“Napoli prima di Napoli” di Daniela Giampaola ed Emanuele Greco: mito e fondazione della città di Partenope
Nel leggere un’opera scritta a quattro mani, il lettore tenta inevitabilmente di carpire le differenze stilistiche e sostanziali fra i due autori, che agiscono come due pianisti, ognuno dei quali è alla ricerca del proprio pezzo, che deve però armonizzarsi con quello dell’altro.

Essendo io un amante della città che un detto celebre dice che è tanto bella da voler poi morire: Vedi Napoli, ma prima dovrai far testamento!, non vedo l’ora di leggere quest’opera intitolata Napoli prima di Napoli di Daniela Giampaola ed Emanuele Greco.
Bellezza e Morte sono due sorelle complementari. A Rèş as dîs, di un ingrediente di una pietanza, l ē la só môrt, quando rende unico quel cibo, per esempio i funghi con le lasagne, con l’ovvio augurio che non siano tossici. Quel che alla fine non ci uccide, pur alzando pericolosamente il tasso del colesterolo, ci era parso non solo incapace di arrecarci del male, ma soprattutto piacevole. Tutto è duplice e antagonistico: imparai due adagi, durante la mia permanenza in quelle assolate lande. Il primo è che a tavola non s’invecchia, il secondo è che, in quel locum godereccio, si lotta con la morte.
Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris. Il compito di un archeologo è di far rivivere sacralmente quel che è stato sepolto dalla rovina ammucchiata dal tempo.
Altra passionale considerazione: a Napoli c’è tanta di quella bellezza che agita il cuore in modo eccessivo, anche se c’è sta’ accorti, guaglio’! Non c’entra nulla, perciò non riesco a tacerlo. Su un treno m’imbattei una volta in un giovane che stava scendendo a Scalea (io mi sarei fermato prima, a Pisciotta), che mi magnificò la bellezza di quella cittadina balneare che so di origine paleolitiche, e che purtroppo mancava al mio palmares di turista compulsivo, e gli promisi di visitare al più presto, e lui, che ne era felice, m’avvertì che avrei dovuto fare attenzione, che era chìna ‘e napuletani!
Ogni luogo del cosmo, e Napoli (come Milano, New York, Gavâsa, che a gh ē lē e pó Parigi) non fa eccezione, ha avuto un prima e avrà un dopo, e di doman non c’è certezza. Del passato, invece, pure: leggendo il saggio noto come ogni teoria storica sia avallata, contrastata e negata dai numerosi studiosi, essendo popperianamente falsificabile, mentre in passato aveva un’origine quasi divina.
Il capitolo che inaugura il saggio è Prima di Partenope ed è scritto da Daniela (userò, per vezzo e per comodità, il nome di battesimo per entrambi gli autori) che subito evidenzia la sua precisione di archeologa (nella quarta di copertina è definita “Funzionario nei ruoli del Ministero della Cultura, con responsabilità della tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico del centro storico di Napoli”; mentre Emanuele “già professore ordinario di Archeologia classica nell’Università di Napoli ‘L’Orientale’, è stato Direttore della Scuola Archeologica italiana di Atene”, per cui dovrei essere in buone mani).
“Il sito di Napoli offre condizioni e risorse ambientali particolarmente propizie per l’occupazione di età preistorica e protostorica.” – e nella nota, come nelle infinite che si susseguono, è indicata la fonte a cui si rimanda, ora a un saggio scritto da Daniela insieme ad altri autori. Il che testimonia il carattere esaustivo del saggio, che servirà al lettore per farsi un’idea generale dell’argomento.
Il libro è così infittito di dati, la cui esegesi si rivela impossibile. Consiglio a chiunque ami ‘sta città a ogn’ora sempiterna e chi, come il sottoscritto, desidera ri-visitare come se fosse la prima volta, con la bocca spalancata, di recarsi appresso il saggio che sa diventare un prezioso baedeker, termine che poi non significa altro che guida tascabile per turisti. Non essendo pesante, può essere tenuto in un sacchetto di plastica che, stante la mia pregressa esistenza in quei lidi, si dice colà busta (che nelle Gallie è un involucro di carta). In realtà entrambi i termini sono similmente errati. Sacco ha un’origine ebraica, greca e latina, ed era un contenitore di tessuto (la iuta, per esempio). Busta ha una derivazione greca e latina e significa in primis scatola.
