“Super Santos” di Roberto Saviano: una partita esistenziale?
“Super Santos” è un racconto breve e al contempo lungo di Roberto Saviano, colmo di vita e di disperazione, di conflitti terribili e di soluzioni assurde, di situazioni irregolari, di quotidiane normalità che sono inconcepibili a chi non le ha vissute, giorno per giorno, in prima persona. Non succede quasi più, nella mia Reggio Emilia quel semplice fatto. Un ragazzo, negli anni ‘70, si faceva regalare un pallone dai genitori, o lo comprava coi suoi risparmi. Poi chiamava degli amici, anche uno solo, e insieme ci si giocava, in genere su un prato.

Il super santos lo si lanciava l’uno all’altro. Un mio ricordo meraviglioso: io lo calciavo in direzione di Tiziano, lui me lo rimandava. In mezzo stava Raska, una femmina di cane lupo, che, correndo fra noi due, cercava di incocciare il muso su di esso e talvolta ci riusciva.
Ogni tanto si facevano delle vere e proprie partitine, mai undici contro undici, ma cinque contro cinque, sei contro sei, o sette contro sette. Se si era in numero dispari, il più scarso giocava con la squadra più numerosa. Non sempre il campo era erboso. Si giocava a volte sulla terra battuta, più raramente sul cemento. Quanti ricordi che ho. Tutto ciò capitava ai ragazzini delle classi benestanti e a quelli delle classi meno ricche. Se c’era da giocare, la famiglia d’origine non c’entrava più. I due capisquadra, che erano in genere il padrone del pallone e il suo tradizionale antagonista, sceglievano i giocatori, uno alla volta, in modo alternato. Poi aveva inizio la partita, che durava un’oretta, raramente di più. Si dava l’anima pur di vincere. E poi la si raccoglieva da terra e la si riportava a casa, quand’era ora di cena. Poiché il campo era piccolo, le azioni da gol erano frequenti e perciò il risultato finale era, che so, dodici a dieci, undici a sette, nove a sei.
A prescindere… – come diceva Totò – dalle vicende che narri, il tuo racconto Super Santos, Roberto, m’ha fatto tornare a quegli anni lontani e mai dimenticati. Questo è uno dei fini della scrittura: far rivivere al lettore il tempo che fu e che puntualmente ritorna, riga dopo riga, pagina dopo pagina.
I ragazzini oggi sono iscritti dai genitori, fin da piccoli, in squadre ufficiali, con le loro divise e coi loro numeri. Che esistevano anche allora, ma a una certa età, diciamo intorno ai quattordici. Prima si era tutti free lance. E ci si lanciava liberamente la palla. E tanto spesso si faceva gol!
Leggo, a pagina 14 de Super Santos: “il pallone è fondamentale” – e questa è una parte del racconto che poco m’appartiene. Non ho mai sentito parlare di quelle marche di palloni: né di “Super Tele” né di “Super Santos”, né di “Tango”. Quando giocavo io c’era quel pallonetto leggero, di plastica, mai di cuoio. Noi si giocava con le scarpe di pezza, non con quelle chiodate. Il pallone, tenero, era comprato in tabaccheria.
Ora cercherò di affievolire i miei ricordi, per capire il tuo racconto, Roberto. Non so se ce la farò. Sarà come giocare a palla, fra me e te, con in mezzo la Raska.
Noi si giocava per lo più al quartiere diroccato e pressoché abbandonato del Cairo, del tipo San Severino di Centola e Craco, meno inclìto però. E che oggi è stato abbattuto e poi ricostruito. L’avversario lo si poteva superare come a biliardino, facendo rimbalzare il pallone contro il muretto. Anche noi cercavamo di giocare fuori, tutti in attacco e tutti in difesa, a tutto campo, come l’Ajax di Cruijff. C’era talvolta il cosiddetto portiere volante: ognuno poteva parare, senza però trattenere in mano il pallone. Bei tempi, bei gol, bei bisticci, a volte.
