“La banda dei sospiri” di Gianni Celati: perché nella disgrazia esistono i tram!
Tutto ebbe origine quel giorno in cui assistei a un incontro organizzato da Gino Ruozzi al Teatro Valli incentrato sulla figura e l’opera di Gianni Celati e, precisamente, in seguito a un ragionamento di Ermanno Cavazzoni, il quale tra l’altro disse che, come fanno due amici al bar, lui e Gianni spesso discutevano animatamente su chi fosse più grande, Ariosto, secondo Ermanno, o Boiardo, secondo Gianni, tifando per i due artisti come si fa per la squadra del cuore.

Non fu questo che mi sommosse, bensì il fatto che Ermanno disse che il suo boiardesco amico diceva che la scrittura doveva essere un po’ svaccata, nel senso di svicolante, ecco perché teneva per Matteo. Ludovico in fondo lo era anche lui, svaccato, ma in modo meno appariscente. Ludovico lo lessi anni fa, appena potrò mi butterò a pesce su Matteo.
Non bisogna dimenticare che sulle rive del Gange la vacca (Gautama) è sacra, e che lo stesso Gautama Buddha un po’ bovino lo è, sennò si chiamerebbe diversamente. Qualcuno dirà che nel suo caso significa appartenente al ramo Gotra degli Śākya, ma sulle parole, si sa, si può giocare all’infinito.
Premetto che ho appena finito di trangugiare Bar Sport del mio omonimo Stefano (Benni), e che sono arrivato a pagina 138 del presente libro La banda dei sospiri, quando finalmente mi sono deciso di iniziare a svaccare la mia reazione. Questo è il motivo per cui il lavoro di Gianni mi pare abbastanza omogeneo a quello di Giovanni (Verga), si fa per dire ma non troppo, perché tutto pare verista dopo aver letto Bar Sport.
Narra di una famiglia che sono abbastanza contento di vedere da fuori, e non da dentro, composta da “padre”, Federico detto “Barbarossa”, da “fratello” Michele detto “Strogoff”, da “madre”, di cui non ricordo di aver letto il nome di battesimo, ma solo l’appellativo. E dall’io narrante, che prende le distanze dagli altri tre. Quanti anni abbia quando scrive, o dice di scrivere, è un mistero. Strogoff è quello che m’intriga di più: nemico giurato di Barbarossa, ha un carattere particolare, che un po’ mi ricorda qualcuno: me.
Dice l’io narrante (il fratello minore detto “Garibaldi”): “Il fratello la sua idea sarebbe stata di partire un bel giorno per Singapore e portarmi con mecome aiutante indigeno…” – leggi: servo. E “per questo dovevo obbedirlo e star zitto quando parla, perché mi diceva: tu non vai lontano senza di me.” – non ci si impressioni per questi cambi di tempo verbale, perché basta solo farci il callo. Io non ho mai ordinato niente a nessuno, manco a un figlio, però (svaccatura): mi piaceresse.
“Il padre sognava di poter un giorno scacciare di casa il fratello, perché ai auoi tempi si faceva di scappare di casa i figli, ma ai nostri tempi non si faceva più.” – e non so quale generazione avesse meno torto, quando in un Altrove distante meno di un migliaio di chilometri ancora vige il detto quannu su muortu tinni fai nu tianu, (di me) quando sono morto te ne fai un tegame, mi cannibalizzerai!
Fratello è, per Padre, un onere inutile, ergo dannoso, ma non riesce mica a sbarazzarsi di lui. E vuole sempre dei vestiti costosi, ma soldi in casa ce ne sono pochi. Padre è uno che sa solo schiamazzare perché ragionamenti a bassa voce non è buono di farne. Fratello è uno molto reattivo. Madre tace e acconsente a tutti, svenendo un sacco di volte: è un continuo!