Appassionatamente, io amo lo studio delle parole (la linguistica, la scrittura in sé), come i due autori dimostrano d’essere attratti da ciò che si deduce dalle pietre (la storia, l’archeologia). Il fascino delle parole conduce prima alla lettura e poi alla scrittura e, infine, al dialogo. Le parole sono pietre è un reportage di Carlo Levi dalla Sicilia, nonché un detto di quelle parti. In questo saggio appare una simile verità: le pietre sono parole, da analizzare e comprendere, per tentare di spiegare qualcosa dei tre interrogativi: donde veniamo, chi siamo, dove andiamo? Mé e dègh e te t’intend, diceva mia madre: io dico e tu capisci. Questo è l’importante. Tutto parla, bisogna soltanto provare a comprendere il discorso che, pur giacendo fuori di te, ti sta aspettando.
“Sembrerebbe, dunque, che i Greci arrivino sulle sponde di Napoli senza incontrare una presenza indigena o, quanto meno, una comunità indigena organizzata.” – il che induce l’autrice ad ammettere che ancora tanto si ignora di quel che sia avvenuto prima dell’arrivo dell’archeologo.
Nel passare al successivo capitolo, confesso nerudianamente di aver vissuto per trent’anni, sia pure in modo saltuario, tra la Costiera Amalfitana e quella Cilentana, per cui quella è anche terra mia. Sono assai interessato a quanto scrive Emanuele a pagina 18 e seguenti: “… dobbiamo tenere nel giusto conto anche Molpa, che compare nell’area a sud di Velia…” – una sirena che diede il nome a una città, poco oltre Palinuro. Ricordo di aver visitato a suo tempo l’Antiquarium presso quella frazione di Centola che, come un’araba felice (lapsus linguae), rinasce ogni tarda primavera, per poi assopirsi a inizio autunno, quando la maggior parte dei suoi alberghi da completi, diventano improvvisamente chiusi. Dopo aver letto questo mirabile saggio, mi auguro di tornarci.
Molpa “è il nome di un abitato indigeno e del vicino fiume Melpes.” – eponimo dunque, e non capisco se sia il Lambro (assai più breve dell’omonimo lombardo), detto anche Rubicante, o il Mingardo, o un loro progenitore. Da zio Google vedo che Molpa è oggi un colle sito a ovest di Capo Palinuro, isolato tra le foci dei suddetti fiumi. E che Melpes è il Mingardo. Come capita agli umani, Molpa fu un giorno sostituita dalla collega Ligeia, sirena più nota anche per aver ispirato scrittori del calibro di Edgar Allan Poe e Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
L’antico geografo Strobone scrisse “che ‘prima che avessero inizio le Olimpiadi, gente di Rodi, navigando lontano dalla loro isola per la salvezza degli uomini, aveva fondato Rhode in Iberia, Parthenope nella terra degli Opici ed Elpie nella Daunia.” – e, oltre un millennio dopo, Rodìo, sito a 350 metri s.l.m., a otto chilometri a nord ovest da Pisciotta, (ma a farlo furono, si dice, i cavalieri di Malta, presenti anche nella storia amalfitana, a fondarla). Per Rhode Island, senza alcuna fretta, attendo notizie.
Partenope è il nome di una delle tre sirene (le altre sono Licosa e la citata new-entry Ligeia), per cui Emanuele si chiede “quale ruolo dobbiamo assegnare alla Sirena Partenope e le ragioni del suo radicamento nel golfo di Napoli.”
L’impressione che ho è che, mentre Daniela è minuziosa nei particolari e nell’esame fisico, archeologico nonché urbanistico dell’ambiente, compito di Emanuele è di offrire un’ampia visione storica, nonché sociale, dello stesso.
