e snervante; i tre preferiscono non essere inseriti in un genere particolare, ma è più che evidente che la matematica e lo schematismo siano elementi fondamentali per le sonorità a loro affini. In questo “We all play synth” dei synth non c’è traccia, così come delle parole, niente testi infatti, solo e soltanto musica, perchè le parole significano melodia, melodia significa armonia e armonia significa musica tonda, mentre i Common Deflection Problems preferiscono gli spigoli, le ritmiche scheletriche e squadrate, le deviazioni repentine e le interruzioni brusche, in sintesi una musica geometricamente ben definita.
Ognuno dei 6 brani dell’album è una figura, un poligono infinitamente complesso in cui ogni lato è una svisata, ogni angolo un’interruzione e una successiva violenta ripartenza, ogni secondo delle canzoni sta al suo posto, in un punto ben preciso di una linea che traccia scie rumoristiche massicce, irregolari e seghettate, in bilico tra la sperimentazione e uno sfogo schizofrenico, pazzesco, scatenato e devastante nella sua logica ferrea. Non c’è tempo per i mezzi termini in questi 20 minuti, ma solo chitarra, basso e batteria a spararsi colpi al fulmicotone per un album in costante ascesa avanguardistica che dalle prime austere note di “The cult of Molok” – traccia di apertura – procede per la sua strada inarrestabile come un rullo compressore, tra ricordi nineties, ispirazioni post-hardcore e una venatura noise.
Lungo questo percorso troviamo “Steve”, martellante stop & go continuo, “Hugo in the continent”, meno asfissiante ma forse più potente, “Urania”, sperimentale che più non si può e “Lot of fun down the Vatican”, che oltre a vincere la medaglia d’oro per il miglior titolo è il brano più lungo dell’intero album, 4 minuti di incedere aggressivo che portano alla traccia finale, “Kasbah”, l’unica in cui compare la voce – badate bene, la voce, non le parole – portando una leggera variazione alla strada percorsa fin qui e che chiude degnamente il disco.
Un album, questo “We all play synth”, non certo immediato – in fondo sono i rischi della sperimentazione – e che esce dai soliti schemi creandosene di propri, schemi quadrati, serrati e ossessivi che non lasciano via di scampo, perché dai numeri non si scappa, soprattutto quando sono armati di musica fino ai denti…
Written by Emanuele Bertola
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