Contest di poesia e racconto breve “Conversazioni poetiche – Terza edizione”

“La poesia malinconica e sentimentale è un respiro dell’anima.” – Giacomo Leopardi

Contest Conversazioni poetiche Terza edizione
Contest Conversazioni poetiche Terza edizione

Regolamento Contest “Conversazioni poetiche Terza edizione”:

1. Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Conversazioni poetiche Terza edizione” è promosso da Oubliette Magazine, dagli autori e dalle autrici dell’antologia e dalla casa editrice Tomarchio Editore. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.

La partecipazione al Contest è gratuita.

Tema libero.

 

2. Articolato in due sezioni:

A. Poesia (limite 100 versi)

B. Racconto breve (limite 1000 parole)

 

3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.

 

4. Premio:

N° 1 copia del libro “Conversazioni poetiche Terza edizione” degli autori Fabio Soricone, Franco Carta, Gabriella Mantovani, Ilse AtzoriItalo CappaiMarcello Comitini, Marco Leonardi, Maricà, Oswaldo Codiga, Rosario Tomarchio, Teresa Viola ed edito ad aprile 2025 da Tomarchio Editore. Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.

 

5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 24 agosto 2025 a mezzanotte.

 

6. Il giudizio della giuriaè insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:

Alessia Mocci (Editor in chief)

Franco Carta (Poeta e scrittore)

Giovanna Fracassi (Poetessa e scrittrice)

Carolina Colombi (Scrittrice e collaboratrice Oubliette)

Rosario Tomarchio (Poeta ed editore)

Antonietta Fragnito (Poetessa e scrittrice)

Maria Carmela Dettori (in arte Maricà, poetessa e scrittrice)

 

7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.

 

8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.

 

9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook.

 

10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.

 

11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.

 

Buona partecipazione!

 

77 pensieri su “Contest di poesia e racconto breve “Conversazioni poetiche – Terza edizione”

  1. “MPARADISA LA MIA MENTE

    Hai osato la mano di granchio
    miagolatrice sulle ginocchia,
    leccando le mie crepe.

    Nel caldo caravaggesco
    mi dicevi
    guarda i lombi delle colline
    sembrano il mare
    alle otto di sera – virgole
    chiuse / il sole
    in mano
    per non soffocare.

    Insieme ai voli di uroboro
    brucio come Beatrice:
    un cerchio si chiude,
    luce purpurea
    di donne millenarie.

    Sara Cancellara
    Accetto il regolamento, sez. A

  2. Il mio mare dentro.
    E mi sorprendo ancora di come sai cambiare
    diverso ad ogni onda, eppure sempre uguale.
    Hai corrente profonda come anima e cuore
    hai sentimento, fai male e spesso anche timore.
    E talvolta io osservo la tua immensità bagnata
    la tua ira impetuosa, la tua voce pacata
    che sferza, ruggisce, si adira ed accarezza
    ed improvvisa travolge e poi disprezza.
    Ma sei anche la pigra e tenera risacca
    ed il dondolio ritmato delle onde,
    sei dolce amante, ti insinui fra le fronde,
    fra pietre e granelli di sabbia e rena calda
    sei un’immensa, deserta e sconfinata landa.
    Nei tuoi abissi silenziosi e fatti di mistero,
    c’è tutto l’universo ed un inferno nero
    di cavallucci e telline, sei libero e fluttuante
    come un bianco gabbiano con le ali stanche
    che vola e vola e combatte nonostante il vento
    ma tu sei sempre e soltanto il mio mare dentro.

    accetto il regolamento, sez. a

  3. Ti voglio regalare…

    Nasce dentro mio cuore
    un forte desiderio
    di regalarti un’emozione.
    La mia anima si sveglia
    ancor prima che spunti il sole.
    Non ci saranno più segreti
    ti mostrerò  tutte le spine
    che ancora oggi mi fan soffrire.
    Fermarti
    ad osservare
    i miei occhi
    sono il riflesso
    senza fine…
    della mia vita
    e del mio dolore.
    Allora sì
    che saremo uniti
    di volare in spazi infiniti
    Perchè la verità
    ci rende
    liberi
    di guardarci
    con occhi sinceri
    ed aprirci senza misteri.
    Abbracciami allora
    amore mio
    e tienimi forte la mano.
    Disegna per noi un cammino
    che sia  dolce  per davvero.
    Amarsi in fondo è un destino
    che non sempre si può  realizzare
    se non riesci ad aprire il tuo cuore.

    Accetto regolamento sezA

  4. La legge del cosmo

    Ed il tuo roseo naso inspira
    aere salmastra, mentre ronza una
    mosca sul diafano vetro cercando
    agognata libertà. Troverà
    la morte, come ogni cosa che vive
    nel cosmo, e cibo sarà per quel nulla
    che non si può né creare o distruggere.
    Sez.A Alessio Romanini Accetto il Regolamento

  5. PSICOPOMPO
    [Figura mitologica che svolge la funzione di accompagnare le anime dei morti nell’oltretomba.] Psicopompo= deriva dal greco antico-composta da Psyche(anima) e pompos(colui che manda).

    Oh Caronte,
    orrendo nocchiero dalla canuta barba e gli occhi che ardono di fiamme. Nella tua verde vecchiezza, con il danneggiato mantello lurido al collo annodato; tu traghetti dalle rive dell’Acheronte, che separa la zolla dei vivi da quella dei morti; le morte anime. Silenti, le conduci all’oltretomba se sono in possesso dell’obolo. Impaziente sei all’opra tua; e percuoti le alme con fatiscente remo, se tardano nel vascello ad entrare.
    Ed io? Io avrò l’offerta per entrare nel regno dei morti? Io che ho disprezzato la vita chiudendomi nel mutismo del cuore? Io, che ho allontanato sentimento per paura di soffrire?
    Pavida è la cute del caduco corpo e fragile il battito del petto. Giammai ho odiato, ho solo trovato malinconica gioia nell’esistenza; essenza delle cellule che partorì il grembo. Anche io sono creatura di questo tempo, dell’universo… Non ho obliato l’esistenza, solamente ho trovato l’essenza nella nostalgia. Sensibile è l’alma mia, che vorrei donarti quando Destino deciderà di strapparla dalla carne per sempre.
    Quale elemosina sarà necessaria per salire sul vascello? O resterò in balia del Lete? Ho sete delle sue acque, per dissetare quel penare che mi accompagna dall’infanzia e tormenta il mio onirico oblio.
    Non mi abbandonare Caronte! Portami sulla tua imbarcazione precaria, con le altre anime; e conducimi nell’Ade, così che io possa trovare la pace di questo mio spirto inquieto. Come molte alme su questa terra arida, ho sofferto. Forse non ho capito la vita o il mio Fato. Ero solo un bambino impaurito; or sono solo un uomo frale.
    Lasciami salire!
    Fammi la carità! Lungo la brulla esistenza ho sofferto fame e miseria. Sventurato io e chi ha vissuto vicino alla mia pelle. Il senno ho smarrito nel disturbo dell’umore, che ha reso meschina la mia vita.
    Piangi per me, Caronte! Come non ha fatto mio padre in vita, ma adesso odo echeggiare il suo lamento d’amore dove tu lo hai condotto; in quegli inferi sconosciuti e sinistri? O forse è una nuova rinascita?
    Nessuno può spiegare la Morte: la cessazione biologica delle funzioni vitali di tutto il creato. Forse essa è una madre dalle gelide braccia che accompagnerà lo spirito sulle tue sponde, oh Caronte; in maniera tale che tu mi possa condurre nell’oltretomba. Ogni creatura riuscirà a trovare l’infinita quiete.

    Sez.B Alessio Romanini Accetto il Regolamento

  6. CREDIMI QUANDO DICO

    Credimi quando dico
    che l’essere amati incondizionatamente,
    equivale alll’eternità che entra atraverso le anime congiunte.

    Credimi quando vedo
    brillare un diamante raro,
    equivale alla natura che modella le anime privilegiate.

    Credimi quando ascolto
    sussurri d’aria silenziosa
    nelle notti di plenilunio,
    equivale al destino che cerca anime per la procreazione.

    Credimi quando ero
    nell’ingnoto più assoluto,
    è come essere nudi davanti
    ad un plotone d’esecuzione.

    accetto il regolamento

  7. Non ci resta che la poesia

    Non ci resta che la poesia
    per parlare di noi.
    In questa vita
    che ci mette davanti
    solo guerra e violenza,
    differenze e rivalità,
    ci salveranno l’amore,
    i versi dei poeti,
    il sorriso dei bambini.
    E gli abbracci di chi sa
    cos’è la solitudine.
    Non c’è che la poesia
    in noi.

    © Daniela Giorgini – Sezione A – Accetto il regolamento

  8. CINZIA PANUCCIO
    ACCETTO IL REGOLAMENTO SEZIONE A
    CUORE DI CRISTALLO

    Ho un cuore di cristallo
    che soffoca ogni battito
    nei tuoi grandi occhi smeraldo,
    un freddo rabbioso pungente
    avvolto tra fiamme violente di odio
    lo gela ripetutamente.
    Ho un cuore di cristallo
    mosaico di frammenti
    specchi rotti e sogni evanescenti,
    dialoghi sbagliati, falsi labirinti
    talismani di ricordi e fatiscenti fallimenti.
    Spezzata, frantumata in mille pezzi
    da un amore che non mi merita e mille patimenti
    una distruzione morbosa di addii e ripensamenti.
    Ho un cuore di cristallo
    un grido che lacera il silenzio copre il frastuono del mondo
    e tu ti aggiri nella mia anima adiaforo come uno sciacallo
    così si avvolge l’abisso e tolgo la parola amore dal mio piedistallo.
    Una vendetta che esplode sottile
    un’arma che supera ogni confine,
    un amore che esce dalla porta
    ma rientra dalla finestra tutte le mattine,
    come piccoli pezzi rari tra le rovine,
    le mie debolezze letame
    oramai simulacri e concime.

  9. Ti porto a vedere
    la luna galleggiante,
    senza sprecare parole.

    Bastano il lamento dell’upupa
    e le luci di un aeroplano,

    Due bicchieri di carta
    colmi di vino dolce

    appoggiati al fresco
    bordo in pietra antica,
    come le mani che si sfiorano,

    mentre I nostri corpi si piegano
    sopra l’acqua ferma del pozzo.

    Sezione A, accetto il regolamento

  10. Inesplicabile vita

    Trama in seta,
    le sottili pieghe
    d’una mano schiusa,

    sulle tracce
    d’un destino complice,
    di scelte libere
    nel viver d’obblighi.

    Speranze ardenti
    lastricate d’equivoci,
    un’infinita commedia
    d’ombre cinesi,

    distese sulle mura spesse
    d’un tempio, il tuo mare,
    genesi folle
    di destinazioni e rotte.

    Avrei voluto,
    potuto,
    ma troppi han detto
    c’è tempesta fuori.

    Per tutti,
    perso tra le vele al vento,
    nell’attesa fragile
    d’un tempo migliore,

    per altri
    aura d’un mattino al sole,
    da un cilindro magico
    una realtà possibile.

    Succuba dei molti istanti,
    nel prestar dubbi
    ad ogni suo respiro,

    nell’inseguir,
    in frequenza d’onde,
    d’una vita, il senso,
    il suo profumo d’ignoto.

    Sezione A accetto il regolamento
    Antonio De Serio

  11. Magna amicitia

    Ti parlo, tu parli
    parli coerente, costante corretta

    corretta, convincente che critica lo sbaglio
    sbaglio che sembra un abbaglio

    abbaglio che caglia, che raglia e sparisce poi piano,
    piano che sale come un’intesa,

    intesa che tiene, che tende, che tesse,
    tesse temendo amari silenzi

    silenzi che non sono carenze tra due temerarie presenze,
    presenze vive, vicine, vigili,

    vigili al dubbio, mai sollevato dal subbio, ma cieche a quel torto,
    torto tronfio che torce, che tracima, ma non straccia il tempo,

    tempo trascorso a tribordo che regge la trama,
    trama che lenisce ed unisce in un nodo quel dono,

    dono che resta anche quando si va.

    L’amico c’è, anche quando si va.

    Angela Maria Malatacca
    (Sezione A – accetto il regolamento)

  12. Nostalgia.

    Cuore di aliante
    che vola attraverso il sogno
    oltre gli attimi inaspettati
    diluiti nel presente
    incastonato tra le pieghe
    della tua Anima.
    Emozioni e sensazioni infinite
    scorrevano in quei momenti
    della realtà trasfigurata dal sogno.
    Ed è già nostalgia
    racchiusa come gemma preziosa
    nell’involucro perlato
    della tua esistenza
    di là di una nuova realtà
    ancora da vivere.
    Va la tua vita
    su lucide rotaie
    nello sferragliare dei giorni
    fino al prossimo attimo inaspettato.
    dopo…
    sarà ancora nostalgia.
    Lucia Cristina Lania
    Sezione A – Accetto il regolamento

  13. Il treno delle anime

    Notte oscura.
    Tappeto di stelle, piccoli fari guida.
    Musica spensierata che fugge da una finestra in lontananza.
    Gli occhi accompagnano il treno della città nel suo viaggio silenzioso, cullando anime stanche e misteriose.
    Osservo questo quadro.
    I pensieri si accavallono senza sosta.
    Il buio nasconde e imprigiona le nostre vite, in attesa di essere svelate alla prima luce dell’alba.

    sez. b accetto il regolamento

  14. Maria

    Maria pesante come una ruspa
    coi tanti chili cuciti addosso,
    Maria la perfezionista
    circondata da una corona di purezza,
    e idee dritte come soldatini
    accanto alla teca del bene e del male.

    Maria che è troppo tardi,
    che gli anni passano come fiori,
    che il fuoco che hai dentro
    è ormai ghiaccio, fuori.

    Maria che sei ormai una caverna
    di rimpianti,
    privata persino di Gesù Bambino
    perchè quella stella, fuori,
    si è fatta opaca come i tuoi amori.

    Maria sepolta nelle chiese
    Maria portata in processione
    Maria che nemmeno hai urlato
    lì, in quella grotta, al freddo e al gelo.

    Maria che ora sei qui,
    perfetta come nessuna madre,
    come nessun odore,
    come nessun dolore,
    come nessun amore.