È poi citata un’intuizione di Alfonso Mele “2014”. E qui a me, che studioso non sono, viene da sorridere quando un’opera è indicata col nome dell’autore e dall’anno di pubblicazione, come se fosse un reperto; per cui scioccamente mi domando: e se l’autore ne avesse scritta più di una in quell’anno?, e la parte residua e più saggia di me non può che rispondere: le si legga tutte e si scoprirà infine il locum di riferimento. In quel saggio Mele “ha acutamente sottolineato l’accostamento della parthenos (‘vergine’) alla radice ops-, che farebbe ricevimento alla voce, al canto…” – per cui le Sirene sono “vergini che hanno rifiutato il matrimonio”, per cui tre potenti dee (che non cito per il rispetto della privacy) le hanno punite, e una di esse ha amputato loro le ali “trasformandole in rocce bianche”. La potenza insita nelle parole ha dato un senso al fiato dell’homo, che principalmente grazie a questo, si è definito, non sempre a ragione, sapiens. Così prosegue Mele: “La morte della Sirena in questo contesto è qualcosa di più che un mero sopravvivere come eponima, è un rinascere come sposa e madre…” – non più illibata, che diventa “eponima non di un’isola ma di una città che l’assume come una divinità garante e simbolo della sua esistenza.” – e della sua sopravvivenza alimentare.
Emozionante è l’accenno a “una vicenda erotica in un romanzo di autore ignoto” – ridotto ormai a pochi “frammenti”, risalente al “II-III secolo d. C.”: Partenope è tanto bella che tanti uomini la concupiscono che, quella, per mantenere la sua verginità, “si sarebbe tagliati i capelli”, diventando “una fanciulla la cui reputazione principale è ora la saggezza.” – e lo saccio che song nu poco sboccato, ma non riesco a trattenermi, e ora mi sfugge un Maronna Mia!
Il secondo capitolo era intitolato Miti di fondazione: la sirena Partenope. Il terzo, ancora di Emanuele, è L’arrivo dei Greci nel golfo e la fondazione di Parthenope.
Nel sangue dei miei due consanguinei guaglioni, zurieddi a Pisciotta/Pixuntum (dal greco zōo?, così aveva ipotizzato Maria Marsicano, la mia con-sorte, che è per metà amalfitana e per metà di Pixuntum, e, per indole, greco-saracena), scorra del sangue eubeo, in quanto quegli isolani erano i maggior viaggiatori dell’epoca, come poi lo saranno coloro che, su una delle coste più celebri al mondo, costituirono la prima Repubblica Marinara.

E qui ringrazio il Professor Greco (nomina sunt omina) di una chicca che il Gallo-Goto che cova in me ignorava di ignorare. I romani avrebbero colonizzato, da colere, coltivare (ma anche venerare: la madre patria), restando, per quanto si allontanassero dalle loro radici, Romani cives, restando parte della medesima pianta, come quella foresta di dieci acri di pioppi tremuli dello Utah in cui circa quattromila alberi mantengono un unico apparato radicale. Il Greco fondava ex novo, compiendo un apoikismòs. Il suo punto di arrivo, e spesso di non ritorno, era detta apoíkia, che ha la stessa radice apò, che dà l’idea di chi è andato via, come in apostasia, nonché in apostolo, che è colui che abbandona il padre per diffondere il Verbo nel mondo, in una sorta di apoteosi (di chi è ora colà, presso Dio). Per cui “apoíkia, alla lettera, indica la ‘partenza’” – per individuare un mistico e mitico Altrove, dove sarà fondata la nuova città.
I capitoli di Emanuele, come già quelli di Daniela, sono così densi di informazioni che una sinossi sarebbe assurda, per cui invito a leggere l’intero volume e poi prendere una settimana o due di tempo per pensarci su.
“Cuma fu fondata da Ippocle…” – e fu uno dei tanti inizi, mai del tutto originali, ché bisognerebbe scendere un po’ a sud-est, forse a Kibi, in Etiopia, o forse più giù ancora, e più a ovest. E poi, chissà dove, qualche atăvus ben più lontano dell’urbilaterio, Vd. Tomasello 2022, il cui etimo appare incerto: urbis latericius?
Il passato non ha mai fine, pur non essendo illimitato, e questo sembra un paradosso, come lo è in riferimento al cosmo che, secondo Einstein, è senza limiti, essendo in eterna progressione. Il passato forse non lo è, ma chissà! Il suo studio, forse sì, anzi, senza alcun dubbio.
Il quarto capitolo, di Daniela, è Storia archeologica di Parthenope. E ora mi sto perdendo in tutti quei vicoli, strade e siti archeologici. Girando per Napoli, recherò meco il libro avvolto nella busta.
