“Cammini”, racconto di Roberto Saporito
“La realtà è che morire non è brutto,
ma dura per sempre.”David Foster Wallace
Il cielo è un impenetrabile muro bianco, latte condensato, raggrumato, l’asfalto nero ancora lucido di pioggia. Il giorno si è strappato la notte di dosso da pochi minuti e il traffico automobilistico aumenta inesorabile col trascorrere del tempo.
Tu cammini sul bordo della strada da più di due ore, cammini con un passo veloce e costante: sembra che tu non senta la fatica, appari come un automa puntato in avanti, con lo sguardo fisso che dà l’impressione di osservare un punto lontano, lontanissimo, inarrivabile.
Le macchine ti sfilano accanto veloci in un rombo in avvicinamento che si trasforma rapidamente in un rombo in allontanamento.
Qualcuno suona il clacson, nessuno si ferma.
Con l’arrivo del giorno e con l’aumento del traffico qualcuno rallenta, ma non si ferma.
Cammini respirando forte col naso, cammini dritto, senza perdere il ritmo, cammini veloce e la velocità azzera i pensieri, trasforma il ricordo recente in sangue pompato da un cuore impazzito, in respiri profondi, in occhi sbarrati e lucidi al limite delle lacrime, laghi neri, buchi neri e profondi.
Un’auto rallenta, mette le quattro frecce e si ferma un centinaio di metri dopo di te.
Il traffico dell’autostrada è sempre più rumoroso, sempre più gravido e inviperito.
Quando passi di fianco all’auto ferma con le quattro frecce il finestrino del passeggero si abbassa automaticamente e silenziosamente e il guidatore ti chiede:
“Tutto bene?”
Ti fermi due secondi, respiri rumorosamente, come un polmone artificiale in affanno, fuori sincrono, continui a guardare fisso davanti a te, e riparti con la stessa lena di prima.
“Ehi, si sente bene, le serve qualcosa, è successo qualcosa?” interroga l’automobilista sporgendosi, adesso, dal suo finestrino.
Lo ignori, e forse non lo senti neanche, o se lo senti non capisci cosa vuole, non riesci a dare un senso alle sue parole.
Cammini e in pochi secondi riacquisti lo stesso ritmo di prima: un mezzo blindato cieco puntato inesorabilmente in avanti.
“Ehi…” urla ancora l’automobilista, ma poi chiude il finestrino, innesta la prima e riparte, suonando il clacson quando ti affianca.
In quasi tre ore di camminata sul ciglio dell’autostrada quella è stata l’unica macchina che si è fermata: se fossi stato un cane, o un gatto, se ne sarebbero fermate cento, mille. Ma le persone, ormai, fanno paura, e le persone che fanno cose non ragionevoli, come camminare sul bordo di un’autostrada, fanno ancora più paura: perché con le persone che fanno cose strane, le persone normali, o presunte tali, non sanno come comportarsi, perché le persone normali, se ci pensano anche solo pochi secondi, hanno il terrore di essere come quelle persone strane: e allora è più facile dare soccorso a un animale abbandonato sull’autostrada che a un essere umano, potenzialmente pericoloso in quanto essere umano pensante, e chissà cosa può pensare una persona che cammina dietro la linea bianca che delinea il bordo dell’autostrada: perché è vietato camminare sull’autostrada, e se qualcuno lo fa, e poi con quella tua faccia da maniaco, con quel furore nello sguardo, con quella collera nella camminata svelta, è ancora peggio.
Se fossi un cane, anche potenzialmente pericoloso, si fermerebbero, ma sei un uomo, che solo per il fatto che cammina dove non dovrebbe, si trasforma, automaticamente, in un essere sicuramente pericoloso.
La tua macchina, un gigantesco Suv bianco, è parcheggiata in un’area di sosta una ventina di chilometri prima. È l’unica auto parcheggiata, non lontano da un enorme copertone nero e strappato in più punti, due siringhe dalle punte insanguinate, alcune lattine di birra, dei fazzolettini appallottolati, un preservativo usato incartapecorito e il braccio sinistro di una bambola.
Benedetta, la tua ragazza, è seduta sul lato del passeggero, legata alla cintura di sicurezza, la testa reclinata leggermente in avanti, gli occhi verdi lievemente aperti: non respira, non più.
Tu cammini in questo modo ancora per un’altra ora, quando un’auto della polizia, con i lampeggianti accesi si ferma un centinaio di metri dopo di te. Il poliziotto sul lato del passeggero scende e chiede:
“Signore, cos’è successo?”
Gli sfili davanti ma non ti fermi, non lo ascolti, non lo senti, forse.
“Ehi, signore, si fermi” ti intima il poliziotto.
Tu non ascolti e continui, inesorabile, la tua marcia.
Il poliziotto ti insegue, e visto che continui a non fermarti, ti blocca il braccio sinistro con la sua mano destra.
“Le ho detto di fermarsi” intima ancora.
Con uno strattone ti liberi dalla sua presa e riparti.
Quando ti raggiunge anche l’altro poliziotto scarti inaspettatamente a sinistra, attraversi una corsia, una seconda sfiorato da un tir che suona e frena disperato e vieni però travolto in pieno, sulla terza, e rispedito sulla seconda corsia, da un Suv bianco uguale al tuo, dove un altro tir, enorme, ti schiaccia con una serie infinita di giganteschi copertoni neri.
Roberto Saporito è nato ad Alba (CN) nel 1962. Ha studiato giornalismo. Ha pubblicato tre raccolte di racconti (l’ultima, “Generazione di perplessi”, Edizioni della Sera, con la quarta di copertina di Marco Vichi), e cinque romanzi (l’ultimo, “Il rumore della terra che gira”, Perdisa Pop, nella collana “Corsari”, diretta da Luigi Bernardi). Suoi racconti sono stati pubblicati su antologie e innumerevoli Riviste Letterarie. È membro del comitato scientifico del Festival Letterario “Letture Corsare” che si tiene ad Alba (CN). Collabora con la Rivista Letteraria di Milano [diretta da Gian Paolo Serino] “Satisfiction” con una sua personale rubrica.
Info
r.saporito@alice.it
Sito
Racconto pubblicato anche sul blog La poesia e lo spirito
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