    Maria che ti hanno fatto gli occhi
    verso il dio invisibile,

    me lo hai detto tu
    in un momento di debolezza
    che non guardi lui
    e nemmeno Gesù bambino

    io so che tu
    guardi solo la luna,
    sì, la luna,
    tu, Maria, aspetti solo la luna…

    sez. a accetto il regolamento

  15. Vorrei vedere …

    Accendere il falò dei sogni
    per scaldarci un po’
    nell’oceano in cui si è
    lanciato un sassolino

    Vorrei vedere oltre la siepe
    per spaziare con lo sguardo
    per sapere sempre di più

    Fare ritorno al nucleo primigenio
    con la conoscenza antica

    Dall’epicentro i cerchi concentrici
    si allontanano da questa esistenza
    sempre più senza senso

    antonio Pittau
    accetto il regolamento, sez. a

  16. Emanuela Barattino

    La casa che aspetta

    C’è una casa che non dorme,
    anche quando chiude le imposte.
    Respira piano,
    con il fiato lungo dei ricordi.

    Non conta gli anni,
    li custodisce.
    Li intreccia tra le travi,
    nelle pagine fragili dei quaderni,
    nei graffi sui mobili
    che parlano tutte le lingue
    di una famiglia dispersa nel mondo.

    È piena di cose che nessuno ha buttato,
    di sogni appesi a un chiodo,
    di bici ferme,
    ma pronte a partire.

    Ogni oggetto ha un nome che non dice,
    ogni stanza ha parole sussurrate
    che solo i muri ricordano.

    E lei,
    la donna che la apre e la chiude,
    che lava le stoviglie
    come si lava il cuore,
    ci entra ogni volta
    come si torna da sé.

    Perché certe case non sono luoghi,
    ma promesse.
    E certe promesse,
    restano in piedi anche da sole.
    Ad aspettare.
    In silenzio.
    Con amore.

    accetto il regolamento, sez. a

  17. “Scenari”
    Quanto largo
    prestato
    agli scogli dei cieli.
    Vedere l’ombra,
    il limite acuto
    e l’ansia,
    opaca
    del riemergere a vita
    dentro toni migliori.

    Sez.A accetto il regolamento.

  18. Accetto regolarmento sez. A

    Fratelli d’Italia
    (Tra Risorgimento e Romanticismo)
    E dall’oscurità sopravviene
    uno spicchio di luce
    danza alle note d’un pianoforte
    ché la malinconica nenia
    accarezza gli orecchi.
    Il sogno mio stellato
    vien tessuto su una trama
    odorosa, d’erba bagnata
    su cui seggo le membra, rinate
    a nuovo spirito.
    Confuso m’affaccio a sconosciute inquietudini
    a oltrepassare la ragione d’un tempo andato…
    Lascia le briglie, donandomi
    spasmi folli e passione.
    E in tal cinguettio di contrasti
    a discernere bellezza
    amor per la mia patria d’assoluto
    infinito
    a girovagar m’appresto
    nell’oltre
    che s’innalza sul pane che
    mi sfama la bocca e
    non di certo arsa anima.
    Un dolore m’attraversa a purificare
    stoltezza umana, ne gioisco
    per il fine ultimo, l’ultima
    burrasca…
    Il mio Dio terrà da conto!
    In questa terra di santi, eroi
    sobillatori
    come naufrago m’accheto
    al sole morente
    ch’ancor palpita la meraviglia
    d’un mare
    che sana e consola, d’innocente
    amore.
    Nuova storia in passione
    scavalca le rigide mura
    a non più subir restrizione
    e formali gesta…
    E poggio l’anima al fiato di chi
    mi ha preceduto.
    Tra un moto leopardiano e un sonetto
    dannunziano, arranca.
    E la linea orizzontale m’appare
    nel rosso fuoco, l’auspicio
    di nuova speranza di romantici
    afflati… sulle note del nostro
    inno
    “Fratelli d’Italia”.

  19. Accetto il regolamento sez. B.

    Le indagini del Commissario Carmelo Puzzanghera. La scomparsa dell’ing. Moretti.

    Il Commissario Carmelo Puzzanghera sentiva ancora gli effetti di una modesta sbornia. Era stato la notte precedente in casa del collega Aurelio Galliani per festeggiare la di lui promozione a questore. Lui invece aspettava ancora quella che era diventata una tardiva promozione ma, anche se sperava, non sarebbe giunta tanto presto. In paradiso i santi erano in disaccordo e davano credito alle istanze di certe autorità che volevano un Puzzanghera ibernato ancora per qualche anno. Il commissario aveva risolto dei casi, ma solo perché gli indagati avevano acconsentito a confessare tutto, pur di non ascoltare quell’uomo dal forte accento meridionale che li angosciava con le ripetute domande, senza smettere di fumare. Sapevano che avrebbero trovato persone comprensive all’interno di una cella e speravano ardentemente di vedere il sole solo nel cortile del carcere durante l’ora d’aria.
    Carmelo Puzzanghera strinse gli occhi per il forte mal di testa e finì di bere la quinta tazza di caffè, nero e forte come piaceva a lui. Efisio Serra attendeva ordini da un bel po’, ma non voleva far incazzare quell’uomo che sembrava distrutto. Rigirava tra le mani una denuncia di scomparsa presentata dalla signora Annabella Moretti. Suo marito, l’ingegnere Osvaldo Moretti, era assente da casa da tre giorni e non aveva dato notizie di sè. La donna attendeva di essere ricevuta dal commissario, dopo che era stata consigliata di rivolgersi a Puzzanghera quale esperto nel ritrovamento di persone scomparse. Il commissario Anselmo Scanagatti nel suo ufficio rideva a crepapelle al pensiero che la donna non avrebbe ritrovato il consorte, grazie a Carmelo Puzzanghera. Il commissario aprì gli occhi e intravide Serra che lo fissava col solito viso da ebete.
    -Che c’è Serra? Sei in stato catatonico? Eh parra, se hai quaccosa da dire!
    -Commissario, una signora aspetta di parlare con lei.
    E gli riferì brevemente il motivo della denuncia. Carmelo Puzzanghera maledì la signora e il marito che aveva deciso di sparire…
    -Serra!
    -Comandi!
    – Unnè u commissario Scanagatti? Sa sta ciusciannu? Non se ne poteva occupare iddu?
    – Ha un rapporto urgente da consegnare al signor questore. Così mi ha detto di riferirle.
    – Uoggi non iè iurnata ! E fai entrare sta’ signora Moretti!
    La donna aveva circa quarant’anni, alta, flessuosa come un giunco,avvolta in un cappotto di cachemire rosso, due occhi grandi e arrossati dal pianto.
    Si sedette appoggiando la schiena alla spalliera della sedia e portò al naso un fazzoletto di seta color viola che sparse per l’aria una fresca fragranza di profumi d’oriente.
    Il commissario ebbe la sensazione di riprendere i sensi e si rialzò dal sedile della poltrona per darsi un contegno.
    – Commissario…mi è stato riferito…che è stato ritrovato un cadavere non identificato nel fiume…nei pressi della località Cascina Pizzulla. Mi scusi, ma…non posso trattenere… le lacrime al pensiero che quel corpo sia di mio marito.
    La donna pianse amaramente, senza potersi frenare. Poi si fece animo e riprese a parlare.
    – Temo che si tratti di lui…sa…è scomparso da tre giorni.
    Il commissario pensò che quella bella donna sarebbe di certo piaciuta a sua madre e fantasticò un po’ prima di rivolgerle una domanda : – Mi può dare qualche indicazione che ci aiuti a identificarlo? Sono scomparse alcune persone e sono stati ripescati due cadaveri di sesso maschile dalle acque del fiume.
    Efisio Serra attendeva alla tastiera del computer e fissava davanti a sé la parete come se vedesse la foto del morto.
    Il commissario sentì il bisogno di aprire la finestra per respirare a pieni polmoni e, mentre stava per alzarsi, la signora Moretti rispose,frenando le lacrime che avevano sciolto il trucco dei begli occhi blu : – Ce…certo, commissario, è daltonico e… parla… con un forte accento veneto…
    Serra si domandò che volesse significare ” daltonico”. Tentò di trovare una risposta, fissando il soffitto della stanza.
    Carmelo Puzzanghera respirò profondamente e si ricredette al pensiero passeggero che quella donna sarebbe davvero piaciuta a sua madre.

  20. Accetto il regolamento sez. A

    A sorbire gocce di fiele

    Arrota come denti di drago
    la tua indole molesta
    nelle sere di luce
    tarda a svanire
     
          …
    per miracolo la luna scende
    a sorbire gocce di fiele
    in una sorta di danza
     
     amore traslucido e gaio
     
          …
     
    trascura la messe dei baci
    incantati a buon rendere
    corpo snodato dai desideri
    senza rintocco d’ore
     
         …
     
    sgomina la tua indifferenza
    il mio parco sentire
    ergesi il monte a difesa
    della vulva che morde
     
        …
     
    ride la notte all’ infausto aspetto
    ricorda che amo il dolore dell’odio
    mi sfrondo di aghi silvestri
    quando sei nuda.

  21. La creazione del piacere Sez A

    Ho fatto l’amore con te,
    con le tue vene,
    col fiato corto
    di chi non si trattiene.

    L’ho fatto di giorno, di notte,
    con lune piene.

    Sui fianchi, le braccia
    e sulla schiena
    imprimo il mio nome
    legandoti al cuore
    con umile catena.

    E cerco la tua bocca
    a prima sera
    chiamandoti per nome senza tregua,
    su alberi fioriti e campi incolti
    dove la mia passione mai s’acquieta.

    Sarà il silenzio della notte,
    quel docile brusio dell’assenza
    a rendere felice il mio patire
    negli angoli smussati del piacere,
    su scale verticali da salire.

    Accetto il regolamento

  22. Kreutzer
    Non fu per gelosia,
    anche se così parve.
    Non per onore, anche se la società
    avrebbe accettato quel movente
    come una forma rozza di giustizia.
    Fu per qualcosa di più sottile,
    più miserabile:
    la consapevolezza improvvisa
    che tra me e lei non vi era mai stato amore,
    ma solo un accordo sociale,
    un’educata ostilità.
    E quando arrivò quell’uomo,
    il musicista,
    non fu il tradimento a ferirmi
    ma la rivelazione:
    lei poteva essere viva,
    in sua presenza.
    E mai lo era stata con me.
    La sonata che suonavano insieme
    quella, sì,
    fu la prova che mancava.
    La musica,
    che avrebbe dovuto sublimare i corpi,
    li univa in un linguaggio
    che io non potevo comprendere,
    ma che riconobbi pericoloso.
    Pericoloso perché vero.
    E allora la mano cercò il coltello
    non per vendetta,
    ma per paura.
    Per l’impossibilità di sostenere
    quella verità silenziosa
    che la musica stava dicendo
    al posto loro.
    Alla fine,
    non ci fu giuria che mi capì.
    Nemmeno Dio,
    se davvero ascoltava.
    Ma io lo so:
    non ho ucciso per gelosia.
    Ho ucciso per difendermi
    dal pensiero
    che l’amore esistesse
    senza di me.

    Accetto ogni clausola del regolamento, sez- a

  23. 1-Viaggio nel tempo e fra le note

    Parte della mia vita era legata a Genova. Come territorio, per aver svernato parecchi anni a Santa Margherita e aver frequentato scuola a Chiavari. Come cultura, per il grande feeling con i cantautori della scuola genovese. Primo fra tutti Gino Paoli e di seguito Luigi Tenco e Fabrizio De Andrè. Tutti amati e consumati grazie a quegli ascolti profondi, interiormente sofferti; circondati, io e Giulio, nella sua stanza-impianto stereofonico, da una sequenza infinita di emozioni, a volume altissimo, pazzesco.
    Impianto che si era costruito da solo, far da sé elettronico-hifi, di grande talento da autodidatta(soloqualche lezione con la scuola per corrispondenza Radio Elettra) che mi lasciava sempre ammirato e sbigottito.
    La sua amicizia, esclusiva, mi permetteva di godere di un ascolto eccezionale. Di giorno, nelle ore possibili ammesse dal vicinato, immersi nella tensione violenta di musica e versi che ci frastornavano, impossibile parlarci, solo gli sguardi di muta consapevolezza. Sprofondavamo nella nostra personale egoistica tristezza masochistica assaporando le parole di “Non andare via” e di “Vivere ancora”.
    Entrambi vittime ignote di un mondo già molto ostile, che ricacciandoci ogni giorno di più nel nostro angolino di sofferenza, a causa del nostro “problema”, ci spingeva ad odiarlo. Il mondo e il genere umano, tutto troppo falso, cattivi, vuoti, ipocriti, poveri di qualità, insensibili. In una parola non ci meritavano, noi che eravamo su vette eccelse di sensibilità e di sofferenza auto gratificante.
    Solo Gino Paoli, poi Tenco e infine Fabrizio De André erano degni della nostra attenzione, ed erano i nostri miti e punti di riferimento.
    Costanti approdi, sicuri e palpitanti nei lunghi momenti in cui la crisi scoppiava improvvisa e impudente, inesorabile nella sua sequenza, spesso innescata per contagio da uno all’altro, fino all’acme della chiusura a riccio nella propria disperazione sorda, a cui faceva seguito il richiamo imperioso a sprofondare nell’ascolto della musica catartica.
    Poi ci fu Tenco e quella notte di gennaio 1967 in cui Luigi la fece finita, concretizzando, lui nei fatti, la nostra ipotesi che nei momenti più bui ci si affacciava come eroica soluzione. Il suicidio, un tema che ogni tanto affrontavamo con mille disquisizioni, che ci affascinava e nel contempo, senza confessarcelo, ci terrorizzava. Un finale da film nella nostra vita così poco spettacolare, così nell’ombra, segnata dall’indifferenza con cui gli altri, il prossimo, i familiari vivevano tranquillamente al nostro fianco, senza accorgersi di niente. Del resto, era la conclusione auto confortante, nessuno poteva capire il nostro dramma.
    Il mio, quello di essere incapace con le ragazze, imbranato, tagliato fuori da ogni possibile rapporto, vergine e disperato per non aver neanche mai baciato, atterrito all’idea di non saper come fare, perennemente pronto a innamorarmi o infatuarmi di qualcuna, impossibile, irraggiungibile, perché quasi sempre già impegnata.
    Giulio, con il dramma di avere l’interesse sessuale deviato, di essere attratto dai maschietti, malgrado lui fosse, nella sua virile beltà, oggetto di spasimo da parte di ogni ragazza che venisse a tiro. Era dovuto al fatto di aver trascorso molti anni chiuso in una comunità-ospedale, gli anni della pubertà, per un problema di malformazione ossea congenita, che gli aveva procurato, dopo infinite operazioni, un accorciamento lieve, ma percettibile di una gamba, e sul piano emotivo un’attrazione puramente estetica verso giovani efebi vagamente effeminati.
    La menomazione, pur sopportandola con grande orgoglio, era ulteriore motivo di sofferenza.
    Il suicidio di Tenco quindi, e la nostra stupida rabbia, il giorno dopo, la muta solidarietà con quel gesto supremo che altro non era che uno schiaffo in faccia al mondo meschino che non l’aveva accolto come avrebbe dovuto.
    E nella musica assordante in cui c’isolavamo, ora avevano lungo spazio le parole “mi sono innamorato di te perché non avevo nulla da fare”.
    Di Luigi amavamo molto anche “Come mi vedono gli altri” e “Ragazzo mio” e in ogni sua canzone, anche la più leggera, cercavamo i segni della sua mirabile sensibilità. Poi arrivò quella perfetta dedica di Fabrizio che è “Preghiera in gennaio”: Signori benpensanti/spero non vi dispiaccia/se in cielo, in mezzo ai Santi/Dio, fra le sue braccia/soffocherà il singhiozzo/di quelle labbra smorte/che all’odio e all’ignoranza/preferirono la morte”.
    Malgrado l’accenno a Dio, che già decisi atei cominciavamo a non sopportare, questo testo divenne un preciso tassello nel nostro percorso evolutivo fra le note e i versi, che non ci avrebbero mai abbandonato.
    Ma l’acme di questo percorso, quando già avevamo incominciato a provare un piano più propositivo e meno introverso, cercando motivi e occasioni di uscire dal nostro guscio per scontrarci duramente con la realtà di possibili nuovi rapporti, fu l’ascolto, la prima volta, del disco “Tutti morimmo a stento”.
    Ricordo che Giulio mi chiamò, come era solito fare, da casa sua, fuori sulla ringhiera, il che voleva dire che era solo e si poteva dare fiato all’impianto. Mi precipitai, ma appena entrato nella stanza dell’oblio, così come la definivo, lui mi fece un cenno di silenzio con un dito sulle labbra, tanto che pensai che ci fosse ancora in casa sua madre.
    Invece, con la solita calma e precisione fece partire il giradischi, su cui già c’era un long play, e mentre si lasciava cadere nella sua poltrona preferita, anche perché era l’unica mentre a me toccava un puff scomodissimo, per cui preferivo sdraiarmi sul tappeto, la musica cominciò a invadere l’atmosfera salendo gradatamente con un motivo dolcissimo fino a quando la voce inconfondibile di Fabrizio iniziò a recitare una di quelle sue poesie in rima che ti obbligavano a un’immediata riflessione.
    E stava dicendo che aveva licenziato Dio, inizio molto promettente, più che confermato dal dipanarsi del testo bellissimo. Inutile dire che quel disco lo ascoltammo in un profondo silenzio, scambiandoci le solite occhiate di compiacimento e di partecipazione.
    Ogni pezzo risultava più sorprendente del precedente, la musica e l’arrangiamento sembravano di un altro pianeta, i testi scavavano nell’intimo dei problemi più accesi che in quel tempo si potevano affrontare, una vera bomba!
    Alla fine, quando la puntina sul giradischi iniziò a gracchiare perché non riusciva a bloccarsi, piccolo problema che Giulio, con suo gran cruccio, non riusciva a risolvere, restammo per lungo tempo ammutoliti, nel gran silenzio che era piombato intorno a noi, scioccati come pugili suonati da una gragnuola di colpi terrificanti.
    Ancora oggi, quando ascolto “Tutti morimmo a stento” mi riprende il ricordo di quelle sensazioni indescrivibili della prima volta, e il viaggio nel tempo ricomincia.

