Intervista di Raffaele Lazzaroni a Gregorio Franchetti: vi presentiamo il corto “Cena d’aragoste”
Northwestern University di Chicago: all’interno del programma NHSI (National High School Institute), insegna regia un giovane professore il cui cognome tradisce l’orgogliosa origine italiana, nella fattispecie romana.
Classe 1987, Gregorio Franchetti è senza dubbio quel che si suole definire un cittadino del mondo, conseguita una prima laurea alla SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra e una seconda in regia e sceneggiatura alla Columbia University di New York.
Durante la carriera accademica ha lavorato nel reparto fotografia su vari set di produzioni indipendenti, ma il lavoro per cui, ad oggi, è certamente più conosciuto e riconosciuto (spicca fra tutte la menzione speciale ottenuta al Festival di Berlino 2018) risulta essere il suo corto di diploma, “Cena d’aragoste”.
In seno alla 14esima edizione del contest MArteLive, la giuria Oubliette composta per la seconda volta da Alessia Mocci e dal sottoscritto ha assegnato la menzione speciale al miglior cortometraggio a una vicenda che, pur non giovando di una fabula tutto sommato al di fuori dall’ordinario, è stata nobilitata da una narrazione, al contrario, di non comune pregevolezza.
Il racconto espone le conseguenze della decisione di Michele, un ragazzino dodicenne, di sottrarre alcune aragoste vive dal frigo di casa sua per offrirle alla madre del migliore amico, Leone: dietro un gesto di cortesia si possono infatti nascondere rivendicazioni a lungo taciute.
Il Q&A che segue sonda dunque le logiche che hanno condotto alla realizzazione del corto così come lo si conosce, attraverso cioè più di un ripensamento in corso d’opera, e nel farlo soppesa la bontà del risultato e dello sviluppo progettuale alla luce degli anni ormai trascorsi dalla fortunata stagione festivaliera.
R.L.: Rischiamocela partendo da una domanda che avrebbe potuto perfettamente concludere il nostro dialogo. Sono trascorsi ormai tre anni da quando si sono svolte le riprese di “Cena d’aragoste” e due da quando hai avuto l’occasione di presentarlo al Festival di Berlino. Con quale spirito incontri chi, come me, ti viene a parlare oggi di questa creazione?
Gregorio Franchetti: Lo spirito con cui ti incontro è una via di mezzo tra “che ti importa di quel corto, è vecchio!” e “che bello che ti importa ancora di quel corto così vecchio!”. A dire il vero ne parlo con più piacere adesso. In quei tempi mi veniva spesso chiesto, sia in preparazione che a Berlino, di spiegare le ragioni di un film così “personale”. Rispondevo con elementi autobiografici che però sotto sotto non mi sembravano per niente così rilevanti. Per esempio, oggi mi è chiaro che il lato personale del film non è dovuto a questa o quella impressione d’infanzia, ma alle domande di carattere morale che danno origine a quelle impressioni. Il distacco di questi anni mi ha fatto capire meglio il corto e dunque ne parlo più volentieri di prima.
R.L.: Hai mutato atteggiamento dunque, nel frattempo: pensi di averlo fatto anche con l’approccio ai tuoi nuovi progetti (di cui vorrei mi rendessi un po’ edotto), alla maturazione stilistica della messinscena…?
Gregorio Franchetti: La messinscena per me è sempre a sostegno del materiale, mai il contrario. Nel caso del corto bisognava costruire la tensione tra due giovani attori che erano spesso inconsapevoli delle tensioni tra i loro personaggi. Era necessario dunque farlo con una messa in scena non invasiva. Così ho deciso di costruire la storia sovrapponendo situazioni apparentemente ordinarie, ma che accumulandosi entrano in conflitto nell’immaginario dello spettatore, piuttosto che in modo più appariscente, con una evoluzione lineare da una scena all’altra. Si riesce ad ottenere, penso, più naturalezza, ma si rischia anche di essere troppo sottile o approssimativo in alcuni passaggi. Oggi, di questo approccio, manterrei il far sentire lo spettatore sempre in mezzo all’azione, costruendo il racconto tramite dettagli, sguardi, gesti intimi, sfuggevoli, piuttosto che tramite dialoghi – questo mi piace e mi diverte molto. Ma proverei a farlo in modo più controllato e preciso, con scene più compiute. Per quanto riguarda i miei nuovi progetti non penso di avere mutato di molto l’atteggiamento. Per ora sto lavorando contemporaneamente su un film corale di maturazione, ambientato in una comunità di giovani italiani all’estero, e su un lungometraggio ispirato dal mondo e dai conflitti del corto. Certo, mi piacerebbe un giorno girare film di generi e tematiche molto diversi, scritti magari da sceneggiatori più bravi di me.
R.L.: Non a caso, credo, quello che mi ha immediatamente colpito alla prima visione di “Cena d’aragoste” è stata proprio la capacità di sintesi della tua narrazione. Penso agli accadimenti, cioè alla loro chiara definizione in tempi e spazi limitati e delimitati, ma anche e forse soprattutto ai tratti essenziali e incisivi dei personaggi, credibili sin dalla prima inquadratura e comunque contraddistinti fino all’ultima da un margine di inquietante mistero, via via assottigliato dallo svolgersi della vicenda. Come ritieni di aver conseguito un risultato simile, tanto a livello di scrittura quanto a livello di regia? Ammiri l’uso che altri autori fanno di questo registro per così dire intimista?