Lui, Garibaldi, dice: “Io che non c’entro niente ed ero piccolino, sempre capitare in mezzo a queste sarabande di urli.” – stanno tutti ad alluccà dicono a 700 chilometri da lì, col verso dell’allocco, che non fa dormire nessuno più. A padre “gli veniva su il vento d’ira e così si finisce sempre in burrasca.” – e io sono preoccupato, avendo letto a pagina 4 “che a questo fratello gli ho sempre scusato tutto perché lui è stato molto disgraziato” – come finirà (ho appena sospirato)? Come si concluderà la lettura?
Un mini discorso sui tempi che vanno e vengono avanti e indietro: quando uno racconta a voce (e questo libro è così), capita sempre, e poi considerate che il tempo è un’illusione, che se smette di andare e venire e va in cassa integrazione, e sono c…, problematiche sempre più mosce.
“… ma però…”, a pagina 11, ma non solo: è come dire là c’è, e non là è: il pleonasmo appesantisce un po’, ma quando fa freschetto va fin troppo bene.
“Federico aveva fatto solo le scuole serali ma si inventava moltissime cose, come e anche più di quelli che avevano fatto le scuole diurne…” – anch’io ho fatto le serali, nel senso che era notte per me quando scontavo la pena connessa, anzi sconnessa, alla scuola. Anch’io mi vidi costretto a ricrearmi una lingua e una storiografia.
Fratello e padre sempre uno che cozzava contro l’altro, e in mezzo c’era lei, santa madre, che “soffriva di questi contrasti per il fatto diceva che era moglie, ma anche madre.” Che il padre non stia bene lo dice il fatto che imprecava contro le gambe aperte della madre di quando lo aveva concepito: “Diceva: quella porca se teneva le gambe chiuse. E poi con altri ragionamenti: avrebbe fatto meglio a fare una merda invece di fare me.” – parole che dolgono al lettore, figuriamoci allo scrittore. Federico aveva la mano pesante, non solo il fiato. E menava tutti, soprattutto madre.
Garibaldi è fiero di sé, e dei suoi ricordi (ma quanti anni ha adesso?): “… in bicicletta ero fortissimo a pedalare anche senza mani e con un piede per aria che saluta la gente.” – col piede così non ci ho mai provato, ma andare senza mani era per me la regola.
Viene assunta una bionda che deve aiutare in famiglia e nella fabbrichetta di panni gestita da madre: somigliante a Veronica lake, e così d’ora in poi sarà chiamata, spesso solo Veronica. C’era poi un suo fratello chiamato, non a caso, vedi zia Wikipedia, Alan Ladd, spesso solo Ladd. Una storia drammatica la loro. Non so se ne voglio parlare. C’è poi un altro fratello, e una sorella mora che “aveva anche lei il nome d’una città” – questa non l’ho capita ma non c’ho mica voglia di tornare indietro a cercare.
“Dopo l’arrivo della bionda in casa il fratello Strogoff gli sono venute delle idee.” – ed è proprio vero che l’unico anacoluto buono è quello vivo!
Strogoff va in una scuola da siuri e “i suoi compagni di scuola lo tenevano a distanza tranne pochi, meno ricchi.” – e io mi chiedo perché si dice plutocrazia quando Pluto notoriamente non ha mai il becco di un quattrino e scrocca sempre da mangiare a quel mezzo investigatore di Topolino.
Federico lavora come “servo addetto all’ufficio dei suoi superiori aguzzini” – e lo maltrattano per l’intero orario di lavoro anche per via delle spiate, spesso inventate, dei suoi colleghi maledetti. Ecco perché “era poi a casa che si sfogava a dirne tante”.
La classe in cui milita, manco fosse una gang di deliquenti, l’io narrante è più proletaria e lì c’è di tutto, compreso “un ripetente che l’aveva vista e sapeva descriverla alla perfezione.” – si tratta della cosiddetta “topa delle donne”, che manco io sapevo nulla di lei, e quando dissi a Franchino, pià abziano di 1000 giorni, che le donne non c’avevano niente, e lui mi seppe correggere: che dici!… hanno la f…!
E pensare che io credevo che c…o fosse il diminutivo di cazzotto, per cui dicevo: Smettila sennò ti tiro un c…o! Questo fino a tarda età, poi a tredic’anni ebbi una serie esaustiva di illuminazioni.