    Accetto il regolamento
    sez. b

  24. Accetto il regolamento – sez. a

    PAPÀ TI HO VISTO
    Papà ti ho visto stamattina,
    nel riflesso del caffè,
    nella cravatta che amavi.
    Ti ho visto nel rumore
    delle chiavi della porta
    come se fossi tornato.
    Ti ho visto.
    Non sei andato via, papà.
    Hai solo cambiato indirizzo.

  25. Accetto il regolamento
    sez. a
    Il tuo riposare
    (poesia dedicata a mio padre – 15.04.1915 / 14.01.1974)

    Attorno é tutto silenzio,
    solo il cancello cigola
    ed io entro con passo leggero …
    La ghiaia sparsa sul viale sotto i miei passi
    si muove e si sposta …
    leggermente scricchiola …
    Ai lati del sentiero é tutta una serra fiorita,
    qui tutti riposano.
    Al mio passare di sicuro essi mi vedono,
    e forse mi riconoscono …
    Qualcuno, sotto voce per non disturbare, mi saluta …
    Qui c’é un senso di pace totale …
    Su una lastra di grezzo granito
    un volto mi sorride …
    Da molti anni ormai tu qui riposi …
    E’ così che io ti ricordo :
    caro papà, tu eri buono e sorridente
    e quando il tuo volto si faceva serioso
    questi ti rendeva falsamente burbero …
    E’ così che ti ricordo, caro papà,
    tu eri sì serio, ma sempre buono e felice …

  26. Accetto il regolamento
    Sez. A

    Squarciai il cielo

    Squarciai il cielo allo scossone
    brusco del dì presente,
    sotto una quercia ad alto fusto
    abbandonai i miei pensieri lungimiranti.

    Strappai gli ultimi brandelli
    di corpo al doloroso petto,
    che da lungo tempo mi corrose
    silente la corteccia cerebrale.

    Sradicai il ceppo dell’albero
    di leccio come un nodo a cappio
    sollevai lo sguardo all’orizzonte
    e strinsi in una morsa il riverbero.

    Squarciai il cielo allo scrollone
    repente del sole cocente,
    sotto le luci fiammanti del giorno
    albeggiai i miei ricordi stritolanti.

  27. sezione a
    esplosione di vita

    ho percepito il peccato come la fine colorata di lacrime
    o marmorea pietà di Michelangelo scalza di esclamativi
    brucio l’amore appassionato tra il silenzio delle gambe di una donna
    esplode la scia delle stelle ferite dal veleno di un serpente
    vedo un quadro di Caravaggio con uno sfondo sfinito di vita
    bellissimo miracolo di una vita sgocciolato di una purezza
    tormento bruciato di dolore
    o infinita matrigna Eva con i seni aperti al sole
    vivo un ombra svilita di un silenzio colorato di morte
    ho baciato le labbra di una rima di una donna piegata
    esplode la cometa bagnata di sorrisi
    nuvole trafitte da un sole che veleggia
    esplode l’affermazione di una donna

  28. PAESAGGIO COSMICO

    Tra stuoli di molecole
    e roteare d’atomi
    Vibra il cosmo
    Una cascata d’anime
    Freme.
    Brilla.
    Cambia rotta.
    In questo teatro di galassie
    Dove campi quantici e spazio interstellare
    fluttuano
    Particelle onde quark
    archetipi della forma
    intrecciano danze.
    La pupilla si delizia,
    nel blu profondo s’immerge.
    Una danza atomica
    dalle pulsazioni cromatiche
    sulla scena dilaga.
    Cade luce ed è colore!
    Si turba e palpita l’anima
    allorché nella veste scarlatta
    L’etoile Antares si mostra.
    E’ silenzio d’organza.
    Contemplazione.
    Finché.
    Sciame di fotoni
    esplode.
    Serenella Menichetti

  29. ISTANBUL

    Notte blu. Il Bosforo blu. Il tuo vestito blu.
    Solo il biancore della luna e quello perlaceo del tuo seno illuminano questo silenzio blu.
    Sei seduta sugli scalini di un edificio di questa città magica, da sempre ponte tra Oriente e Occidente e, aspetti.
    Un gatto scuro, forse blu, miagola per la fame. Ahmet, non è venuto.
    Vi eravate conosciuti all’Università, in un modo troppo banale: lui ti aveva riportato la stilo che avevi lasciato sul banco.
    Poi vi eravate incamminati insieme, conversando. Fino ad arrivare in quella piazza, piena di gente, dove le poliziotte invece di manganelli e mitra, portavano in braccio mazzi di fiori.
    Ne avevi sentito il profumo che ti aveva inebriata. Gli occhi di Ahmet erano preoccupati, non ne capivi il perché. I tuoi radiosi.
    Da quel momento i vostri tempi si uniscono e, volano insieme.
    “Volare.” Spesso gli cantavi la bella canzone italiana, intonandone il ritornello: “Nel blu dipinto di blu” Lui rideva quando la cantavi.
    Mentre lo aspetti, il silenzio è infranto da un trambusto. Vedi sfilare davanti a te una serie di camionette della polizia. Sono blu, come il colore di questa notte che trasmuta e che adesso, ti fa rabbrividire. Ti infili un golfino.
    L’urlo ritmato e intermittente di un mitra assale all’improvviso la quiete. Un odore pungente di polvere da sparo cancella il lieve ricordo di fiori profumati.
    Ti alzi, barcollando, aggrappandoti a quel blu, che si scioglie e lentamente cade lasciandoti spoglia e sola, in un luogo che adesso non sembra avere più nessuna parvenza di magia.
    Dopo pochi passi concitati ti ritrovi nel vicolo:
    Ahmet, giace a terra, i suoi occhi spalancati portano dentro l’ultima porzione di quel magico blu di quella strana notte. Mentre i tuoi occhi incontrano il rosso scarlatto del suo sangue, annegandovi per sempre.

    sez. b accetto il regolamento

  30. La ricerca della Neshamah, la mia nascosta anima
    La spiegazione dello sciamano riguardo la mia inquietudine, dal sentimi qui ora e nel contempo in posti e tempi diversi, non sembravano averlo impressionato. Solo un guizzare di lampi nei suoi occhi pareva segnalare comprensione. Per pietà dei miei occhi supplici, iniziò la ricerca del nascondiglio della mia Neshamah. Il Maestro la sera cantò, con le forti mani mi frugò il corpo, entrò in me e poi retratta la destra dal mio cuore, intraprese il viaggio magico.
    Io, come morto apparente attesi. Infine, quando apparve la prima luce egli tornò. Parlò:
    “Lei è dentro di te. Non cercare una luce per illuminare la ricerca fuori te, illumina dentro di te.
    La tua Neshamah non è nascosta fuori. Nella disarmonia l’hai persa, nella armonia la ritroverai.”
    Dallo stupore sul mio viso, il Maestro, da sciamano sapiente, capì che le sue parole non avevano illuminato la mia comprensione.
    Lo sciamano si riavvolse nel mantello di piume di corvo che lo aveva coperto e scaldato nel viaggio magico, accese la lunga ricurva pipa e ispirò lo stordente fumo delle foglie di canapa. Poi riposta la pipa sul supporto di avorio, prese il tamburello sacro. Ero tutto teso in attesa, quando, battuta la membrana di pelle del tamburello con le nocche della mano sinistra, il Maestro riprese a parlarmi.
    Dapprima, per tutto il giorno, digiunando, cantò delle epiche lotte degli sciamani contro gli orchi. Poi mi rivolse queste parole:
    “Quali che siano tutti gli elementi e gli eventi che compongono questo Universo, siano essi corporei o incorporei. Siano cose solide o i ricordi che queste evocano in noi. Siano essi pietre che pensiamo eterne, immerse nel sonno dell’incoscienza. Siano anche sensazioni che esse ritrasmettono. Oppure, Siano quella vastità di percezioni che noi chiamiamo sentimenti. Ecco, il loro esistere genera in noi l’interrogativo di che senso abbia questo agitarsi sotto il sole.
    Anche gli animali si agitano, vivono una vita di sentimenti e non si pongono domande, o almeno noi non lo sappiamo. Ma noi, esseri umani, sicuramente ce le poniamo e il nostro agitarsi quotidiano è al tempo stesso domanda e risposta. Il semplice riconoscere questo, non soddisfa però la nostra ansia di capire.
    Questo continuo domandarsi, che per alcuni di noi diventa creatività, produce opere d’arte, che altro non sono che il tentativo di dare una forma corporea alle domande stesse, per afferrarle e capirle. Crea le religioni, le filosofie e perché no, anche le teorie politiche come prima risposta immediata e umorale alle domande stesse.
    Ma, se noi, esseri umani distogliessimo lo sguardo dal perché del nostro agitarsi per un qualche fine ultimo e invece ci concentrassimo sul semplice esistere, capiremmo l’armonia generale che si ripresenta in ogni essere, meglio, in ogni organismo, in ogni elemento dell’indefinito indefinibile che chiamiamo Universo.
    Guardiamoci intorno. Tutto si definisce per e attraverso il suo opposto, così che ogni cosa incorpora il proprio contrario nella quantità necessaria per completarsi e questo si definisce armonia. Che, come percezione di un Tutto indefinibile si estende ai sentimenti. Anche qui gli opposti, siano esterni che interni a noi, si integrano armonicamente. Le coppie amore – odio, simpatia – antipatia esemplificano quanto detto. Che cosa è l’odio se non una diminuzione della quantità o intensità dell’amore? Questa ricerca di equilibrio che dà valore a ogni atto, facendo partecipe l’armonia dell’Infinitamente piccolo all’armonia dell’Infinitamente grande è la risposta consolatoria a tutto il nostro agitarsi.
    Sappiamo di essere parte di questo Universo Armonico. E in chi crede nella Forza Creatrice, genera un senso profondo di gratitudine per Lei che si è diminuita per permetterci, completandoci in Lei di completarla e partecipare alla Ricreazione continua dell’Universo.”
    Onestamente non capii a fondo i ragionamenti del Maestro, ma mi sentii penetrato dal pensiero che mi faceva parte di un “Tutto” dando senso alla mia inquietudine.
    Ora basta disse lo sciamano. Batté le mani, calò nella tenda il buio, sentii il Maestro allontanarsi.