Gregorio Franchetti: La caratterizzazione dei personaggi è uno degli aspetti più difficili in un corto, soprattutto se si prova ad emulare l’esperienza spazio-temporale di una giornata nel quotidiano. Ho voluto mettere in scena il più presto possibile un valore semplice e chiaro con cui il pubblico potesse relazionarsi: quello dell’amicizia tra i due ragazzini. Le scene dedicate alla vita interiore dei personaggi, come quando Michele ritorna a casa, acquisiscono molta più rilevanza emotiva se le viviamo in relazione alla loro amicizia, perché abbiamo qualcosa di concreto a cui tenere. Nella sceneggiatura le scene erano invertite e infatti non funzionavano. Sono contento che tu abbia trovato un “margine di inquietante mistero”. Quel mistero è stato il lato più interessante per me, perché non era evidente nella sceneggiatura. Forse è proprio l’inquietudine che sentivo nei temi e nei personaggi mentre giravo che ha aiutato il corto a salvarsi da un possibile sentimentalismo. Mi riconosco in quello che tu definisci un registro intimista. I registi-sceneggiatori a cui mi sono senza dubbio ispirato sono Maurice Pialat, Lynne Ramsey (specialmente il suo meraviglioso corto “Gasman”) e Louis Malle. Hanno tutti lavorato con giovani attori usando grande delicatezza e raggiungendo notevole complessità, una intimità rigorosa e mai fine a se stessa.
R.L.: Hai fatto tu per primo cenno al training con i due giovani protagonisti: mi piacerebbe saperne qualcosa di più. Li conoscevi già? Avevano alle spalle esperienze pregresse? È stato difficile “contraffare” le reazioni e i sentimenti portati davanti alla macchina da presa? Pensi che alla fine si siano resi conto di quelle tensioni instaurate fra i loro personaggi?
Gregorio Franchetti: Le prove con i due giovani attori sono state molto interessanti. Prima di tutto c’è una differenza di età di più di tre anni tra loro, che come sappiamo sono un’eternità. Poi c’era una differenza di esperienza. Il più grande aveva già recitato in molte occasioni e si comportava da attore, mentre il più giovane non aveva mai recitato prima. Queste differenze tra loro preoccupavano più me che il produttore durante il casting, ma appena abbiamo iniziato a lavorare si sono rivelate una opportunità. Si è instaurato tra loro un rapporto più interessante di quello in sceneggiatura. Si stuzzicavano e provocavano tra loro, in una competizione costante ma dal vincitore sempre incerto. Ovviamente ho soffiato sul fuoco. Poi ho cambiato quasi tutte le scene di interazione tra loro per adattarle al loro rapporto. Questa difficile ma necessaria perdita di controllo sul materiale è stata per me il più grande insegnamento del corto. Sì, è stato difficile contraffare i sentimenti davanti alla macchina da presa. Non mi sono fatto problemi a “barare” intenzionalmente quando necessario, cioè costruendo artificialmente, con mezzi cinematografici, emozioni ben diverse da quelle che gli attori recitavano. Penso che nonostante ciò si siano resi conto delle tensioni instaurate fra loro.
R.L.: Coltivando il tuo invidiabile curriculum ti sei trasferito a Londra e da lì hai scavalcato l’oceano per approdare a New York; non credo che in università ti abbiano raccomandato di cedere a cambi drastici della sceneggiatura in fase di shooting, e tuttavia sei il primo ad ammettere che l’adattamento, osato al momento giusto, ha giovato non poco all’opera: quali sono allora gli insegnamenti più importanti che ti hanno offerto rispettivamente le lezioni e il set?
Gregorio Franchetti: Venendo da una famiglia italo-americana ho sempre avuto un rapporto stretto con gli Stati Uniti, ma sicuramente è stato un gran cambiamento. L’università di Columbia mi ha dato molta libertà sia in fase di preparazione che in produzione, tant’è che sono potuto ritornare in Italia per girare. Quando ero più giovane ammiravo registi che esercitano un controllo assoluto su inquadrature e messa in scena. Questa libertà mi ha permesso di sbagliare e di capire di non essere così, di aver bisogno di una certa disinvoltura e soprattutto un po’ di imprevedibilità.
R.L.: Cosa ricordi dell’esperienza berlinese? So che eri il solo a rappresentare l’Italia. Ci sei più tornato? Hai particolarmente a cuore alcuni festival?
Gregorio Franchetti: Mi ricordo che ero molto felice. Non avevo grandi aspettative perché mi ero convinto, sbagliando, che le tematiche del corto non fossero interessanti per i grandi festival. È stata una soddisfazione di cui avevo bisogno, sia per me che per chi ha lavorato con me. Poi il festival finisce e ricomincia tutto da capo. In Italia ho a cuore Molise Cinema, che è stato il primo tra i pochi a proiettare il corto in Italia. Sono ritornato come membro della giuria e ho ritrovato un piccolo festival che con pochi mezzi e fuori dai riflettori fa una sintesi attuale e variegata del giovane cinema italiano.
R.L.: Chi è oggi Gregorio Franchetti e che posto vorrebbe occupare nel panorama del cinema, italiano e internazionale?
Gregorio Franchetti: Sono un regista che sta preparando la sua opera prima. Vivere all’estero per molti anni può essere un’arma a doppio taglio, ma qualsiasi posto occuperò proverò a far sì che sia in Italia.
R.L.: Una curiosità per chiudere in leggerezza: le aragoste alla fin fine… erano buone?
Gregorio Franchetti: Buonissime!
Written by Raffaele Lazzaroni