“Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders: uno sguardo al di là del muro
A Berlino, nel suo peregrinare in mezzo agli uomini, un giorno un angelo incontra una trapezista per la quale comincia a provare un sentimento così forte da spingerlo a rinunciare alla propria essenza spirituale per farsi uomo, a rinunciare all’eterno per «avere una storia» immergendosi nel corso del tempo, a valicare il muro della materialità per vivere il sublime dell’unione tra uomo e donna.
In realtà questo muro non è così implacabilmente divisivo, se della presenza degli angeli si accorgono i bambini, e molti sono gli ex-angeli che circolano come persone normali continuando tuttavia ad avere strani contatti con i loro simili di un tempo; gli uomini stessi, infine, nei loro tentativi di volo ‒ col trapezio, col pensiero, con l’immaginazione ‒ riescono talvolta a librarsi e a dare una fugace occhiata al di là del muro, come accade ai poeti e agli artisti.
«Quando il bambino era bambino, lanciava contro l’albero il bastone, come fosse una lancia, che ancora continua a vibrare», recita la poesia di Damiel, l’angelo protagonista del film; «Quando l’umanità avrà perso il suo cantore, allora avrà perso anche l’infanzia», dice a sua volta il vecchio poeta il cui nome ‒ scopriamo dai titoli di coda ‒ è Homère.
La trapezista stessa potrebbe essere un ex-angelo: alla pari di Peter Falk (nella parte di se stesso, attore americano a Berlino per lavoro), anche lei avverte la presenza di Damiel; nella sua prima apparizione ci viene presentata sul trapezio con ali di cartapesta, e nel monologo finale porta orecchini a forma di ali; sempre nel monologo finale dice a Damiel: «Sarà una storia di nuovi progenitori».
Da notare che il circo in cui avviene il primo incontro tra lei e Damiel (e in cui si inserisce la prima sequenza a colori) porta il nome del direttore della fotografia del film ‒ Henri Alekan ‒ con una sorta di mise en abyme del rapporto tra angeli e uomini, giacché il bianco e nero e il colore si alternano a seconda che il “punto di vista” sia al di qua o al di là del “muro del mondo”.
Il tema dell’artista che fa epos trascendendo le contingenze della realtà e della propria epoca ‒ personificato qui nel vecchio che porta il nome dell’archetipo stesso della poiesis ‒ ci riporta a due nuclei fondamentali del primo Wenders: quello del narrare come necessità e certezza spirituale, e l’interrogazione continua sul rapporto tra forma e narratività. Temi che, attraverso fasi successive di elaborazione (da Falso movimento a Nick’s movie a Hammett) erano giunti a un punto-limite di crisi con Lo stato delle cose, trovando poi una temporanea e stupenda soluzione in bilico tra l’epica e il blues in Paris, Texas.
Ne Il cielo sopra Berlino, uscito nel 1987 e che riallacciò la collaborazione del regista con Peter Handke dodici anni dopo Falso movimento, questi temi sono di nuovo messi in gioco, non solo poeticamente ma anche strutturalmente, con un notevole riflesso nel linguaggio del film, “sperimentale” soprattutto nei movimenti di macchina e nel montaggio sonoro, per l’epoca innovativi.
«Questo film è dedicato a tutti gli ex-angeli e in particolare a Yasujiro, François e Andrej» si legge nei titoli di coda, e vengono in mente gli antecedenti “angelici” più famosi: La vita è meravigliosa di Capra, La strada di Fellini, ma anche Miracolo a Milano di De Sica e, forse, Anche gli uccelli uccidono di Altman.
I riferimenti cinematografici abbondano all’interno del film: nell’uso del bianco e nero sembra di scorgere più di un omaggio ai Maestri russi degli anni Venti; l’inquadratura iniziale dell’occhio è un riferimento esplicito a Vertov, ma non può non far venire in mente Un chien andalou di Buñuel e, anche, Film di Beckett e Schneider. Un riferimento beckettiano appare poi in una scritta su un muro ‒ sarebbe interessante fare un’analisi dettagliata delle scritte e dei dipinti murali che appaiono nelle diverse sequenze, in relazione allo svolgersi della trama ‒ che recita: Warten auf Godard, “aspettando Godard”.
Dopo Il cielo sopra Berlino Wenders si lancerà in un progetto ambiziosissimo e poco riuscito, Fino alla fine del mondo che, dopo i fasti degli anni Settanta e Ottanta, inaugurerà un periodo di incertezza creativa del regista. Il quale nel 1993 proporrà anche una sorta di sequel al Cielo sopra Berlino, intitolato Così lontano, così vicino, alquanto privo di vera ispirazione.
Per rivedere il meglio del regista tedesco bisognerà aspettare fino al 2005 ‒ al netto del bellissimo documentario Buena Vista Social Club e del pur interessante Million Dollar Hotel ‒ grazie al ritorno alla collaborazione con Sam Shepard per Non bussare alla mia porta.
Tuttavia anche da allora, a parere di chi scrive, il meglio del cinema di Wenders è rimasto confinato più ai documentari che ai film di finzione.
P.S.: «Mi è impossibile disprezzare ciò che erroneamente viene chiamato amore carnale; in quanto sostanza di un sacramento, lo rispetto come il pane, che è sostanza di un sacramento; […] non c’è mai un amore tutto carnale, mai un amore tutto spirituale; ognuno dei due contiene sempre qualcosa dell’altro, sia pure in minima parte. Noi non siamo puro spirito, né pura materia, e forse gli angeli ci invidiano questa mescolanza continuamente mutevole dei due elementi.» ‒ Heinrich Böll, Lettera a un giovane cattolico, 1961
P.P.S.: Il Muro, quello letteralmente materiale, cadrà poi a Berlino due anni dopo il film, nel novembre del 1989.
Written by Sandro Naglia