    Seziona B accetto il reolamento

  31. SEZIONE B – accetto il regolamento

    rOMEO E GIULIETTA A nEW yORK

    Erano passati anni e anni ed il libro di Alex e Grace giaceva ammuffito nel sottoscala della biblioteca di Harlem, New Jork continuava a vivere e a morire e le lapidi dei ragazzi erano vestite dalla penombra di quella fresca serata di primavera. A New Jork era rimasta Jeannie la mamma di Alex da quando i genitori di Grace avevano lasciato per sempre la Grande Mela diretti in Florida. Quella sera come tutte le sere del mondo Jeannie era la a curare con la sua anima le lapidi dei ragazzi con il peso raggrinzito di tutte le stagioni che si erano susseguite
    Avevano appena finito di sistemare i vasi con i fiori nuovi quando Elisabeth, che aveva permeato con la sua amicizia la vita di Jeannie, la aiutò lentamente a sedersi sulla panchina in fondo al cimitero. Jeannie pensò tra se e se: ” Dio quanto sono stanca” la ferita della perdita del suo Alex non si era mai rimarginata nonostante lei avesse deciso di aggredire la vita. Si era sposata due volte ed aveva partorito un altro figlio per cercare di andare avanti ma gli incubi di quel inverno passato non gli avevano mai dato tregua. E così che quella sera si ritrovò sola di nuovo ad Harlem di fronte a quella palazzina ormai diroccata. Era nato lì accanto un teatro tenuto da giovani che aveva rischiarato la notte di Harlem. Jeannie entrò ed ecco una luce abbagliante che proveniva dal palco tagliare in due il buio della sala. Stavano provando Romeo e Giulietta di Shakespeare e il volto di Jeannie si gonfiò di lacrime. Un soffio di voce si alzò dal palco: “ Ma piano………..” . Quelle battute le aveva sentite migliaia di volte da giovane ma il ricordo di quella breve primavera le aveva fatte rinascere nel suo cuore.
    Si alzò con tutta la forza che aveva in corpo e venne alla luce e d’ improvviso il regista urlò: ” Stoooooop chi è lei?” e la sua voce tagliò il silenzio della sala e degli attori .” Sono una donna”. E tutti si commossero. In breve fu circondata dalla vivacità e dalla gioia dei ragazzi che dovevano recitare e si trovò a chiacchierare con loro. Alla fine la presero per mano e la portarono sul palco: “ Raccontaci di te…….” “ Sono Jeannie Alex Alexander sono donna e madre, la mia vita è tutta un eccomi di gioia e disperazione, per una stagione ho avuto 47 anni come il mio Alex …………..il mio Alex ……e in un momento svenne su quel palco di legno. Quando si riprese era sorretta dai ragazzi che la avvolsero nel loro calore. E la loro energia fece ricrescere la voglia di raccontare di Jeannie: “ qui vicino venti anni fa abitarono i miei ragazzi il loro amore e le loro risate “ Ma qui c’è solo un palazzo diroccato non c’è più nessuno…… “ “ Per una stagione c’è stato l’ amore loro hanno vissuto il loro amore così senza prove”. Si salutarono con calore e da quel giorno Jeannie prese a frequentarli e loro la nominarono la nonnina mascotte del gruppo. Ed ecco che quel libro pieno di polvere fece la sua ricomparsa nella sala delle prove. I ragazzi divorarono le pagine consunte di vita e ne parlarono col regista: “ A noi Shakespeare non basta………vogliamo mettere in scena Alex e Grace “.
    Jeannie li ringraziò e da quel momento fu “ Romeo e Giulietta a New Jork”. Il fuoco della loro breve estate tornò a vivere nei loro cuori e nelle loro parole; i ragazzi si trasfigurarono nel loro amore divennero comici, divennero innamorati, piansero disperati e le notti che avevano unito le loro immense solitudini furono scritte ancora ed ancora. Ricordi il loro primo bacio così tenero sotto il pioppo nel viale di Harlem…….Jeannie accennò ad un sorriso che contagiò l’ intero palco che esplose in una fragorosa risata. “ Sembravano le risate dei ragazzi loro che graffiavano la vita ad ogni istante che ridevano in faccia alla gioia ed al dolore”…..
    Loro che erano scappati dalla tristezza dei genitori…..no non volevano farsi contaminare dalla sensazione di morte nel cuore che avevano i genitori…….si erano incontrati angeli in fuga in un giorno di agosto e si erano sposati in un quel viale con New Jork come testimone.
    Le prove divennero un calice in cui ragazzi bevvero vita per diventare umani ed i loro volti si raccontarono tormentati delle notti di disperazione in ospedale con la malattia che aveva consumato le ossa di Grace…… Si ritrovarono nel buio accanto al teatro a piangere senza motivo eppure non li conoscevano ma perché, perché? Fu così che i giorni si susseguirono e divennero mesi ed arrivò il giorno della rappresentazione. Jeannie era riuscita a fare il miracolo nonostante l’ immenso dolore i genitori di Grace erano tornati in quella città. La sala era piena di persone un po fastidiose sembrarono pensare i ragazzi la dietro un po impauriti dallo spettacolo e dall’intensità della storia. I genitori di Grace si sedettero in silenzio in un angolo proprio per non farsi riconoscere da Jeannie e da Elisabeth, il cuore si gelò per un attimo ripensarono a quando avevano dato l’addio alla loro Grace poi si calmarono e lo spettacolo iniziò. E come una magia riapparve New Jork e i bellissimi viali alberati che pullulavano di vita ci fu il momento in cui apparve Alex e ci fu un lunghissimo silenzio che accolse gli attori sul proscenio tutte le chiacchiere che c erano state fino a poco prima smisero e la trama della loro storia si dipanò con calma. Arrivò la notte in cui Alex e Grace si incontrarono bellissimi randagi della strada, mano nella mano camminarono fino a quando la stanchezza non li prese alle prime luci dell’alba, videro un palazzo diroccato e vollero addormentarsi esausti in un piccolo rifugio. Inprovvisamente arrivò un ombra sopra di loro era il portiere del palazzo un uomo di colore robusto ed alto deciso a cacciarli ma quando li vide abbracciati e baciati dall’innocenza lì lasciò così nel regno di Morfeo. Ci furono giorni e giorni in cui i ragazzi si raccontarono e la vita pulsava in loro come il sole che baciava New Jork; divennero amici e poi la traiettoria del destino li volle amanti. In silenzio il loro amore contaminò tutta New Jork ed Alex e Grace divennero i simboli di una bellissima estate. L’inverno arrivò e quella mattina Alex era uscito un momento per fumarsi una sigaretta e Grace, dolcissima Grace provò ad alzarsi ma un fortissimo dolore la fece urlare dallo spavento. I genitori dei ragazzi erano sconvolti rivivere il dramma di anni prima sembrava così attuale gli attori erano così bravi e intensi………… Alex portò Grace in ospedale senza parlare con il fiato di un amante spaventato, gli infermieri la stesero su una lettiga e la portarono in una stanza, Alex passò lunghissime ore con lei poi si alzò uscì e parlò con i medici ed il destino gelò le sue povere ossa: CANCRO. Barcollò e quasi svenne dal dolore lo alzarono di peso gli infermieri. Da quel momento decise di non parlare più e di stare accanto alla sua Grace che gemeva fortissimo nella notte.
    Il giorno dopo aprì i suoi occhi vide Grace dormire ed uscì dalla stanza gli si avvicinò Elisabeth la più anziana del reparto che lo strinse a se in silenzio lei e le sue ossa incartapecorite. Alex per un attimo sembrò riprendersi poi Elisabeth gli parlò ” Devi dire addio alla tua Grace” glielo devi. Ci fu un momento in cui la rabbia lo prese “Dio perchè la mia Grace prendi me!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! ” e tirò un pugno nel muro fino a fracassarsi le dita. Poi rientrò nella sua stanza si stese accanto a lei e la baciò succhiando le ultime energie della sua amata. Non aveva più niente, stanchissimo uscì dall’ospedale New Jork era piena di neve e lui sparì in fondo alla strada. Il sipario si chiuse ed un lunghissimo silenzio attanagliò la sala poi i genitori dei ragazzi applaudirono presi da nuova vita li avevano ritrovati e la pace s’impossessò di loro per sempre.

  32. Cercami

    Cercami ove non mi troverai
    sarò un bulbo nascosto
    nel grembo della terra
    sarò un cristallo di sale
    nelle profondità marine
    sarò un inutile soffio
    in un vortice di maestrale
    sarò un umile granello
    nella sabbia desertica
    sarò una goccia di sangue
    tra gli anfratti del tuo cuore.
    Non devi soffrire
    se non mi troverai,
    sarò già in te
    il tempo morto
    della tua e della mia vita.

    Accetto il regolamento Sezione A
    Michele Pochiero

  33. IL TEMPIETTO

    Sul lago dei cigni
    sorge un tempietto
    nella cornice adorna
    di un giardino inglese,

    il luogo dove fermarsi
    sulla collinetta
    sospesi tra l’albero della madre
    e le ninfe delle acque

    per scorgere i segreti
    degli animali del bosco
    ed immaginare di lei,
    in un pomeriggio d’estate,

    con il suo ombrellino da sole
    con tessuto in seta
    e la luce bianca e tenui colori
    riflessi in un mondo magico

    quando l’amore
    non puoi toccarlo da vicino
    ed è impresso nell’iride
    un attimo e si allontana

    ogni gesto, il ricordo tenace,
    la splendida natura intorno
    il chiaroscuro
    sono l’essenza
    là dove lei vive.

    sezione A – Accetto il Regolamento
    Luigi Carlo Rocco

  34. IL PIANTO DEL CIGNO

    E’ tardi,
    il tramonto mi minaccia.

    Sara’ ancora la notte
    ad accompagnare i miei passi.
    Dovrò, ancora questa volta,
    inventarmi i colori dal buio.
    Sara’ tutto nei miei occhi
    questa volta intorpiditi dalle lacrime;
    ma che importa?
    E’ questo il pianto del cigno.
    Sara’ il mio ultimo grande sogno a guidarmi,
    saro’ il solo spettatore di me stesso,
    finalmente solo,
    sara’ solo il sogno a guardarmi da lontano.

    E’ stato il tempo a traboccare
    a mostrarmi i suoi confini che iniziavano a seccarsi.
    E’ stato il tempo a collassare:
    e’ stato il giorno in cui ho iniziato a vedere
    il confine del Sole,
    ho iniziato a correre verso un Non So Dove,
    strappando coi denti la protesi
    in cui era stata costretta la mia vita.
    Era la malinconia che colava da ogni muro,
    invadendo le strade,
    rendendo tutto piu’ dolce.
    Non c’era piu’ nessun male perche’
    non c’era nessuno per davvero,
    e mi ubriacavo di niente e di note.
    Il pianto del cigno
    non avra’ piu’ nessun occhio addosso,
    tutto sara’- ordinatamente – ignifugo
    e sara’ la prima notte in cui
    tutti i guardiani
    – finalmente – dormiranno.

    Accetto il regolamento
    sez. a

  35. Forse c’era altro nella strada

    Forse una congiunzione, a quell’ora,
    di orbite complementari,
    allo zenit della città, pianeti e lune.
    O forse perfetta la temperatura della luce
    – come l’umidità dell’aria –
    perché ognuno inspirasse dentro sé
    il miracolo del tardo pomeriggio.

    Ma forse c’era altro nella strada,
    perché luce desideri parole e voci
    erano dita che sfioravano le corde
    di un’arpa senza suono,
    che vibrava nelle orecchie di chi c’era
    e ognuno, esistendo dentro il pomeriggio,
    godeva il suo silenzio di pienezza,
    pure parlando, pure ridendo,
    pure pensando alla bolletta da pagare.

    Il beneficio pioveva giù dai tetti delle case,
    o si irradiava da un punto inarrivabile del cielo,
    o saliva dalla terra – chi può dirlo –
    illuminando i volti dei passanti,
    sopra le lingue umide dei cani,
    sui nove ottavi del violinista bulgaro,
    sopra lo scintillio volgare della ragazza bella.

    E ognuno – dentro sé –
    augurava il bene a chi incontrava,
    ai vecchi che se ne andavano per mano,
    all’uomo che fumava tutto solo,
    sperando che la luce di quell’ora
    non lasciasse mai la strada.

    Intanto, a poche ore di distanza, o a pochi metri,
    le bombe squarciavano le porte dell’inferno,
    per inghiottire insieme colpevoli e innocenti,
    e non c’era amore che piovesse da quel cielo.
    Ma qui nessuno ci pensava, perché
    una congiunzione d’orbite
    guardava dallo zenit la città,
    e la temperatura della luce era perfetta.

    Accetto i termini del regolamento.
    sez. a

  36. A NESSUN PREZZO

    Osservami alla luce del lampione
    senza illusioni di chissà quale affare
    l’amore qui con me non ha effusioni
    né inutili preamboli a perder tempo
    s’arriva presto al dunque, tutto è concesso…

    Il fragile equilibrio tra dare e avere
    nel giusto prezzo ha il suo contrappunto
    al brivido che attendi attento e ingordo
    che il mio servizio speri sia all’altezza
    di tutto l’amore di cui hai bisogno, ma
    che a nessun prezzo io potrò mai darti.

    Accetto il regolamento, Roberto Marzano
    sez.a

  37. Con Te

    Scriverò la parola amore
    a lettere di fuoco
    nella notte.
    Perché Tu le senta
    vibranti ed ardenti.
    E raccoglierò il profumo
    di tutti i fiori,
    la bellezza vellutata dei petali,
    per farne un cuscino
    per i Tuoi piedi di silenzio.
    Suonerò le corde dell’anima
    e ne sortirà
    la mia gioia
    di essere tutt’uno con Te.
    Sussurrerò il Tuo nome
    Amore, Luce, Perfezione.

    Vellise Pilotti
    Sez a accetto il regolamento

  38. Accetto sez A
    Rinascita
    Come un seme che sfida il buio,
    così, nell’ombra, germina la forza.
    Il dolore è un terreno arido,
    ma nel suo cuore la vita resiste.

    Ogni cicatrice è un ricordo,
    ma non più un peso da portare.
    Imparo a respirare senza paura,
    a camminare, anche senza vedere la strada.

    La rinascita è il silenzio che accoglie,
    è il respiro che torna, piano,
    quando il cuore si è fatto più leggero,
    e gli occhi hanno imparato a guardare avanti.

    Non è un ritorno,
    è una trasformazione invisibile,
    un incontro con la propria essenza
    che non teme il futuro,
    perché sa che ogni fine è solo l’inizio.

  39. ODE AL MARE

    Si distendono come vele 
    le nuvole 
    mentre le dure reti 
    scavano nelle profondità
    dell’anima del mare,
    a cercare parole e comete ormai smarrite.

    È forse il mare ad indicare la strada?

    I pittori rendono quieto 
    il suo divenire silenzioso
    e la sua corteccia diventa il volto
    dove mille colori si abbracciano.
    Poi il buio,
    ed i racconti dei pescatori 
    si fanno vivida luce,
    e come lanterne
    rischiarano incertezze.
    E attraverso il suo aroma dorato
    rendiamo al mare profondo
    il flusso inarrestabile delle nostre idee.
    Le nuvole si spiegano come vele,
    le reti ritrovano la luce
    e le parole, 
    divenute comete,
    scoppiano di gioia
    davanti ai nostri occhi.

    Attoniti.

    È forse Dio ad indicarci Il mare?