Il quinto, di Emanuele, è Prima fondazione di Parthenope: “Il modo antico di abitare in Grecia era la kōmē, il ‘villaggio’, da cui sono derivate le espressioni sull’occupazione di un dato territorio katà kōmas o kōmedòn (cxioè ‘tramite villaggi’).” – anche a Pixuntum (Caprioli, Rodìo, Marina Campagna, Marina di Pisciotta, Gozzipuodi, Rizzico, ma anche nella Gallia, quando si pensi che San Prospero, il nostro amato patrono, s’era messo a pregare l’Onnipotente di salvare la sua Regium dalle orde di Attila, che dove passava lui non cresceva più nemmeno l’atarassico tarassaco, per cui, magicamente, ma non stranamente, il 30 novembre si levò una nebbia mortale che spaventò l’Unno, che poi ripiegò in un villaggio che venne bruciato da quei Siberiani, e che fu poi dedicato al santo, divenendo San Prospero Strinati (ma che triste appellativo!). L’Italia dei comuni potrebbe avere perciò un’origine greca, con tutto quel che ne derivò. Il giorno di Sant’Andrea, ad Atrani, si dice che preghino che il cielo rechi pioggia ad Amalfi; i correggesi non pensano benissimo dei carpigiani, e viceversa; per non parlare dei livornesi e dei pisani: l’Italia è un’infinita congerie di antagonistiche polis.
Tornando, finalmente, a quel che scrive Emanuele: “la fondazione di Neapolis (o Parthenope II) cade negli anni finali del VI secolo a.C.” – e poi egli torna a illuminare la mia mente bramosa d’imparare: “… si tratta del concetto di Campania, cioè la pianura intorno a Capua, al punto che il termine campanus diventa identificativo dell’abitante di Capua e dell’ager di questa città, che poi passerà a designare la regione più ampia fino al promontorio sorrentino.” Illuminante è sapere che “il significato di Flegrea deriva da phlegein, che vuol dire ‘ardere’, ‘incendiare’, e che ha evidente rapporto con la natura vulcanica e con le emissioni di zolfo di quest’area. Che il mito spiegava come esalazioni dovute alle ferite inferte da Zeus ai Giganti con i fulmini.” – e, a parte ‘sta scarica di malumore divino che poco rallegra, capisco ora l’origine della passione che da quelle parti, anche ad Amalfi, specie il giorno di Sant’Andrea, si ha per mortaretti e fuochi artificiali, che non mancano mai, qualunque sia la motivazione presa a pretesto.
“Capua era occupata dagli Etruschi fino al IX secolo a.C., ben prima che fosse fondata Cuma…” – e purtroppo ancora mi manca la visita al museo etrusco di Pontecagnano, ma non quella ai due meravigliosi quanto zichi (piccirilli) musei di Roccagloriosa, nell’interno Cilento, e della celebre Tomba etrusca, in quanto il Lucano che vi era seppellito fu onorato con dei monili accattati presso dei gioiellieri di quel popolo nordico.
A pagina 63 e 64, è spiegato che “sarebbe l’oligarchia di Cuma che avrebbe inviato ápoikoi a fondare la Città Nuova, per liberarsi di strati sociali turbolenti” – che erano “poveri e indesiderati”. In modo analogo, i Britannici colonizzeranno (alla romana) l’Australia deportandovi dei forzati. En passant, in quell’agorà che diventa il pullman che ti reca ad Amalfi, ciacolando con dei turisti del Queensland, chiesi se da loro i loro politici fossero onesti e la loro risposta mi gelò: of course!, diversamente non li avrebbero eletti! O tempora o mores! Purtroppo, mi si permetta l’insolenza politically not correct, o blondes!
Il sesto, ancora di Emanuele, è Nascita, ‘distruzioni’ e rifondazioni di Parthenope, e vi si riporta il riporto (questa è la storia e la storiografia!) da parte di “Filargirio” (che scopro essere il maestro patavino di Virgilio) di un “testo di Lutazio”, ed Emanuele lo passa a me e io lo trasmetto a chi mi leggerà, il quale è pregato di diffonderlo in maniera capillare: “… abitanti di Cuma, allontanatisi da loro parenti, hanno fondato una città chiamata Parthenope dal nome della Sirena…”; ma che poi, per una situazione boccaccesca, a cui rimando la lettura, “ricostruirono la città e con grane devozione accolsero i sacra [‘il culto’] di Parthenope e imposero a questa il nome di Neapolis a ragione della recente fondazione.” Se si trattasse di un thriller, qui il discorso sarebbe concluso. Ma non lo è affatto, essendo la Storia illimitata, come suggerii poc’anzi.