Stavo pensando a quelle femministe di oggi, a cosa penserebbero del pittore di corte (si fa per dire, un povero disgraziato che alloggiava lì) della famiglia che dipingeva nudi ma “che se la donna non sta zitta a lui non gli viene l’arte”… O tempora o blondes! E la picchiava, la moglie modella sempre spogliata, mentre il buon “Federico dava sì qualche schiaffo alla madre per il nervosismo, ma mai tante legnate in testa per amore.”
Mamma santissima, che libro sto leggendo!
I rapporti fra i due galletti, padre e fratello, sono sempre tesi e la madre ne soffre tanto: “Così spesso si prendeva lei una dose di botte destinata al fratello, per il vizio di volersi interporre a metterci una parola dolorosa di madre.”.
Cognomen omen, nel senso che è la funzione o l’aspetto esteriore che determina il soprannome: il custode del cesso “assomigliava in pieno nella faccia e nei baffi al ritratto al re d’Italia, che era “appeso nella scuola”, da cui deduco che si è ancora in pieno anteguerra.
A seguito di una presunta marachella, “i carabinieri hanno preteso di interrogarmi per sapere di preciso se era degenerato o no. E non sono riusciti a saperlo, come del resto nemmeno io”: e il lettore men che meno, nonostante che abbia la piena contezza di quel che ha scritto l’io narrante.
“Io mi chiedevo spesso perché noi siamo fatti così, tutta la gente della nostra razza con la tara nel cervello. Non la famiglia della madre, si badi, che era tutto il contrario, cioè bravissimi artigiani, gente con la testa a posto che pensa di far bene il suo lavoro e non fa scandali di confusione.”: il caos di padre e dei suoi consanguinei sarà poca cosa rispetto all’entropia universale, eppure…
Era una “tribù di sbraitoni”, nonché disonesti non solo intellettualmente, perché questo capita a tutti, anche economicamente.
“… anche se uno è onesto le disgrazie della vita vengono su come i funghi e costringono a tribolare come bestie”: non solo sfruttate malamente, ma anche spersonalizzate.
Il compagno di Garibaldi è Veleno, che era il soprannome di Benito Lorenzi, ricordate? Non credo sia un caso. Una donna che non gli dispiaceva era un tipo alla Carmen Miranda, e così sarà detta, oramai.
“Veleno era un giocatore di football bravissimo, e noi andavamo sul campo di calcio alla domenica per vederlo fare le prodezze con la palla.” – che strano!
Veleno poco mi piace: “… dice che lui è il capo e noi seguaci dobbiamo sacrificarsi…” – non ci, si, perché si è alla fine tutta una banda.
L’io narra come pare a lui, e a volte premette: “Adesso viene il momento di raccontare la storia di una ostetrica vedova e paffutella, abitante nella nostra casa al piano di sopra.” – e poi aggiunge: “Questa è la storia successa molto tempo prima dei fatti che ora racconto, circa un anno prima della passione del Barbarossa per Veronica Lake.” Non la riporto ma do le coordinate: da pagina 134 a pagina 138.

“Federico diceva che io sto sempre con la testa tra le nuvole e mi dava schiaffi per risvegliarmi da quel sonno.” – al che segue una dichiarazione di scarsa autostima. Quel povero io narrante è sempre vissuto con due maschi che si credono maschi alpha ma che forse non sono nemmeno maschietti aloha. E ha sviluppato dei complessi: “essendo precisamente come uno che non riesce mai a combinare niente di giusto e gli viene tutto sbagliato.”
Che ci può fare? Tutto o nulla, o metà. Vedremo. Ognuno ha l’apprendistato che si merita.
“… si credeva a quei tempi che dovesse scoppiare abbastanza in fretta una rivoluzione, con ammazzamento di tutti i maiali superiori e triondo del popolo e della libertà.” – primi anni ‘50, quindi.
Si parla di De Gasperi a un certo punto, e l’io lo chiama con un appellativo che mi vergogno di riportare.