    Antonio Stasolla
    SEZ A Accetto il regolamento

  40. Re Nuvolo e le sue goccioline d’acqua (per i piccoli e per i grandi)

    Cari bambini (e grandi) tante volte avrete certamente visto, durante i temporali, le gocce di pioggia cadere sui vetri delle finestre della vostra casa e scivolare verso il basso accarezzando il vetro e, seguendo il percorso di queste gocce d’acqua, vi sarete lasciati andare a mille fantasie.
    Ora, voglio raccontarvi come nasce la pioggia e perché le gocce d’acqua, cadendo sui vetri delle finestre, lasciano come una scia luminosa simile ad una lacrima che solca il viso.
    C’era una volta, tanto tempo fa, Re Nuvolo, un re che governava i cieli ed i suoi abitanti, le goccioline d’acqua.
    La vita nel suo regno procedeva tranquillamente e con serenità finché un giorno, la Terra, cominciò a lamentarsi della mancanza di pioggia e della conseguente siccità per cui, un suo ambasciatore fu inviato presso Re Nuvolo con una richiesta di aiuto.
    Re Nuvolo, dopo aver ascoltato l’ambasciatore, riunì il gran consiglio degli anziani e dopo un lungo consulto, gli riferì: “Abbiamo deciso di aiutarvi: invieremo sulla Terra un gran numero dei nostri abitanti e così la vostra sete sarà placata!” e siccome Re Nuvolo era un re molto aperto e democratico, convocò in una grande assemblea tutti i suoi sudditi per trovare dei volontari per tale missione.
    Non ci fu comunque bisogno di convincere la folla perché tutti si offrirono volontari per essere mandati sulla Terra e si udivano provenire dalla folla le più diverse voci:
    “Manda me, o Re, sulla Terra” disse una gocciolina d’acqua “con la mia freschezza allevierò l’arsura dei continenti e porterò sollievo agli uomini!”
    “Manda me sulla Terra” si fece avanti un’altra gocciolina “cadrò sulla sabbia del deserto e farò germogliare il grano per nutrire i suoi abitanti!”
    “Manda me” aggiunse una terza gocciolina “cadrò su una foglia e come per incanto il suo albero tornerà alla vita e dentro di esso la linfa riprenderà a scorrere con più vigore di prima!”
    “Manda me, invece” esclamò una quarta “cadrò sulle città e vi farò crescere giardini immensi dove i bambini potranno giocare!”
    “Manda me” disse una quinta “ingrosserò i fiumi e gli uomini non avranno più sete!”
    “Manda me” aggiunse un’altra ancora “scaccerò malattie ed epidemie e creerò arcobaleni meravigliosi!”
    E così via, ogni gocciolina d’acqua si faceva avanti con la sua offerta di aiuto tranne una, che in disparte seguiva, in silenzio, gli avvenimenti.
    Re Nuvolo si accorse della sua presenza silenziosa e rivolgendosi a lei le chiese con dolcezza:” E tu, piccola goccia d’acqua che non hai ancora parlato, dimmi, cosa faresti per gli uomini se fosti tu la prescelta a scendere sulla Terra?”. Ci fu un momento di silenzio; le altre goccioline d’acqua morivano d’invidia perché il Re le aveva rivolto la parola.
    Infine, timidamente, la gocciolina chiamata in causa dal Re rispose:
    “Maestà, se tu mi concedessi l’onore di potermi recare sulla Terra, vorrei cadere sui vetri delle finestre di tutte le case del mondo, rigare il vetro di pianto cadendo verso il basso e sciogliermi per dare vita a mille altre goccioline d’acqua. Col mio pianto sarei così vicina alle sofferenze di coloro che patiscono e in tal modo li farei sentire meno soli, perché quando si soffre nel cuore e nel corpo è bello avere qualcuno che capisca e viva la sofferenza dell’altro”.
    All’ascolto di queste parole, Re Nuvolo restò in silenzio e pensieroso e, vincendo la commozione, scacciò una lacrima che gli stava scendendo sul viso e proclamò solennemente davanti a tutto il suo popolo di goccioline d’acqua:
    “Tu, piccola e timida gocciolina d’acqua, sarai degna di compiere questa missione, perché rispetto a tutte le altre hai dato un senso profondo alla tua discesa sulla Terra, volendo donare agli uomini non solo l’acqua di cui hanno tanto bisogno per vivere ma anche un’acqua ben più importante e necessaria: L’ACQUA DEL CUORE! Perciò sii la mia prediletta e recati con gioia sulla Terra!”.
    Ed essa discese sulla Terra a svolgere la sua missione!
    Questa favola, cari bambini (e grandi), ci insegna che non sono le cose materiali come i giochi, i regali, le vacanze, le cose più importanti della vita ma il nostro cuore pronto a donare amore, amicizia, aiuto a chiunque si trovi in difficoltà e ha bisogno di noi; noi dobbiamo imparare a scioglierci fino a far scomparire il nostro egoismo per poter dare vita a tante altre piccole goccioline proprio come la goccia scelta da Re Nuvolo ed essere buoni col nostro prossimo.
    Comportiamoci così, cari bambini, perché così continueremo ad essere per sempre puri agli occhi di Dio ed agli occhi del mondo.

    Antonio Stasolla

    Sez B Accetto il regolamento

  41. ACCETTO REGOLAMENTO SEZIONE A

    LA NONNA E IL PIANTO DELLE STELLE

    Fu una sera di quell’estate
    remota,
    che tu mi porgesti, allora fanciullo,
    la tua grinzosa mano
    per condurmi a vedere
    il pianto delle stelle.

    Seguivo fedele i tuoi passi,
    ma tremavo incerto nella rugiada,
    allora mi accolsero le tue anziane braccia
    mentre ci investiva, sommesso,
    il sibilo della brezza di mare,
    fresca di eriche e pinastri.

    E, nel silenzio, si aprì a noi la valle
    inondata dall’intermittente luccichio
    di minuscole lacrime d’oro:
    volteggiavano lievi nella volta buia
    per poi incastonarsi stanche,
    tra i teneri steli d’erba.

    Con gli occhi ancora rapiti
    da quel bagliore celeste,
    mi strinsi a te ancora più forte,
    rintanando il viso
    nel tuo scarno collo
    odoroso di terra, sole e fatica.

    Nulla valse poi, smaliziarmi a scoprire
    che quel portento fosse il vorticare danzante
    di lucciole in cerca d’amore.
    Quell’abbraccio,
    ancora sì vivido tra le pieghe del cuore,
    fu di te il mio ricordo più caro.

  42. PROGETTI

    Taniche rovesciate, tubi rotti
    arroventati dal sole, piaghe
    su quello che fu un cantiere.
    Ragnatele brillano sul progetto
    incompiuto.
    Per altre vite, altre fatiche gli operai.
    Uno è rimasto. La sagoma, ripiegata
    abbraccia ancora la terra.

    Luisella Pisottu
    Sezione A
    Accetto il regolamento.

  43. Gaza

    Hanno finito le lacrime agli occhi,
    sanno soltanto cos’è il terrore,
    bambini, giovani, vecchi,
    hanno visto come si muore.

    Gaza, un giorno era bella,
    piena di chiese e di monumenti,
    ora ci son solo barriere e cancelli,
    giorno e notte bombardamenti.

    Poverini a Gaza i bambini,
    pieni di sangue le mani e le gambe,
    si sono dimenticati di come si gioca,
    gli hanno diviso i padri dalle madri.

    Guardano in cielo e non vedono stelle,
    guardano in cielo e non vedono il sole,
    vedono solo bombe e scintille,
    vedono gente sparata dall’alto.

    Polvere, cenere, per i corvi è festa,
    carne straziata di povera gente,
    scendono a picco su ciò che resta,
    beccando, non lasciano niente.

    Gaza c’era, ora non c’è più niente,
    è solo un ammasso di case crollate,
    chi ha la colpa, è gente fetente,
    e la colpa e soltanto di gente malata.

    sez. a accetto il regolamento

  44. “Una bocca come una rosa”

    Una bocca come una rosa vorrei baciare
    come un fiore vicino al mare
    con l’aria dolce del primo amore
    che il mio cuore non riesce a dimenticare

    Ti guardo in viso e mi sento incantato
    come il vento quando passa piano
    e questa passione mi viene da cantare
    solo per te, voglio abbracciare.

    Una bocca come una rosa
    ha il profumo di una verità
    e se una carezza può parlare
    tu, con un bacio, mi fai sognare…

    E anche se il tempo ci vuole lasciare
    questa fantasia non può cambiare
    perché un tuo bacio vale più di un re
    dentro le tue labbra vorrei morire.

    Raffaele Di Palma
    Accetto il regolamento, sez. a

  45. Il Compagno Nikita

    Il compagno Nikita si chiamava in realtà Pinuccio Melis e faceva il calzolaio. Lo chiamavano con quel soprannome, che sapeva di Russia e di guerra fredda, perché era un comunista intransigente e ortodosso, di quelli che avrebbero volentieri sovietizzato l’Italia. Diceva sempre che se nel ’48 avesse vinto il fronte comunista, l’Italia sarebbe cambiata in meglio.
    Niente gli fece mutare orientamento. Neanche l’invasione dell’Ungheria, avvenuta nel 1956.
    Non cambiò idea neppure quando, in qualità di delegato regionale della Sardegna, visitò l’Unione Sovietica, nel 1963. Anzi, fu proprio dopo quel viaggio che lo soprannominarono Nikita, in quanto non faceva altro che ripetere che il compagno Kruscev, che aveva dato udienza personalmente alla delegazione di cui lui faceva parte, lo aveva pregato di dargli del tu e di chiamarlo per nome.
    E non cambiò idea neppure nel 1968, quando i carrarmati sovietici invasero la Cecoslovacchia.
    Aveva riportato dall’Unione Sovietica, tra le altre cose, un orologio da polso, con i caratteri cirillici sul quadrante.
    A quel tempo, nei mesi estivi e in caso di necessità, anche negli altri mesi, davo una mano nel negozio di famiglia, ben avviato da mio padre per la vendita e la riparazione degli orologi.
    Un giorno che mi trovavo da solo, venne in negozio. Mi disse che voleva un cinturino nuovo per il suo orologio. Lo aiutai a sceglierlo dal vasto assortimento di cinturini in pelle che avevamo. Scelse un finto lucertola o coccodrillo, adesso non ricordo bene. Si trattava comunque di un cinturino di classe. Mentre glielo sostituivo, al banco, mi chiese se avessi potuto ritoccargli il tempo, dato che il suo orologio andava troppo lento.
    «Quanto tempo ritarda al giorno?» gli chiesi mente mi accingevo ad aprirlo, stando attento a non graffiargli il fondello, con l’apricasse affilatissimo che, come mi aveva insegnato mio padre, andava inserito alla perfezione e profondamente, nell’apposita scanalatura laterale che ogni orologio non impermeabile aveva a disposizione dell’operaio riparatore, per l’apertura e l’accesso al macchinario (gli orologi impermeabili avevano invece un sistema di chiusura ad avvitamento e non a pressione; e per aprirli eravamo dotati di un apri cassa meccanico a quattro punzoni; anche se mio padre riusciva ad aprili con le due punte di una pinza a becchi tondi).
    «Tre o quattro minuti al giorno» mi rispose.
    Il macchinario dell’orologio russo del compagno Nikita assomigliava ai nostri EB calibro 8800, una sigla che indicava una categoria di orologi privi di rubini, alquanto poveri e arcaici, sprovvisti perfino del moderno sistema di incabloc, per cui quando avevano la disgrazia di cadere, rompevano l’asse del bilanciere e occorreva sostituirlo con un complesso procedimento che io conoscevo in teoria, ma non avrei saputo eseguire nella pratica.
    Ritoccare il tempo era assai più semplice. Anche l’orologio del compagno Nikita aveva in cima al ponte del bilanciere, un sistema di regolazione che, azionato però dall’ago inferiore, provvedeva ad allungare oppure ad accorciare la corsa della spirale del bilanciere.
    In pratica, se l’orologio andava troppo avanti, occorreva allungare la corsa della spirale, così che, impiegando più tempo a compiere un giro in espansione, avrebbe rallentato il movimento che l’àncora condivideva in sincrono con la ruota dello scappamento; nel caso contrario, come accadeva per l’orologio di Nikita, era opportuno accorciare la corsa della spirale per ottenere l’effetto contrario. L’operazione veniva fatta a occhio e con l’esperienza si otteneva il risultato voluto.
    Tutto andò bene. Quando gli consegnai l’orologio mi chiese se sapessi leggere i caratteri cirillici del suo orologio. Alla mia risposta di diniego inscenò un vero e proprio processo accusatorio.
    «Ma come? Non sai leggere i caratteri cirillici? Stai scherzando per caso? Ma non lo sai che sono più importanti perfino dei caratteri greci e degli stessi caratteri latini?»
    Insomma poco mancò che mi denunciasse ai Soviet di Mosca e al comitato Centrale del Partito Comunista Italiano del mio paese.
    Per fortuna mi pagò il costo del cinturino e poi se ne andò.
    Non lo rividi più. Seppi che in punto di morte si era convertito al cattolicesimo.
    I maligni del mio paese, però, dicevano che si fosse convertito e avesse preso la tessera della Democrazia Cristiana, affinché in paese si dicesse che non era morto un comunista, ma bensì un democristiano.
    E con quest’ultima soddisfazione lasciò questa valle di lacrime.
    Ignazio Salvatore Basile- Sezione B – Accetto il Regolamento

  46. Un figlio mai nato

    Un segreto di lungo corso
    che vorrei eclissare nell’oblio
    si cela negli anfratti del cuore,
    brucia nell’anima
    come le fiamme dell’inferno,
    dipinge con le lacrime sul volto
    un ricordo da cancellare
    che non è dato ignorare.

    Bussa alla porta della coscienza
    come una tempesta senza fine,
    quel segreto è una ferita che non si è mai chiusa,
    un nodo che non si è mai sciolto
    e a nulla è valso chiedere perdono.

    Nel grembo
    pulsava la vita
    di un bocciolo
    che doveva germogliare,
    la paura vinse il coraggio
    spenta fu la fiamma della vita,
    i rimorsi ancor inseguono la malinconia.

    Come stracci che danzano appesi al vento
    sul filo dell’invisibile
    restano
    storie da raccontare
    parole mai dette
    un pugno chiuso che nulla stringe
    e una mano aperta
    che raccoglie solo il silenzio.

