“La Casa Verde” di Mario Vargas Llosa: figli del medesimo luogo
“La Casa Verde” di Mario Vargas Llosa è un romanzo ingarbugliato, ch’aggroviglia il lettore e poi il lettore del lettore del lettore del lettore… Ed è confondente. Non confuso. Preciso nel suo essere caotico. Entropico nel suo essere attrattivo. È un casino.

La Casa Verde. Perché quel Mario mollò un pugno a quel… beh… lasciamo perdere, è un altro romanzo, che ci starebbe bene in questo. In cui accade tant’altro. In modo circolare e confuso. Un bordello di parole. Una Casa Verde in cui.
Andiamo con ordine? No. Il caos è foriero di cadute e di elevazioni, di tuffi nel Nulla. Di nuove scoperte. Ne leggerò altri, di romanzi di Mario? Sì. Come no. Non prima di un anno o due. T’è entrato nell’anima, almeno? Ogni libro ci riesce, che domanda! Cos’hai imparato? Delle nuove parole sudamericane. Tipo? “mandioca”, “paucares”, “huiro”, “huambisas”, “chiqua”, “huangana”, “chunchos” – e un casino d’altre.
“… E fu cosí che nacque, turbolenta e frivola, notturna, la Casa Verde.” – ogni opera letteraria lo è, una Casa Verde, un lupanare. Verde significa dotata di vis, forza. Gli occhi della protagonista sono verdi. Due occhi verdi non sono né belli né brutti. Sono verdi. Un’anomalia. Come i capelli rossi. Perché ce ne sono pochi. Anche di Case Verdi non ce ne sono tante. Richiedono un’eccessiva energia. Pensa a quale fatica s’è sobbarcata, Mario, a scriverla.
Piglia una pagina a caso, la 31, fitta di periodi indiretti e poi diretti, e poi indiretti. In-diretti a me, ovviamente. E il tempo? È reale, oggettivo? Quello della lettura è ormai il più probabile. Un tempo il tempo era un non tempo. Un qualcosa che accadeva e stop. Mario era seduto alla sua scrivania. E batteva sui tasti come un forsennato. Ogni tanto si chiedeva dove m’avrebbe fatto andare a sbattere? Perché m’ha tradito, si chiedeva, colui che si definiva il mio amico? Ma non lo era, forse, tuo amico. O forse sì. Chi lo può affermare con certezza. Ormai. Senti, tu. Eravate amici oppure no? Lo ero. E ci hai… No! Manco mi piaceva. Ogni storia umana è vissuta in quella Casa Verde, dove tutto assorbe l’energia necessaria per, non so come dirlo. Adopero la consueta metafora: per andare dove si deve andare, dove? Laggiù, in fondo a destra. Nel punto più incasinato, mi raccomando.
“Le bambine, che aveva portato Suor Angélica da Chicais non parlavano cristiano…” – cioè? – “Io parlavo pagano, madre, solo che tu non lo sapevi…” – e per questo il mio Padre preferito (di nome Aldo) tanto insisteva nel voler abolire le lingue, nel volerle metterle in uno sgabuzzino, a favore dell’esperanto, il luogo della speranza: che è immerso nel verde, immagino. Chissà. Pagus è l’abitante della campagna. Lo apprendo leggendo Il codice da Vinci di Dan (Brown).
La sua illusione si realizzerà presto, forse, a favore della lingua più prepotente, non di quella che sorge dall’amore, e si condivide con la persona amata. Vedremo. Intanto mi sento legato a questa qui, al balbettio che uso ora. Poi, si vedrà. M’interessano anche le altre. Perciò amo gli etimi. Perché conducono alla Casa Verde iniziale, foriera di tutti i peccati, dove tutte quei disgraziati idiomi si formarono, a suo tempo… e ancora c’è, quell’ignuda Casa Verde, da qualche parte. Passa un umano che, nel suo barbarismo, si rivolge all’amico. E io non lo capisco. E ci rimango male. Poi accetto. La mia ignoranza. Ogni lingua può essere imparata. Da creaturiello. Chiunque può fingersi tale. Quando la vita lo consente. È facile ingannare un altro adulto. Un bimbo no. Non lo freghi, lui.
“Quelle tranquille strade provinciali si affollarono di forestieri…” – venuti da fuori e che ora stavano entrando – “… sedotti dalla leggende della Casa Verde che si era propalata attraverso il deserto…” – il luogo della violenta attrazione, che non ti lascia scelta. La vita è un processo da cui non si può sfuggire.
Pena la morte. Non necessariamente atroce. Un mero spegnersi, poco a poco. All’improvviso.
Perché il romanzo è diviso in quattro parti e un epilogo, che tanto somiglia a una quinta parte? Perché sono tutte divise in capitoli? Prima di ogni parte c’è un capitoletto lungo qualche pagina senza andate a capo. Più caotico degli altri. Separato da una pagina immacolata. Oppure due. Perché? Non farmi domande a cui non so rispondere. Solo Mario, o il suo amico-rivale colombiano, possono rispondere. A me basta leggerle tutte le pagine, una dopo l’altra. E alla fine dire, ogni volta: Ahhhh. È fatta!
