Paolo Mantegazza: quando l’artista nasconde al mondo la propria bravura
Quando muore a Torino nel 2018 all’età di 84 anni, Paolo Mantegazza è un artista quasi sconosciuto non per mancanza di talento, ma per la scelta personale di non mostrare, se non in rare occasioni e in contesti limitati, i propri lavori. Forse timidezza, eccesso di perfezionismo, paura del giudizio del prossimo oppure la fierezza di chi vuole coltivare solamente per se stesso il piacere delle proprie opere.

Da ragazzo Paolo Mantegazza, nonostante la grande passione che prova per il lavoro artigianale sul legno e la vita semplice della campagna, spinto dalle esortazioni dei genitori sceglie gli studi tecnici ed entrerà, come moltissimi uomini nel dopoguerra, alla grande Fiat. In fabbrica e nella famiglia vedrà trascorrere anno dopo anno la propria vita, senza tuttavia mai trascurare nei momenti liberi la passione creativa.
Pur se autodidatta in campo artistico, non frequentando corsi e non avendo maestri, affronta e si cimenta con ottimi risultati nella scultura, sperimentando tecniche e materiali diversi, e anche nella pittura mostra capacità sorprendenti. La sua passione lo spinge ad acquisire e studiare con curiosità insaziabile testi e monografie di artisti famosi, formandosi una cultura personale estesa e approfondita.
L’ultimo periodo della sua vita, finalmente libero dagli impegni lavorativi, lo trascorre dedicandosi completamente alla sua passione creativa, dimostrando una grande freschezza intellettuale.
In particolare si avvicina all’arte povera, utilizzando per creare le proprie opere integrati e dispositivi elettronici, a cui regala una nuova esistenza. In un certo senso questo è un parallelo con la sua stessa vita: Paolo Mantegazza dopo i tanti anni di lavoro in Fiat ritorna artista, le schede dopo essere state anima insensibile di computer e circuiti, si trasformano in elementi d’arte.
Dopo la sua morte, la figlia Giulia Mantegazza decide di dare alla memoria del padre la possibilità del riconoscimento che fino ad allora non aveva avuto occasione di ottenere e, grazie all’interessamento del direttore del MIIT Guido Folco, i suoi lavori hanno cominciato a essere esposti al giudizio di un pubblico curioso e ammirato.
Tra i temi più cari all’artista, sicuramente il più ricorrente è quello della famiglia.
Richiama un mondo primitivo e al tempo stesso modernissimo “Maternità”, realizzata in pietra verde di Balme nel 1999; i tratti semplici e morbidi ci fanno sentire tutta la forza protettiva di un abbraccio materno, un’essenzialità assoluta, depurata da ogni inutile abbellimento e dettaglio, che riesce a trascendere i limiti della materia e a emozionare.
“Maternità” è un titolo che ritorna spesso in Paolo Mantegazza, ad esempio in un’opera realizzata quattro anni prima in legno di platano; qui la struttura ha verticalità ed eleganza, si respira lo stesso sentimento, ma l’opera, proprio perché troppo perfetta nella sua realizzazione tecnica, manca in parte dell’espressività universale dell’opera precedente.
Una terza diversa “Maternità” è stata realizzata nel 1988 in legno di ulivo. Qui non c’è l’abbraccio e le due figure sono separate, ma intorno al bambino a capo chino, forse colpevole di una marachella e timoroso della punizione, il corpo della mamma sembra estendersi in un movimento di protezione, perdono, o forse nell’attesa paziente di uno sfogo e di lacrime fanciullesche da asciugare.
Non troppo dissimile è il tema di “Tenerezza”, realizzata dall’artista l’anno prima della sua morte.
Qui la mano che lavora il legno sa scivolare delicata e tracciare una trama sottile che richiama l’elegante raffinatezza di lettere disegnate da un paziente amanuense. Il gioco delle proporzioni, la fronte della madre posata contro la testa del figlio accennando un bacio, sono purissima poesia.
Con uguale maestria Paolo Mantegazza sa affrontare il tema del rapporto tra padre e figlio, dove al ruolo di protezione e amore materno, si sostituisce quello di maestro/allievo, guida/discepolo.
Nella scultura “Il cerchio della vita” (2015), l’abbraccio tra i genitori lascia lo spazio di un cuore nel centro e in quel cuore gioca un bambino vivace.
Alla celebrazione della famiglia, si contrappongono le molte opere dedicate all’uomo che medita solitario, pensa, forse soffre la mancanza di affetti e la difficoltà del comunicare con il prossimo. Tante le figure chiuse in se stesse, sedute con le mani unite o strette intorno al capo, la testa reclinata.
In “Pensieri” del 2010, l’uomo in terracotta all’interno di una finestra in legno d’ulivo, fa pensare a un eremita che ricerchi nella concentrazione assoluta la risposta agli amari affanni dell’umanità.
Le onde affascinano l’artista, che le cattura in un gioco di tasselli di legni che ricreano il movimento e la musicalità dell’acqua, richiamando alla memoria un ventaglio che si apra. Ricordo “Eco del mare” dove l’avanzare dell’ondata si interrompe davanti a una colonna di vere conchiglie.
Una delle mie sculture preferite è “Il tempo”, del 2011. Il legno bianco riproduce l’ingranaggio di un orologio e al centro ospita la figura di un ragazzino in rossa terracotta, seduto, un ginocchio sollevato dove sono posate le mani e una guancia, uno sguardo troppo serio rivolto alla sua sinistra, verso un domani che non conosce.
Come ho anticipato, in molte delle ultime opere di Paolo Mantegazza al legno lavorato si aggiungono circuiti integrati provenienti da decoder, computer e altri apparati, valvole, led, cd. Con il recupero di questo materiale complesso da smaltire, l’artista ci fa sentire la sua inquietudine per la tecnologia che ci domina sempre più (“Robot”) e sovente il suo sguardo si fa ironico e perplesso (“Totem enoelettronico”, “Decoder TV” e “Tyratron”).
La città di Torino viene omaggiata con opere come “Torino elettronica” del 2007, dove la mappa della città è un riuscitissimo e sorprendente collage di schede.
Written by Marco Salvario
Photo by Marco Salvario