    Sezione A
    Accetto il regolamento
    Michele Bruno

  47. accetto il regolamento sezione POESIA

    TONIA
    TU…
    DUE OCCHI
    NELL’INFINITA PRIMAVERA
    PER FARMI RIPASSARE
    I PIU BE SOGNI DELLA MIA VITA

  48. OH, GIACOMO, E IL NAUFRAGARE?

    Hai amo, nassa, tagliola per questa luna.
    Hai guinzaglio per carezza, sogno, sospiro.
    E hai specchio per ciascun infinito,
    bozzetti per le danze e le parole, i segni del cuore
    ad ogni battito di ciglia, per ogni goccia di mare.
    Ma se guardo gli occhi che mi guardano
    e respiro l’ombra dell’aria che mi segue e mi precede,
    avverto solamente la vita scivolare.
    E solitudine e dolore non hanno pelle.
    L’arrivo non trova la fatica fatta per arrivarci,
    né dottrina ingabbia la preghiera rimanente.
    Il mondo ha solo rumori, antenne per ascoltare il vento
    che io libero assieme all’entusiasmo che conservo,
    certo di primavera dopo inverno, d’universo
    oltre la siepe e di cielo sopra l’ermo colle.

    Accetto il regolamento del contest, sez. a

  49. TUE, SARDIGNA

    Tùe, Sardìgna…
    tra sas ròcas e su mare,
    in ue bèntos pispìglian
    segrètos antìgos,
    sos bàtor mòros
    bàllan in mèsu de sas ùndas,
    cun sas bèndas in sa frònte,
    sìmbulu de fòrtza e unidàde!
    In s’àera resònan sas launèddas,
    istrumèntos ùnicos e antìgos,
    acumpanzàn cun bàllos e càntigos
    ammèntos de unu pòpulu
    fìeru e lìberu.
    E pois Nuràghes de Pèdras
    maestòsos,custòdes sun
    de còntos seculàres.

    Traduzione

    TU, SARDEGNA…

    Tu, Sardegna…
    tra le rocce e il mare,
    il vento sussurra antichi segreti.
    I quattro mori danzano tra le onde,
    con le bende sulla fronte,
    simboli di forza e unità!
    Nell’aria risuonano le launeddas,
    strumenti unici e ancestrali,
    accompagnano tra canti e balli
    memorie di un popolo fiero e libero
    E poi Nuraghi di pietra, si ergono,
    custodi di storie secolari.

    ACCETTO IL REGOLAMENTO – SEZIONE A

  50. QUELLA CASA IN COLLINA

    Quella casa che Francesco aveva ristrutturato in collina era ormai diventata il suo rifugio; forse da sempre aveva sognato un luogo dove ritirarsi in solitudine, lontano dal caos della città, per assaporare momenti diversi dove il sentirsi a contatto con la natura significava un dolce ritorno al passato.
    Era stata, prima di acquistarla, in condizioni pessime, una antichissima casa di pastori.
    – Vedi, in queste valli – cominciò Bustianu mentre versava dell’acquavite – spesso e in questo periodo, non puoi stare in giro, e l’unico modo per trascorrere queste giornate è starsene buoni buoni dentro casa e aspettare; anche per il mio bestiame e meglio tenerlo nell’ovile vicino casa.
    – Hai ragione Bustianu, speriamo che domani la giornata sia delle migliori così si potrà organizzare una bella camminata su verso il monte – terminò Francesco, speranzoso, mentre sorseggiava l’acquavite. Bustianu andò via subito dopo pranzo per accudire al suo bestiame mentre Francesco si ritirò in camera per un breve riposino.
    La serata era particolarmente scura e novembre come sempre da quelle parti aveva mostrato il suo lato peggiore. Sarebbe stato salutare e bellissimo uscire per la campagna in quelle magnifiche valli e Francesco era contentissimo di ritrovarsi tra i boschi di leccio e tra il profumo di erbe aromatiche, molto abbondanti in quei luoghi.

    Certamente sarebbe riuscito ad arrivare sino al Monte Linas, con i suoi 1236 m. s.l.m., sempre che il periodo scelto non fosse stato così inclemente. I giorni sarebbero passati probabilmente senza mettere naso fuori da casa. Stava pensando infatti di rientrare in città. Lasciare il paese di Serru e i tanti amici che lo reclamavano per trascorrere qualche ora insieme al circolo il “Gabbiano” oppure al bar di Nicolino.
    Sarebbe rientrato a Cagliari e avrebbe ripreso il suo lavoro in ufficio tra scartoffie e progetti da finire e altri da iniziare. Aveva deciso di riprendere il lavoro e lasciare a tempi migliori per trascorrere giorni di ferie in quella casa in collina.
    La pioggia batteva forte contro le finestre e il vento fischiava tra gli alberi. Francesco si svegliò dopo qualche ora con una sensazione di inquietudine. Decise di accendere il caminetto per riscaldare l’ambiente per creare un’atmosfera più accogliente.
    Mentre il fuoco iniziava a crepitare, si sedette sulla poltrona con una tazza di tè caldo aggiungendo un bel cucchiaino di miele. I suoi pensieri vagavano tra i ricordi del passato e le speranze per il futuro. La casa in collina rappresentava per lui un rifugio, ma anche un luogo di riflessione.
    Si rese conto che, nonostante le difficoltà, quei momenti di solitudine gli avevano permesso di riscoprire se stesso e di apprezzare le piccole cose della vita.

    Il giorno seguente, il cielo si schiarì e il sole fece capolino tra le nuvole. Francesco decise di approfittare della bella giornata per fare una passeggiata fino al Monte Linas. Indossò il suo abbigliamento di circostanza e si incamminò lungo il sentiero che attraversava i boschi di leccio. Il profumo delle erbe aromatiche riempiva l’aria e ogni passo lo avvicinava sempre di più alla cima.
    Arrivato in cima, anzi non proprio, Francesco si fermò a contemplare il panorama mozzafiato. Sentiva una profonda e benefica sensazione in compagnia della natura e una pace interiore che non aveva mai provato. Decise che, nonostante il lavoro e gli impegni in città, avrebbe sempre trovato il tempo per tornare in questa casetta, quasi fosse nata in collina, il suo rifugio, il suo angolo di vita che assomigliava a un paradiso.
    Così a cuore leggero e con un sorriso di soddisfazione sul volto, Francesco iniziò la discesa gù in collina, pronto a tornare alla sua vita quotidiana, ma con la consapevolezza che quel luogo di paradiso sarebbe stato sempre lì ad aspettarlo.

    Accetto il regolamento – Sezione B

  51. IL NASO
    appuntito, era forse il primo aggettivo e la prima qualità che gli avessero dato. La realtà si era disintegrata, la società atomizzata non aveva più una dimensione integra, era spezzettata, frazionata, ridotta. In un mondo non più intero, l’intero era diventato la parte e così lui stesso era nato naso.
    Un tempo con il nome proprio di una persona si indicava la totalità del suo corpo, dei suoi arti, delle sue viscere. Ora ogni parte a sé prendeva vita e nella costellazione anatomica lui era naso.
    Un po’ strano guardarsi allo specchio, senza tutto il resto di ciò che un tempo gli era contiguo, lui solo riflesso faceva la sua figura, ma sembrava pur sempre che mancasse qualcosa.
    Sono fortunato, diceva, il primo nervo cranico mi appartiene, proprio quel nervo che in fondo è quasi esso stesso cervello e sul quale gli anatomisti hanno disquisito per secoli. Ho un cervello, ho un’anima ed ho un corpo, sono stato il primo passo evolutivo di quel corpo un tempo intero ed ora costellazione.
    Tutti mi guardano e mi amano o mi disprezzano, a seconda della mia forma. Sono amato all’insù, sono austero se sono aquilino, posso essere importante, a patata, ingombrante. Dare un tocco di classe o essere paragonato al naso di un volto cubista, al buon Picasso piacevamo molto noi nasi.
    Sono mio malgrado costretto ad annusare, non posso fare altro, produco informazioni e quando c’è la stagione delle graminacee apriti cielo, sono distrutto dalle allergie.
    Proprio oggi me ne stavo andando a spasso per la campagna, il sole scaldava in modo intenso, è quasi giugno e l’estate si avvicina a lunghe falcate.
    Non c’è stato verso, ho annusato la fioritura degli aceri, così insopportabile, e subito mi sono gonfiato e l’allergia ha iniziato a rendermi umido e tumefatto. Che cos’ho fatto di male in vita per meritarmi tutto questo?
    Domande esistenziali, dubbi ancestrali almeno quanto i suoi collegamenti con il sistema limbico lo tormentavano fin da quando era nato.
    Ma perché era nato? Perché la totalità si era spezzettata ed infranta come un sasso che c’entra uno specchio? La totalità aveva iniziato e infrangersi per non accettarsi, non si piaceva e non si voleva più per come era stata generata, intiera. Vi era stato il tempo dei chirurghi estetici, quelli sì per un po’ avevano retto. Se alla totalità un pezzetto di essa non piaceva, loro ci mettevano mano. Era iniziata l’epoca dei labbroni, dei nasi in catena di montaggio, tutti all’insù uguali identici. La totalità aveva accettato di buon grado il cambiamento per poi protestare per l’eccesso. Donne ormai avviate verso la vecchiaia, scusate vecchiaia non si poteva più pronunciare, era stata bandita, che giravano con delle salsicce arcuate ed unite su cui all’interno ballavano le dentiere. “Possibile che ci si adegui a canoni estetici imposti dalla società?” Dicevano le totalità, senza rendersi conto che le società erano già morte da un pezzo. I nasi in catena di montaggio erano ancora più ridicoli perché, se una persona ha un naso ingombrante e glie lo si toglie, si noterà la mancanza di quella propaggine che ne determinava un po’ anche il carattere. Il nuovo naso era come mettere un corpo estraneo che non ci azzeccava nulla con il suo contesto. Ma ciò non succede spesso a pretendere di essere ciò che non si è? Le totalità protestavano vedendo in pericolo la propria unicità, un po’ come era successo tempo prima con la moda dei tatuaggi, li sceglievi su un librone e poi al mare lo stesso tuo tatuaggio lo ritrovavi replicato su mille altri corpi. Era davvero il simbolo che volevamo darci per sentirci unici?
    Fu così che un po’ alla volta si iniziò a litigare, ad accanirsi, e come tutti sanno siamo una società di ultras calcistici. Slogan violenti li urlavano i nasi, gli occhi volevano urlare la loro “sto con la bleferoplastica”, le labbra urlavano “solo noi siamo intitolate a parlare”.
    I chirurghi estetici si resero conto di non poter correggere tutto ciò che la totalità non accettava più come propria, non potevano ritoccare labbra, occhi, zigomi, orecchie, naso, denti, capelli, doppi menti , peni e vagine. Dichiararono il loro fallimento creando dei mostri, donne che volevano sembrare come Barbie, uomini come Ken, addirittura un uomo volle essere trasformato in cane.
    In poco tempo la totalità litigando con se stessa si spezzò.
    Lui così fu il primo. Il primo a nascere naso.
    Costretto a sentire odori ad a non potersi grattare o mettere le dita all’interno di se stesso al semaforo, con fare contemplativo.
    Era vita questa? Sì allo specchio si piaceva, così da solo, ma poi che avrebbe fatto?
    C’erano labbra che non ce la facevano più a parlare ininterrottamente senza aver un orecchio a cui raccontare le cose. Gli orecchi protestavano per le stanghette degli occhiali… “che ci facciamo noi con ste cose?” E gli suggerivano “ma dai che è una vita che vi ci esplorate le vostre cavità”
    Appuntito era il primo aggettivo e la prima qualità che gli avessero dato, fu anche l’unica.
    Non avevano imparato nulla dagli uomini, tutti uguali e così in lotta tra loro, si autodistruggevano, pur sapendo di aver bisogno uno dell’altro.
    C’era ancora chi pensava di essere migliore di qualcun’altro.
    Accetto il regolamento sezione B

  52. Ragazzi, non crediate

    Ragazzi, non crediate che le guerre
    siano cose normali.
    Nascono sempre da azioni imbecilli,
    da stupidi imbroglioni convinti
    di essere padroni del mondo.

    Non pensiate che non si potesse
    aprire un confronto, far riflettere,
    per imparare a pensare agli altri,
    e non lasciarli morire
    così tanti, così in fretta.

    Sono uomini come voi,
    che si svegliano all’alba
    per portare il pane a casa,
    che stringono figli,
    che vorrebbero solo pace.

    Ma i comandi arrivano da lontano,
    da stanze fredde e dorate,
    dove la vita pesa meno
    di un barile di petrolio,
    meno di un confine disegnato a tavolino.

    Ragazzi, non cedete alla retorica,
    non lasciate che vi parlino di gloria
    con la voce dell’odio.
    La vera forza è fermarsi,
    guardare negli occhi l’altro,
    e scegliere di capire.

    Siate voi la generazione
    che non ha bisogno di nemici
    per sentirsi viva,
    che non gioca con la morte,
    per dare senso al potere.

    Scrivete voi la storia che manca,
    quella dove le guerre
    sono solo un ricordo vergognoso
    di una umanità che ha già imparato
    a non farle mai più.

    accetto il regolamento, sez. a

  53. Ricordi inzuppati

    L’estate si insinua,
    quasi a voler ricucire
    uno strappo
    quando allora
    camminavo a piedi nudi
    per riconoscere le salite pungenti,
    quelle ferite ad occhi aperti,
    ripongono il silenzio da una parte.
    Riconosco un ritratto,
    ormai cancellato,
    dove il rifiorire delle siepi
    era come un allungamento
    di mani.
    I bisbigli sulle aie bollenti,
    cancellano i disinganni
    frutto di ingenue partenze.
    Inaspettatamente…
    ricordi inzuppati
    di calura,
    frettolosamente inascoltati
    a riaprire uno squarcio
    inaffidabile.

    Gianfranco Corona
    accetto il regolamento sez. A

  54. Il Seme della Verita’

    Una Guida per i Giovani

    Questa poesia è stata scritta per i giovani che cercano di trovare la loro strada nella vita e di scoprire il senso della verità e dell’autenticità. Il seme della verità rappresenta la scintilla interiore e il compimento della fede, che ci guida a vivere in modo autentico e responsabile, nonostante le sfide e le tentazioni che possiamo incontrare.
    La poesia esplora temi come la natura transitoria della vita, l’importanza dell’umiltà e della responsabilità, e la necessità di coltivare il seme della verità dentro di noi. Il messaggio principale è che la verità e l’autenticità sono fondamentali per vivere una vita piena e significativa, e che il seme della verità può essere una guida preziosa per i giovani che cercano di trovare la loro strada.
    Spero che questa mia poesia possa essere di ispirazione e possa aiutarli a riflettere sull’importanza della verità e della autenticità nella vita.