Intanto l’ex “corriere dello zar” si autopromuove “Capitan Nemo”, un’altra fantasia penosa. Come andrà a finire? Si tratta di un esaurimento nervoso, temo.
L’io narrante comincia a spazientirsi: “… prendevo una pietra e minacciavo di dargliela sulla testa se non sparisce subito dalla mia vista.”
Tutti esauriti, e lui non ne può più, e dice: “Ho altro da pensare io.” – a cosa? A sopravvivere in questo mondo con un pizzico di dignità!
Nemo “stava sempre in soffita a rimuginare” – cosa rimugina? Che gli è venuta addosso la malinconia, quindi bisogna lasciarlo solo a rimuginare, a padire, diciamo in Emilia, come le lasagne che mangiate subito non sono mica croccanti.
Intanto quel prostrato arrogante non è più Capitan Nemo, ma Phileas Fogg, sempre verniano, uno che vorrebbe visitare il mondo stando in alto, scendendo in strada il meno possibile però.
Non vedo l’ora di finirla ‘sta storia, ché mi deprime assai. Tocca delle mie corde che parevano sopite.
Poi diventa “Ettore Fieramosca” e anche il suo rivale “il conte De La Morte”, alternandosi con l’io nei due ruoli. L’io è sempre “Garibaldi”, poi anche “Venerdì”.
Fratello scrive tanti romanzi, ma tutto sparisce, evapora. Legge, nasconde, straccia quello che ha scritto. Catartico? No, sconclusionato! L’io narrante gli dà dei saggi consigli, ma i geni non conoscono la saggezza, se la vedono sono capaci di calpestarla. Di sputarci addosso. Di maledirla.
L’io scoreggia volutamente in pubblico. Madre si vergogna e gli chiede di non farlo. L’io si chiede: “Ma allora devo io sopportare in silenzio questo destino di essere nato in un posto pieno di gente venuta al mondo solo per seccare il suo prossimo?”: mi sa di sì.
L’io di quell’io cresce fin troppo, come pure l’altezza fisica, e dice: “… me nessuno mi tocca, e so fare delle mosse di lotta che butto per terra chiunque, dunque non c’è da preoccuarsi.” – ma io un po’ preoccupato lo sono.
Dei personaggi, ho citato solo i più rilevanti, ma alla fine i minori hanno pure diritto al loro squarcio d’ora di notorietà. Non tutti, sennò mica ce la faccio a finire la reazione…
Fra loro non possono mancare il duo di piedipiatti, “Gallinone” e “Piangerò”, che al culmine della loro miseranda carriera arrestano “Hedy Lamarr”, un tipo che fa del male soprattutto a se stesso più che a chi non riesce a evitarlo, che “andava in giro nudo come la celebre attrice del cinema che si faceva vedere spogliata sullo schermo, lui nudo sotto il gaberdine, prima andava nei cinema senza le mutande ma con i calzini, e si avvicinava un ragazzo a lui…” – omissis. Riporto la sua reazione alla vista di Piangerò: “Mi fai schifo. Questo per via della sua faccia da morto non atta a suscitare l’innamoramento né d’un uomo né d’una donna secondo me.”
Mentre “i sospiri di Gallinone erano un po’ da pollo, mentre quelli di Piangerò erano un po’ da morto.”
Il romanzo si conclude con i due fratelli che decidono di scappare da casa, ma mica vanno d’accordo, e si danno anche dei brutti nomignoli, tipo “Fagiolino” e “Sganapino”.
“… e stavamo lì per un po’ senza parlarci ma guardandoci di lontano in cagnesco.” – incomunicabilità fra consanguinei è la più triste che c’è. Ma poi fratello gli fa, all’io: “vieni e vedrai”.
E quell’io mica se la lascia perdere, st’occasione: “Così quando lui salta su quel tram, ci sono saltato anch’io con un balzo acrobatico.”
Nella vita c’è poco da fare, se non viverla fino in fondo. Per fortuna che ci sono i tram! Saliamo, “io”, “fratello”, Gianni e Stefano, che poi ci arriviamo tutti al Capolinea!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Gianni Celati, La banda dei sospiri, Einaudi, 1978