“Lo storico patavino” continua a scrivere che “Palaepolis si trovava non lontana da dove ora è situata Neapolis. Lo stesso popolo abita in due città.” – come ad Atrani e ad Amalfi, dove, di fronte a piazza Municipio, spicca l’indicazione che Atrani, il comune più piccolo dell’Italia, dista quattrocento metri, oltre la celebre Torre Saracena. Nella nostra provincia reggiana, per ovvi motivi di risparmio, sono stati riuniti i comuni di Collagna, Busana, Ramiseto e Ligonchio, sotto il nome unitario di Ventasso, comune sparso in un raggio di oltre una decina di chilometri. Atrani e Amalfi hanno due diversi Municipi; Carpi e Correggio, lontani circa dodici chilometri, appartengono a due province diverse. L’Enotria e l’Etruria non hanno sempre praticato la somiglianza degli oneri amministrativi. Ogni tanto mi distraggo, chiedo venia, per cui ora torno immediatamente sul pezzo: “… mentre è certa l’identificazione del più antico insediamento (Parthenope I) che si chiamerà Palaepolis, rimane da capire se c’è una fase corrispondente a un’eventuale Parthenope II prima che quest’ultima mutasse il nome in Neapolis, e, ovviamente, quale identità dobbiamo assegnare a Parthenope I, una volta ammessa l’esistenza contemporanea di Parthenope II.” Panta Rhei, con la r più dura che si può… Se tutto è relativo, come assicurava Albert (che per me sarà sempre identificabile col nome di battesimo), esistono diverse velocità, anzi, quantità di moto. L’archeologo si agita come non mai, assai più del reperto che lo sta attendendo, immobile e ammucciato (come dicono a Pixuntum e più a sud, fino in Sicilia), dal franco mucher, che è il nascondere un oggetto con dei mucchi che il tempo vi deposita sopra. Quel monumentum ci aspetta fiducioso dell’umana passione, giacendo al di sotto dei nostri inconsapevoli piedi.
Si possono raccogliere infinite dicerie: “Dopo una pestilenza, un oracolo avrebbe ordinato ai Cumani di ricostituire la città che ora si chiama Neapolis.” E “Phalérou viene inteso come genitivo di Pháleron, dunque un toponimo (polis en Oipikois, ‘città nella terra degli opici, dice Stefano)…” – che è “di Bisanzio”; per cui si deduce “l’ipotesi che l’abitato preneapolitano si chiamasse Pháleron.”
Il settimo capitolo, di Daniela, è Una nuova città, storia archeologica di Neapolis, che mi convince sempre di più che le pietre sono parole; nel caso dei capitoli scritti da Emanuele, prevale di poco il senso contrario, com’è indicato nel libro di Levi. Ho poco o nulla, essendo paradossalmente troppo, da riportare. Occorre soltanto leggere e prendere appunti per eventuali ritorni in quell’accattivante, nel senso che ogni volta è come se ti rapisse, città che sorge ai piedi di quella coppia di vulcani, uno dei quali è oggi sopito, essendo deviato verso il Vesuvio il suo canale di sfogo. E questo mi fa rimembrare il mito dei Dioscuri.
L’ottavo è La forma della città, ed è composto da cinque paragrafi, di cui il secondo è di Emanuele, mentre gli altri sono di Daniela, la quale così principia: “chi passeggia per il centro storico di Napoli è immediatamente colpito dal suo reticolo stradale: vie maggiori attraversano lo spazio urbano nel senso della larghezza e sono intersecati da vicoli perpendicolari che scandiscono il pendio nel senso della lunghezza.” – il che mi ricorda l’abitato di Pompei e, nemmeno troppo antifrasticamente, la città famosa per il suo stemma (S.P.Q.R.), fondata da Marco Emilio Lepido (il console) e che, nel 1797, battezzò il Tricolore: la polis in cui nacqui e in cui abitualmente dimoro, Reggio Emilia. Una certa somiglianza, solo in tal senso, fra Pompei e Reggio, me la fece notare la citata con-sorte, quando giungemmo nella piazza maggiore dell’antica città.