“La Casa Verde, don Anselmo! Gliela stanno bruciando! Le donne della Gallinacera e Padre García, don Anselmo!” – il fondatore di quel luogo, l’arpista, venuto da chissà dove, e ivi trapiantato…
“Non c’è stato nessun incendio, nessuna Casa Verde, – affermava l’arpista. – Invenzione della gente, ragazzi.” – una delle tante finzioni possibili…
“E Pantacha aprí gli occhi e li chiuse, erano rossi come il sedere di una scimmia e, tra i denti, in quel fiume c’era sangue, padrone, e Fushia sangue di chi…” – che è la prova che tutti sono immersi nel medesimo torrente verbale, e tutti paiono simili allorché emergono, su questa terra, dove ognuno sanguina in modo analogo al fratello. Fushia si credeva… era convinto d’essere il divergente: colui che finisce ogni volta per incasinarsi, quello che è pre-destinato a… Meglio non dirlo.
Lei è “tracagnotta” – però: “… ha degli occhi bellissimi, – affermò il Joven, – Verdi, grandi, misteriosi. Le piacerebbero, maestro…” – il quale dice che: “Certo, che mi piacerebbero” – del colore della sua Casa Verde (che forse mai ci fu e che forse non esisterà mai).
“Piura è una città con case, auto e cinema…” – mentre “Santa Maria de Nieva un villaggetto con selvaggi, zanzare e piogge che marciscono tutto, cominciando dalla gente.” – vani antagonismi!
Dice la verdognola “Bonifacia” – detta poi la “Selvática” o anche “Selvátiquita”: “… A nessuno può far vergogna la propria terra.” – che colpa può avere lei? Nulla è più umile di lei, che si lascia calpestare dal primo venuto. Che subisce l’altrui prepotenza. Senz’accettarla mai.
“… tocca la peluria delle sue braccia come le corde dell’arpa…” – modulando la più naturale delle sinfonie.
Sto pensando a quel disgraziato: “– Portami via, Aquilino, – disse Fushia, – non lasciarmi a San Pablo, non voglio morire lí.” – come se, morendo, rimanesse un qui e un altrove. E dice a un amico: “E tu che sei buono non mi avresti abbandonato nella selva. Mi avresti riportato nell’isola, vecchio.” – ogni sogno è penoso. È illogico. E noi ci aggrappiamo come dei folli.
“… e il tempo sta passando…” – e i cocci sono suoi. Ma esiste? Mario: esiste? Tu ci giochi col tempo. Pensi che esista. Nella stessa pagina quel tapino scorre avanti e indietro, muta la direzione, come nemmeno un’anitra. A te non interessa quello che combina. A te importa che agisca. E che non cessi di farlo, perché dovrebbe. Ho letto ‘sto quadrello di coccio perché il tuo vaniloquio s’è momentaneamente spento, il 13 aprile scorso. Ora forse lo sai, se esiste oppure no. Hai cercato di spiegarmelo ma non c’ho capito un bel niente. Anche tu avevi le idee confuse su tale argomento. Esiste lo spazio? Quante sono le dimensioni reali? Quante, le illusorie? Tutti ‘sti umani che vanno, nel tempo, da qui a lì, e poi da lì a qui, dalla selva al deserto, dalla città alla Casa Verde, convinti di poter un bel dì individuare la giusta dimora, come se le altre fossero inaccettabili, incivili, immorali. L’unico luogo che metteva tutti d’accordo era quella Casa Verde. Che fu arsa. Che si può costruire di nuovo. Che mai esistette. Forse. Qual è il colore della tua dimora, oggi?
“La bambina li guarda sottecchi, tra i capelli le luccicano gli occhi, scontrosi, verdi e selvaggi.” – luminosi, in grado d’indicare la strada a tutti i viandanti.

“Lituma si scuote di dosso la polvere che gli insudicia il vestito grigio, la cravatta a disegni verdi, le scarpe gialle.” – pronto a uscire nel mondo, senza limiti? Lo scoprirà. Prima o poi. Poi, forse.
“La gente è uguale dappertutto, figliola, – disse l’arpista – Ma è vero che la selva è bella. Ormai non mi ricordo niente di quei posti, tranne che il colore, perciò ho dipinto la mia arpa di verde.”
Se si dice verde speranza, il motivo è che, senz’energia, ogni evento si quieta per sempre.
Era verde quell’arpa. E vibrava con vigore. Con intensità.
“– Era proprio verde, – afferma la Selvática. – E voleva sempre che il Bolas gliela ridipingesse.”
Il romanzo si chiude con una diatriba idiota.
Da dove veniva quell’arpista?
Dal ventre materno.
Anche tu, Mario. Anch’io. Anche tu, chiunque tu sia. Figli del medesimo luogo.
Abitiamo nella medesima Casa Verde.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Mario Vargas Llosa, La Casa Verde, Einaudi, 1971