    Il seme della verità

    Il seme della verità è dentro di te,
    una piccola scintilla
    che aspetta di crescere.
    Non lasciarti ingannare dalle apparenze,
    cerca la verità nel profondo del tuo cuore.

    La vita è breve, la morte è certa,
    ma il seme della verità
    può guidarti sulla strada giusta.
    Non cercare il potere o la fama,
    ma cerca di vivere
    in modo unico e responsabile.

    Il seme della verità ti aiuterà a vedere
    oltre le apparenze e le illusioni.
    Ti aiuterà a comprendere
    l’origine transitoria del pensiero,
    della natura e di tutte le cose.
    Non avere paura di affrontare le sfide,
    il seme della verità
    ti darà la forza di andare avanti.

    Non lasciarti travolgere dall’ego
    o dalle tentazioni,
    ma cerca di vivere in modo unico
    e impeccabile.
    Il seme della verità
    è un dono prezioso,
    che ti aiuterà a vivere
    una vita piena e significativa.

    Cerca di coltivarlo con cura,
    bagnalo di purezza
    e lascialo crescere dentro di te.

    Sezione A
    Accetto il regolamento
    In fede,
    Fiorenzo Briccola

  55. SILENZI

    I silenzi
    sono urli sordi
    che scivolano
    su quella pietra
    levigata e
    inceneriscono
    parole e sentimenti.

    Sono battiti
    di un cuore che
    non ha più voglia
    di vivere
    in una scatola
    di paglia
    dove non c’è più
    niente da cercare.

    Vieni qui
    parliamone
    rompiamo
    i silenzi assordanti
    e facciamo rumore
    con parole sospese
    adesso che
    il nostro rifugio
    è nell’anima
    che ci sa fare col cuore.

    Plasma il mio sorriso
    nei tuoi baci
    inchioda gli abbracci
    per tenerci legati
    senza più silenzi
    ma con allegre voci
    nel vento d’agosto
    dove le stelle
    non tacciono più
    e cantano l’amore.

    accetto il regolamento, sez. a

  56. Sezione B – Racconto breve
    Nona M. Stanciu, accetto il regolamento del concorso.

    I nonni

    Sembrerà banale, ma raccontare i momenti passati coi propri nonni ha un sapore dolce amaro.

    Ero piccola quando ho incontrato per la prima e ultima volta i miei nonni paterni. Vivevano in collina in una zona vinicola molto famosa e facevano parte di una famiglio di viticoltori da generazioni. Era una zona collinare, ai piedi della montagna che si vedeva in lontananza. Un paesaggio dolce e pieno di tradizioni e di tante famiglie che avevano dedicato la loro intera esistenza alle nobili viti.
    Il paese era piccolo e tutti si conoscevano. Ricordo le case, quasi tutte uguali, con il solo pianoterra, con tetti di paglia e un balcone con la ringhiera di legno. Solo il sindaco, il medico e il capo della polizia avevano delle case importanti. Anche se sono passati tanti anni, questo ricordo è sempre vivo.
    Quella volta, arrivati in treno dalla grande città, dovevamo percorrere a piedi il tragitto fino alla loro casa attraversando il paese, perché la casa dei nonni era ai margini, vicine alla loro terra. Siccome era il paese di mio padre, tutti lo conoscevano. La sua era una famiglia numerosa, sette figli tra maschi e femmine e tutti impegnati nei lavori in vigna, dal più piccolo al più grande. Non ricordo nessuno di loro, forse perché ero troppo piccola ed anche perché, negli anni, non ci siamo frequentati molto, a parte due sue sorelle, le mie zie preferite.

    Le parsimonia nel parlare era strana per me perché avrei voluto sentirli raccontare qualcosa della loro storia familiare, della loro vita, di mio padre e dei suoi fratelli e sorelle, del passato. Non è mai successo.
    Giunti a casa dei nonni, dopo i saluti e i vari convenevoli, mia nonna mi fece subito vedere dove avrei dormito quella notte. Accompagnò me e mia mamma in una piccola stanza, un po’ buia, e ci indicò un letto. A prima vista non c’era niente di strano o diverso, ma quando mi avvicinai, mi resi conto che era fatto di mattoni di terra e paglia, dall’indimenticabile odore, coperto di pezzotti fatti in casa e da un lenzuolo. Quello che però attirò la mia attenzione fu un piccolo buco nel lenzuolo e subito ci infilai il dito dicendo ad alta voce “io non voglio dormire qui, c’è un buco nel lenzuolo!” Mia mamma diventò rossa dall’imbarazzo e cercò di minimizzare. Io però non volevo cedere e tanto insistetti che mia nonna, malvolentieri, cambiò il lenzuolo pur di farmi smettere.

    Ancora oggi non capisco perché quel buco nel lenzuolo mi dette tanto fastidio. Non ci sono state altre occasioni. Non li ho più rivisti e sono venuti a mancare prima che io diventassi adolescente. Mi è rimasto un gusto amaro per non averli conosciuti meglio e per non aver potuto riparare in qualche modo alla mia troppo irruente franchezza. Penso a loro come qualcosa di perso, irrecuperabile e con tristezza.

    In compenso i nonni materni erano molto diversi. Sarà perché avevano una storia di vita vissuta in campagna, dove l’esistenza era sicuramente più dura. Ricordo brevi accenni alle loro famiglie, un po’ avvolte nel mistero. Qualcuno alludeva al fatto che mia nonna era una figlia indesiderata di un nobile terriero e che fosse nata molto lontano da dove viveva. Non so se erano solo dicerie, di sicuro lei non ne voleva parlare e, ogni volta che provavo a saperne di più, rispondeva a mezza voce con poche parole. Il risultato era che, nonostante la mia insistenza in più occasioni, non carpivo quasi niente da lei e rimanevo sempre con i miei pensieri a metà. Non so neanche se aveva fratelli e sorelle, di dove era, insomma, niente.

    Mia nonna era un mistero e tale è rimasta. Una cosa è certa: era molto severa, ma io le volevo bene lo stesso. Fisicamente robusta, con occhi scuri e capelli castani. Di sicuro non aveva avuto una vita facile, essendo stata ripudiata e dovendo rifarsi una vita insieme al nonno molto lontano dal luogo di nascita e senza nessuno. Per fortuna aveva incontrato il nonno.

    Mio nonno, aveva un fratello gemello, che viveva in città, e una sorella, zitella, che viveva nello stesso paese. Era magro, non molto alto, ma con una forza straordinaria, e degli occhi azzurri e dolci che non passavano inosservati. La sua dolcezza colpiva anche perché era in contrasto con quello della nonna. Quello che mi ha avvicinato molto a lui è stato anche il rapporto speciale che aveva con gli animali del cortile: la mucca, il vitellino, le oche, le galline, i piccioni. Aveva un dono che era impossibile non notare. Si rivolgeva a loro con la voce calma, parlando normalmente come se fossero persone e non animali ed era meraviglioso vedere come loro lo ascoltavano e ubbidivano alle sue parole, senza alcun altro mezzo di costrizione. In particolare c’era un’oca che lo seguiva ovunque e sembrava un cane da guardia più che un’oca.

    I nonni vivevano in un paesello della pianura dove si coltivava il mais e il grano, qualche filare di vite e poco altro. Le case, tutte basse e semplici, con tetti di paglia. La loro casa non era diversa se non per il fatto che era davanti alla chiesetta del paese e vicino alla scuola elementare. Tutte le case avevano davanti un recinto di legno e una panchina esterna, anch’essa di legno e molto semplice, a ridosso del cancello. Nel cortile, proprio in coincidenza della panchina c’era un pioppo. D’estate serviva per riposarsi all’ombra, sgranocchiare semi di zucca tostati, salutare i compaesani e fermarsi a chiacchierare con loro.
    I nonni avevano avuto otto figli, quattro maschi e quattro femmine. Una di queste era mia mamma. Ho passato molte estati a casa loro. Anche la loro casa, come quella dei nonni paterni, era molto semplice e i letti e le usanze erano molto simili.

    Le estati passate a casa loro sono un ricordo senza tempo, tra profumi di cucina, giochi d’infanzia e animali di cortile.

    19 agosto 2025

  57. Il mio peccato

    Sotto cieli lividi
    di grigio calore
    in questo mondo senza pace,
    figlio,
    chiedo perdono.

    Per l’odio che si respira nelle strade,
    il disprezzo che vomita la gente,
    l’avidità di chi vive senza valori,
    non ho scuse.

    Da un labirinto di cemento e asfalto,
    per la natura che ti restituisco
    violata,
    sporca,
    avvelenata,
    soffocata,
    provo vergogna.

    Per le bestemmie inutili,
    l’ignoranza,
    le bugie,
    gli inganni delle parole,
    per aver accettato l’inaccettabile,
    pagherò le mie colpe.

    I miei insegnamenti,
    dimenticali.

    Ma il mio peccato più grave,
    nella mia miseria,
    nella mia ipocrisia,
    nella mia incapacità di vivere,
    figlio mio,
    è di non averti dato la vita.

    Marco Salvario
    Sezione A – Accetto il regolamento

  58. KINTSUGI

    Agosto,
    sul rinzaffo non resta
    che una lastra d’oli secchi
    e quel respiro
    che sfiora le labbra
    della sera
    senza dire addio;
    nella luce spessa
    d’un cielo di latta
    un cane traccia
    un cerchio di fumo
    nel chiostro dei gerani.
    In un’aria d’ottone
    sopra le stoppie
    l’ultimo cirro dipinge
    due righe di violetto,
    – s’allunga sulle vetrate calde
    un’ombra di calce come un ricordo
    che non vuole svanire –
    nel chiarore del grano smosso
    da un presagio di sparute foglie.

    Thea Matera

    Sez. A – Accetto il regolamento

  59. Il vuoto ha massa si
    v (m) = si

    Si prenda un certo quantitativo di nulla
    non importa quanto,
    se occupa il volume di una stanza
    o lo spazio appena percepibile 
    tra pollice e indice, il nulla pesa sempre
    la stessa libra in ogni forma
    dimensione e luogo.

    Guardiamoci dentro, con l’intensità 
    con cui scrutiamo un’orizzonte nell’attimo
    che precede il tramonto.
     Lasciamo che la visione si accechi nel nulla,
    che appaia la vibrazione in cui le pupille sgranano 
    la figurazione nelle sue particelle,
    sí che i suoi atomi fluiscano, liberi da cause
    per effetti altrui, in consonanti disposizioni
    da cui l’animo si dà.

    Varcata la Soglia delle corrispondenze di afflati
    e intenti gli interstizi tra atomi e anima
    si formano venendo in rilievo, cogliendosi
    nel respiro di un nuovo mito, privo di necessità
    sciamaniche, che non narra un tempo
     a beneficio di un altro.

    Spostamento senza mossa, agito
    dello spirito come massa uguale a zero (m=0)
    che tuttavia deforma lo spaziotempo
    lo costringe alla vibrafonia di una piega
    dalla cui risacca il suono traccia il suolo.

    La verbiverazione scaturisce un niente
    dal nulla, un co-accidentale niente
    come l’elettricità che zampilla nel fulmine
    che separa per un attimo i cieli dal  cosmo.

    Il sibilo di un niente posa la foglia a terra
    chiude nel sacco buio degli occhi le credenze.

    L’animo evoca, evoca e invoca, il suono
    perpetra la vocazione all’ascolto 
    che nel vuoto si pronuncia, si abbandona
    al discioglimento del senso nella dominante
    fonica del desiderio e le labbra si muovono
    assecondando la metamorfosi,
    in un alito appena come batter di farfalla,
    si muovono alla vita nel dire: si!

    Toni Mercuri
    Accetto il regolamento, sez. a

  60. Era sera

    Era sera, il tuo sguardo filtrava
    la luce ormai lontana,
    stanco tornavi a dimora piegato dalla fatica,
    l’odore del grano aleggiava intenso
    e lucciole parevano miriadi
    di stelle oltre il casolare:
    un silenzio apriva lentamente
    la porta ai sogni,
    pura luce dentro il manto buio.

    Sez A accetto il regolamento

  61. C’è una luna ossidata, lassù

    C’è una luna ossidata, lassù,
    cha fugge da un pudore di stelle
    gementi nell’insonne albore d’aurora
    sui declivi del cielo bigio,
    sui sogni tatuati di silenzio.
    Inciampa in un raggio di sole
    fulgido a folgorare sottile,
    da fiamma a fiamma,
    dalle fessure sui muri d’ombra
    d’un deserto dai fiori di pietra.

    La guardo traboccare dal suo calice
    e avvolgersi nella ragna brinata,
    acquattarsi zitta zitta in un angolo
    a rinnegare le stagioni della luce,
    l’impeto primitivo d’eternità
    in lei pur sempre vivo e attivo.

    Striscia sulla mia carne d’ortica
    come una nigra reticolata limaccia,
    acidula fermentando il sepolto dolore
    sotto le purulenti cicatrici del cuore,
    incatenato nel petto
    in grazia di selvatica oscurità.

    Mi lascia spulciare tra i tossici pensieri
    d’un senso di vita mai nato,
    tra le rotte zolle d’un terrore d’alleluia
    che racconta di ceneri irripetute
    alla foce della lacerata sorte,
    senza tregua nel groviglio pulsante.

    E io, legata alle mie rugginose catene,
    incartapecorisco in arriccio,
    senza che nessuno curi le ulcere del tempo,
    insabbi le assordanti intimità di lava,
    decapiti la routine di vita ventosa.
    Fluttuo in un lutto di verità negate
    tra i ciottoli di passioni spente,
    nel delirio febbrile d’ultima agonia
    della visione tormentosa del domani,
    persa tra i petali d’una rosa.

    Sandra Ludovici
    Sezione A
    Accetto il regolamento

  62. mi piaci che fai male

    non ti voglio per tenermi compagnia.
    non mi serve una mano da stringere.
    non ho bisogno di te
    che mi salvi alla sera
    o mi chiedi come sto.
    mi piace il modo in cui rovini le mie giornate.
    entri nella testa come una canzone da bar,
    di quelle che partono storte
    e finiscono con qualcuno che casca nel retro.
    ti voglio perché sei un casino.
    perché entri nella testa
    come una sirena ubriaca
    che canta mentre tutto crolla.
    mi piaci che fai male.
    che sei distante anche quando sei lì,
    che ridi e poi sparisci,
    che parli con troppa intelligenza
    e con nessuna voglia di restare.
    mi piaci perché sei complicata
    e non sei finta
    come la media delle persone
    per sembrare profonde.
    sei complicata perché sei vera.
    perché hai difetti che brillano più dei pregi
    e guasti che sembrano arte.
    non potrò averti, ora lo so
    come si sfiora
    quello che non trattieni.
    e sì,
    probabilmente finirebbe male.
    probabilmente avresti noia
    o io farei qualcosa di stupido,
    o ci perderemmo per strada
    in una lite da poco
    o in un silenzio che si allunga.
    ma tu,
    sei proprio quel tipo di scommessa
    che si fa anche senza soldi,
    quel tipo di febbre
    che uno si tiene volentieri
    pur di sentire qualcosa che brucia.
    e non il solito freddo.

    accetto il regolamento sez. a

  63. “Tracce sottili” -Diego Civita-
    Sotto lo sguardo più ampio
    del museo del vivere
    aneliamo note profumate
    al respiro più vero dell’esistere.