Scrive Daniela: “come le vicende che coinvolgono gli antichi tracciati documentino un processo materiale stratificato nel tempo, di cui all’archeologia spetta indagare, caso per caso, la cronologia, le modifiche e la durata.” – un lavoro che non ha mai fine, paragonabile a un’eventuale cronistoria dei murales spontanei che illustrano (ma c’è chi dice che lordano) le nostre città moderne. È come per l’arte, con cui taluni decorano, altri violentano, esprimendo ognuno il proprio imo spirituale. Se ne discuterà per anni di queste venuste e vetuste entità, ciascuna dotata della sua ragion d’essere, del suo senso e della sua grazia e disgrazia.
“L’impianto urbano si fonda su tre strade maggiori e più larghe, le plateiai, che sono comunemente denominate decumani.” – per cui davvero invito i due autori a visitare la mia città, tenendo presente che per mia nonna Linda, che poco sapeva di etnie, chiunque non fosse reggiano, era un napoletân! Urge però avvertire che qui i pizzaioli per lo più vengono dalla Divina Costiera e da Tramonti.
Dopo aver camminato, passo passo, per le vie della città più rumorosamente bella del mondo, transito ora al paragrafo scritto da Emanuele, che è L’agora nel mondo greco, termine che “deriva dal verbo ageirō, che vuol dire adunarsi”, e in essa si riuniva “l’assemblea dei cittadini, per poi passare a indicare il luogo dove quest’ultima si riuniva.” Più tardi “significherà ‘mercato’ (come oggi nel greco moderno)” e, non caso, a Pisciotta (e a Reggio ma non ad Amalfi, che è zeppa di turisti) il mercato si svolge nella piazza maggiore. Nella nuova Pixuntum una delle due caffetterie, fino a poco tempo fa, era il Bar Agorà. Quel termine, così mercificato, è stato poi sostituito da “ekklesia (latino ecclèsia, da cui deriva ‘chiesa’).”
In una città greca, scrive ancora Emanuele, possono mancare “le mura o l’acropoli, ma non può non esserci l’agorà” – e quel popolo seduto ai tavolini di quel bar, riunito in una specie di fiction socializzante, e avvolto da vani chiacchiericci, compone una specifica tribù: da quelle parti, non si chiede da dove vieni, ma a chi appartieni.
Il persiano Ciro, citato da Erodoto, dice “di non aver mai temuto uomini che hanno un choros en mesē tē polei (‘un luogo in mezzo alla città’) dove si riuniscono e si imbrogliano l’un l’altro con i giuramenti.”: la gente in piazza è temuta da chi detiene il potere, per cui colgo l’occasione di magnificare le donne che, nel moderno Iran, stanno ora lottando nelle piazze, a prezzo del loro sangue, mentre il re se ne sta al sicuro nel proprio Palazzo, da dove fa partire gli ordini di ammazzare quelle insensate eroine. E quelle martiri hanno senz’altro bisogna di un’agorà, perché i loro atti possa produrre la desiderata libertà. Uno dei gesti più brutali dell’umana convivenza è il tiranno che utilizza le piazze per trasmettere la sudditanza, che non è una questione greca, ma medioevale. Sto ora pensando alle quattro giornate di Napoli, dove il popolo divenne, anche se per breve tempo, il signore della polis.
Nei rimanenti tre paragrafi Daniela continua a percorrere quelle vie, che tanto mi mancano. Ed è l’autrice anche del nono capitolo, che parla di mura, di paesaggi, di S. Domenico Maggiore, dell’Acropoli, di via Mezzocannone, sito nei pressi dell’Università, dove un giorno assistei al bisticcio fra il parcheggiatore e il possessore dell’automezzo parcheggiato (che alluccavano come irose divinità), nonché di Forcella, con le sue Porte e Torri. Riporto unicamente una parte del testo per dimostrare come non sia semplice il mestiere di Daniela: “Peculiari, per l’uso della tecnica costruttiva ‘a chiave’ (con filari alterni di blocchi disposti nel senso della lunghezza e di testa), sono una cortina e una torre circolare, datati da Johannowsky ancora nel V secolo a.C.” – Amen!, nel senso che il sottoscritto, carente di manualità e di intelligenza visiva, scendendo, grazie a quell’essenziale busta, tenterà d’approfondire de visu l’argomento.