“Col Super Santos dovevi giocarci anni e tutti i giorni per poter capire come fargli fare l’esatto percorso che volevi.” – come si suol dire: nisciuno nasce imparato. Col nostro pallone era diverso: bastava buttarlo in avanti e correre nella stessa direzione. E poi cercare di buttarlo dentro. Le porte non c’erano. Bastavano due pietre messe a mo’ di pali.
“Giocare, giocare, giocare. Battere, vincere, segnare.”
Il senso era sempre lo stesso (anche per noi). Diverso era il materiale usato. Quel che serve alla palla è in primo luogo l’essere rotonda. Per cui va dove deve andare, insieme a Totò e a Peppino, cioè verso la porta nemica, e non altrove. Per noi e per i tuoi ragazzi il discorso è lo stesso.
Narri poi un episodio terribile, inconcepibile per noi. A quei tempi “il tabaccaio” (detto tabachîn o paltein, da appalto) era un tipo autorevole, che non dava confidenza. Lui non dava mai nulla se prima non riceveva i soldi. Mi domando che avremo fatto se anche noi avessimo avuto un “Tonino Porcello” in grado di cautelare i nostri interessi. E di umiliarlo in modo atroce, come fece quel Tonino. È una scena orrenda quella che hai descritto. Che fatico a immaginare. Che roba!
“Da quel giorno ebbero sempre palloni in quantità. Senza dover pagare nulla.” – un sant’uomo, quel Porcello! Come gli avremmo voluto bene! La nostra fregatura era d’aver un po’ di soldini (grazie alle paghette domenicali). Essi non ci consentirono (quasi) mai d’essere dei furfantelli.
A noi pure succedeva di dar fastidio agli adulti, incorrendo in occasionali insulti da parte loro, per cui, se il pallone andava a finire in un orto, si correva a pigliarlo e poi si scappava via, senza farsi vedere per il resto del dì. Ricordo quell’anziano condomino come ci gridava dietro, mai o quasi senza ragione. Nato a inizio secolo, si spense una trentina d’anni fa.
“Tutti i ragazzini di Napoli ricevevano rimpoveri, urla, scapaccioni per qualche guaio fatto con il pallone…” – ma non a tutti capitava ciò: non a quei quattro. Cosa avevano di diverso? Cosa li rendeva intoccabili? Chi li proteggeva?
“E i quattro volevano solo giocare, giocare sempre.” – non erano differenti da noi in questo.
“Per i ragazzi essere pali significa poter vivere giocando a pallone. Per il clan giocare a pallone significava poter vivere mentre i ragazzi facevano i pali.” – regole semplici, logiche, perfette.

Non era una cosa sublime, ma aveva il pregio d’essere chiara, come il seguente pensiero: “Le pene della camorra sono certe e immediate, a differenza di quelle dello Stato.” – in quel luogo a vincere lo scudetto era sempre lei, mai Lui. Anche qui, a prescindere dalla maiuscola, vincevano i più forti, non i più giusti. Quel che differenzia le varie società umane è la percentuale di marciume nelle istituzioni sociali. L’alternativa è sempre la stessa: o ti adegui o ti ribelli, coi rischi annessi e connessi.
Poi da te succede un casino, che non è facile sintetizzare. Non ne ho neanche voglia. Riporto questo: “Giovanni iniziò a correre, mentre Rino, come se lo stesse lanciando in attacco urlava: ‘Vai, Giova’, vai, vai vai…”
Ogni cosa, in un modo giusto o infame, non so che dire… alla fine si sistemò. Né troppo bene né troppo male. Come doveva essere. L’in-giustizia umana trionfa sempre. Non pareggia mai. Passa sempre il turno. Vince tutti gli scudetti e le champion. Trionfa ogni volta. Inevitabilmente.
Dario: “Dallo zaino tirò fuori il Super Santos. E cominciò la partita…” – con un’unica regola: pensare e giocare solo per se stessi.
La sua tragica fortuna, a cui forse ogni tanto pensava, era d’essere altrove: “… a Roma. Era andato via da Napoli, via dal quartiere, via da tutto.” – ove era quasi del tutto estirpata la radice della sua anima. Quasi.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Roberto Saviano, Super Santos, Feltrinelli, 2012