    Tracciamo un solco fortemente
    intenso,
    tra l’origine e il sacro divenire/
    più attenti se vogliamo
    all’uman sentire,

    mentre riaffioran ricordi
    nel labirinto aperto dell’anima
    a seminare dubbi
    sul nostro conoscerci mortali.

    Sez.A (Accetto il regolamento).

  64. IL BICICLETTAIO

    C’era una volta una bicicletta vecchia e ridotta male. Sembrava che non potesse più essere usata. E giaceva ferma in un angolo, destinata a restare così.
    Un giorno, però, quella bicicletta servì. Venne recuperata, riadattata, vennero cambiati alcuni pezzi…e pian piano ripartì. Era sempre un po’ acciaccata: anzi gli stessi interventi riparatori talora sembravano inutili e peggiorativi.
    Nonostante ciò la bicicletta andava e funzionava. Era perfetta nonostante le crepe, i pezzi rotti e cambiati.
    Era un esempio del fatto che recuperare le cose vecchie anziché acquistarne di nuove potesse convenire sempre…inoltre i suoi pezzi rotti e riadattati le davano un’aura particolare.
    Sembrava fosse stata sottoposta al kintsugi, la vecchia arte giapponese che consiste nel riparare le cose rotte con l’oro in modo che le parti danneggiate e curate emergessero ancora di più. Quella bici splendeva, pronta per essere pedalata, messa in movimento, accarezzata e coccolata come qualcosa di prezioso e raro.
    Il medico di quella bici non si sa chi sia…doveva essere un persona speciale e umile.
    Mai si seppe il suo nome…ma se ne conobbe solo il suo valore.
    E questo bastò ancora per tanti e tanti anni a rendere la bici praticabile.

    Racconto inedito Accetto il regolamento, sez. b

  65. Mare omerico

    Mare omerico
    Infinito e cangiante
    Purpureo e canuto
    Sei orizzonte e abisso
    Sei il richiamo di Achille che piange
    Sei la nostalgia di Ulisse
    E il destino di Enea
    Mare serale
    Estivo
    Mare infinito
    Che tutto unisci
    E tutto dividi
    Mare

    Ho scritto una poesia stasera
    Guardando in lontananza.
    L’ho scritta
    per trovare
    una sorta di quiete…
    ai sensi di colpa

    Accetto il regolamento sez A poesia inedita (edita su un mio blog, quindi da considerarsi inedita)

  66. Disegno dal vero

    Un doloroso amore cerca la sua fuga
    verso un cielo d’antenne e di rumore
    che il vecchio indovino non riconosce più
    senza cumuli, senza cirri e strati chiari
    molto chiari un disegno dal vero.
    Ed arde dentro qualcosa come
    un pezzo di legno
    che brucia piano senza fiamma:
    una verità che non ha bisogno di prove
    e che acquista via via il suo essere
    un altro disegno dal vero.
    E quel meraviglioso miscuglio di nuvole
    affidato alle mani degli uomini
    piano si trasforma in scuri nembi.
    Gli uomini che seminano le acque dei mari
    di occhi spenti e pupille adombrate
    e si svela il conflitto delle passioni ideali
    che si agitano a torme nei loro cuori.
    Cuori come pianeti sconosciuti
    senza fine e senza vita
    come crudeli aguzzini
    che torturano altri cuori
    simili a quelli di bimbi affamati.

    Michele Pochiero
    Accetto il regolamento Sezione A

  67. VORREI…
    (Carmela Laratta, sez. A, accetto il regolamento)
    Vorrei che le pareti dell’ anima mia rimanessero bianche per sempre,
    come questa stanza dipinta da poco,
    che non conosce macchie
    né imperfezioni,
    e che il grigio del tetto
    non scricchiolasse mai ,
    come fa il tempo
    quando il gelo s’ ammonticchia
    disegnando con fantasia
    cunicoli sinuosi
    sull’ intonaco umido di lacrime.

    Vorrei che la leggerezza
    del tuo sguardo
    sapesse a memoria
    il momento esatto
    in cui entrare nel mio,
    con la delicatezza di una sera
    di fine agosto
    che impollina crepuscoli
    con ombre buffe e tenere
    sui vetri puliti dei ricordi,
    quelli da conservare con cura
    perché rimangano interi
    anche dopo decenni.

    Vorrei che il silenzio
    la finisse di scavare muraglie,
    che la solitudine non facesse
    più male del necessario,
    che l’ orgoglio di una porta
    prima di chiudersi
    pensasse a quanto pulsa
    il cuore lento di un amore
    quando si sente al sicuro
    e non ha bisogno di parole
    per pompare sangue dove serve,
    nel luogo più caldo del pensiero ,
    laddove una radice
    ha due iniziali avvinghiate
    e una sorgente premurosa
    per entrambe.

    Vorrei che ti accorgessi che ti amo.
    Che questo filo fosse nascondiglio
    ed un tremore dolcissimo e lunare,
    che questo stare
    soffiasse una canzone
    che non conosce stortura
    e tiene il capo
    in direzione dell’ ultimo bagliore
    -come fa il fiore sul bordo
    del tramonto mentre si scioglie
    benedicendo il giallo…-

  68. SCEVRA DI PACE

    Mi disseti il tanto che basta,
    per non farmi morire di sete
    in questo deserto
    fatto di parole
    e immagini mentali
    che devo cercare
    di archiviare, classificare,
    per scongiurare lo smarrimento
    del punto di riferimento.

    Parole, promesse,
    foto in bianco e nero
    che si rincorrono nella mia mente,
    per raggiungere i limiti
    oltre i quali c’è solo l’ignoto,
    il caos, il magma.

    Favole non a lieto fine,
    così altisonanti,
    da far rabbrividire
    per la loro straordinaria bellezza,
    da farmi arrendere sotto la loro malia.

    Un senso appagante di totalità,
    che pervade, rapisce come in una danza
    e fremente invita a partecipare,
    a gioire della sua estasi.

    Un continuo saliscendi di onde
    che avvolgono nella loro spuma,
    anche il più piccolo granello di sabbia come me,
    di quella spiaggia che vuota,
    si staglia davanti ai miei occhi,
    … scevra di Pace.

    Rita Coda Deiana
    Accetto il Regolamento – Sezione A

  69. L’ALBERO ELEFANTE

    Oggi le nuvole non lasciano intravedere uno spiraglio di luce e questo luogo ristretto mi sembra ancora più tetro e arido di vita. Non un soffio di vento a smuovere le mie fronde. Nessuno che si racconti seduto accanto alle mie radici, mi rimangono soltanto i mozziconi da contare su un prato che prato non è, ma è soltanto un grande tappeto di moquette che ricorda solo da lontano il colore dell’erba.
    Anche la panchina oggi è triste e come un cane abbandonato, fiuta il tepore bramando la presenza umana. Rimpiange la presenza della ragazza dai lunghi capelli vaporosi che ogni giorno s’aggirava nel prato-moquette e al riparo da occhi indiscreti, leggeva e scriveva poesie. Una ragazza bellissima, ma troppo profonda e complicata dentro che in giovanissima età, incontrò la sua anima gemella e la riconobbe tra i mille volti mascherati di una città in decadenza, una città contorta come la sua stessa anima. La incontrò e ci vide se stessa riflessa, in quegli occhi scuri di pozzo privi di colore perché in fin dei conti è questo che succede, è questo che si cerca nell’altro, un’immagine di se stessi e nient’altro, un completamento di quell’autoscatto che ognuno di noi conserva dentro a pezzetti. Mi ha raccontato della sensazione che provò nel fissare se stessa nell’altro, nel vedersi attraverso altri occhi che non le appartenevano ma che erano comunque sempre stati suoi. Incontrò la sua anima gemella, identica e complementare, per poi perderla a causa di un capriccio della natura. Fu costretta a cancellare dalla terra quegli occhi, quella voce, quel volto, quei pensieri e quel rimuginare dentro che così bene conosceva, perché rappresentavano essa stessa come specchio. Con un pianto liberatorio mi ha raccontato di quel giorno di pioggia seduti in una piazza fatiscente, lontani dal mondo e dall’odore della superficialità, quando l’anima gemella la guardò e disse senza respirare:
    “Non potendo avere me, cercherai amore in esseri indegni di te e la sofferenza non cesserà mai”.
    E quella fu la maledizione che cadde spietata sulla povera ragazza, e da quel giorno ogni amore finì in disgrazia, ogni lacrima versata convogliò in quei pozzi neri dai quali si era allontanata tanti anni prima, i pozzi elettrici del suo amore. La ragazza si innamorò tante di quelle volte che oramai non ne voleva neanche più sapere di amore, di animi profondi e di pensieri sublimi, poiché ogni cosa veniva colpita dalla maledizione e sprofondava inevitabilmente, in una palude infinita di frustrazione. E il tempo passò, la ragazza si fece donna e da donna imparò che l’unica felicità che poteva esistere era quella personale, felicità nel realizzare se stessi senza maledizioni o paludi salmastre a far da contrappeso. Credeva di esser guarita e di aver eluso la maledizione che pendeva sulla sua testa scriteriata e folle. Invece la maledizione si ripeteva e avveniva di continuo, e la donna veniva colpita da ripetute cadute negli inferi dei sentimenti. Attraverso le quattro vetrate riesco a intravedere la sagoma di Mario con una coperta come mantello sulle spalle, s’aggira seminudo per il corridoio del reparto. Gira in circolo senza un attimo di sosta e quando incrocia lo sguardo degli infermieri, sorridendo accelera il passo con l’orgoglio di una maratoneta. Quando i colori dell’alba si specchiano sulle vetrate del reparto, Mario viene a trovarmi e accovacciandosi sotto la mia proboscide racconta dei suoi deliri e di come si senta preda di demoni che a volte lo trascinano nella poltiglia di fango mentale.
    Dal reparto femminile riconosco la voce di Carla che piange disperata perché ha smarrito l’elastico per i capelli. Carla, a suo dire, un’ostetrica che le vicissitudini della vita, le hanno fatto conoscere i tentacoli della depressione. Una donna colta nel parlare e dai modi raffinati, affascinata dai suoi braccialetti colorati e dagli orecchini che la legano a un passato felice, prima che il male oscuro della depressione le devastasse la mente. Quando il suo sguardo si smarrisce nelle pareti azzurre della stanza, solo le sue lacrime spezzano il silenzio, prima di annunciare che la sua malattia è dovuta a un rapporto che lei credeva d’amore, ma che poi è sfociato in violenza fisica e mentale. Cicatrici che nessuno riuscirà a rimarginare che continueranno a sanguinare, senza alcuna intenzione di fermarsi. Come una nenia canticchia sempre:
    “Sei stato come il vento eri di tutti e di nessuno, inaffidabile. Irrompevi con furore, ma con la stessa forza poi scemavi e sparivi. Mi sfioravi gentilmente come una brezza marina, avvolgendomi in un vortice di immagini, energia e musica. Ma inavvertitamente sei diventato una furia violenta di distruzione. Eri come le onde dell’oceano che sprofondano continuamente, cancellandosi, per poi rinascere senza consumarsi mai, uno scenario di morte e rinascita”.
    Testarda, non ho voluto vedere e ho lasciato che avvolgessi le mie ali affaticate, inzuppate di ricordi che sporgevano pesantemente che mi liberassi al tempo dalle gocce di luce proiettate come dardi sulla terra. Ma la tua violenta distruzione ha sconvolto la mia vita e ancora oggi, dopo anni, cerco di ricomporre con fatica, i tasselli del puzzle che tu vento hai disseminato.
    Ora, come una barca stanca, inclinata dal vento, con il cuore in burrasca aspetto che la luce del faro possa salvarmi dal naufragio.
    E’ giunto il tramonto, i pazienti si sono ritirati nelle loro camere, il reparto si è svuotato completamente. Le pareti sono diventate color lillà e i grilli dai campi lontani, cantano alle stelle. Piomba la notte con le sue ombre, a tratti mi pare di sentire il mare e il terreno salire, salire verso il firmamento. La luna piena mi chiama, ma io sono inchiodato a terra dal mio peso vegetale, la cui sagoma richiama quella di un elefante. Potessi almeno alzare la proboscide in segno di saluto e far ritorno nella terra degli elefanti!

    Rita Coda Deiana
    Accetto il Regolamento – Sezione B

  70. FINALISTI DEL CONTEST

    Sezione A (poesia)
    “Inesplicabile vita” di Antonio De Serio
    “Mare omerico” di Filomena Gagliardi
    “’mparadisa la mia mente” di Sara Cancellara
    “Il mio peccato” di Marco Salvario
    “Magna Amicitia” di Angela Maria Malatacca
    “Credimi quando dico” di Antonio Dell’Isola
    “Non ci resta che la poesia” di Daniela Giorgini

    Sezione B (prosa)
    “Psicopompo” di Alessio Romanini
    “Le indagini del Commissario Carmelo Puzzanghera” di Angelo Kostia
    “Viaggio nel tempo e fra le note” di Gianluigi Redaelli
    “Il naso” di Giovanni Ferrari
    “L’albero elefante” di Rita Coda Deiana
    “Il treno delle anime” di Beatrice Di Paola
    “Re Nuvolo e le sue goccioline d’acqua (per i piccoli e per i grandi)” di Antonio Stasolla

    Complimenti ai finalisti ed ai partecipanti.
    I finalisti saranno avvertiti via e-mail così come i futuri vincitori.

    Ricordiamo che sono in attivo due concorsi sul nostro magazine:

    https://oubliettemagazine.com/2025/08/28/contest-di-poesia-e-racconto-breve-versi-di-sardegna-quarta-edizione/

    https://oubliettemagazine.com/2025/06/10/seconda-edizione-del-premio-samuel-fernando-pezzolato/

  71. Ringrazio gli organizzatori e la giuria del contest
    per aver apprezzato il mio racconto.
    Grazie di cuore!!!

  72. Felice per l’attenzione, ringrazio di cuore la Giuria e l’organizzazione tutta di Oubliette

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