Il decimo è Gli Dèi di Napoli: santuari e riti, dove i primi due paragrafi sono di Emanuele, gli altri cinque di Daniela. Il primo riguarda S. Aniello a Caponapoli; grazie a zio Google scopro che è una delle zone di Napoli che sta a ridosso del centro storico, settecentesca insula sorta per ospitare dei monasteri. Questo mi fa comprendere perché l’autore parli del Convento di S. Gaudioso, senza più citare il nome di quell’Aniello che, come lessi in un calendario a Pixuntum, di cui è Patrono, manifestò già a venti giorni la sua vicinanza a Dio, dicendo un Salve o Regina. Questo paragrafo accenna anche a una presunta “presenza dei Siracusani nel Golfo di Napoli”, per via del “culto di Demetra e Kore, divinità in auge in Sicilia”, mi il dono che mi ha fatto è che, vedendo per la prima volta scritto in tal modo il nome del santo, che è stato, finora, per me, Sant’Agnello, sono indotto a cercare ancora su quel parente telematico. Il quale attesta quel che già sapevo: Aniello deriva dal greco ánghelos, messaggero; ma poi m’informa che agnus ha una medesima origine: Cristo è l’agnolo di Dio. E ora almeno quel mistero è risolto. Mi allieta il fatto che il vescovo Aniello venne dall’Africa, approdando a Napoli, dove fondò il monastero e visse fino al termine dei suoi santi giorni. Mi manca ancora di comprendere il perché Pisciotta sia colma di gente chiamata Aniello (anche mio suocero si chiamava così), mentre il santo è da loro venerato soltanto col gn. Un giorno forse lo saprò.
La Storia è una scienza sperimentale come poche: cerchi, senza riucirvi, di dimostrare un fatto e nel contempo ne verifichi altri due o tre.
Nel secondo paragrafo, che tratta della presenza dei “Dioscuri a Neapolis”, si dice che in quella sorprendente città è ammucciato un famoso tempio a loro dedicato, ora “inglobato nella Chiesa di S. Paolo Maggiore a Piazza S. Gaetano”, di cui ignoravo l’esistenza, e che fu “trasformato in chiesa cristiana e consacrata al culto di S. Paolo.”
Curiosa è la storia della calabra battaglia fra “Crotoniati” e “Locresi”, i quali ultimi vinsero, essendo favoriti dai Dioscuri. Tutto era nato a causa dell’aiuto negato dai Locresi nella guerra combattuta dai Crotoniati contro i Lucani di “Siris”. La cosa che più dà da pensare è che entrambi gli schieramenti confidavano nella protezione da parte di quei due a-sincroni gemelli. Quante illusioni sa creare la devozione. Forse entrambi erano assopiti quando era il turno dei Crotoniani.
Dei rimanenti paragrafi tutto è da leggere e nulla mi viene da commentare, se non un quid relativo al settimo, intitolato Prima del Santuario dei Giochi Isolimpici.
La scrittura di Daniela è così fantastica che mi costringe a interagire di continuo con quel provvidenziale zio, per esempio quando leggo: “… verso il mare è eretto un edificio composto da una sala rettangolare sui cui lati si aprono vani di minori dimensioni, uno di quali, dotato di basse banchine e di un pavimento di signino dipinto, decorato da tessere, è adibito ad ambiente per banchetti.”
Il pietoso parente m’informa che il coccioposto che riveste la pavimentazione sia interna che esterno, è spesso confuso con l’opus signinum, il che per oggi mi basta. Vorrei, prima di assopirmi, lodare Daniela, così accurata nelle sue descrizioni tanto che, finora, mai sono stato in grado di coglierla in fallo! Quest’ultima è un’antifrasi, cioè la versiona inclita di una sciocchezza.
L’undicesimo è (adoro la sintesi) semplicemente Il Porto, ed è ancora di Daniela: “Il sistema integrato della documentazione archeologica e della tradizione storica, mirabilmente messe a fuoco da Antonio Mele, consente di ricostruire il processo per cui Neapolis, già a partire dalla prima metà del I secolo a.C., assume il ruolo precedentemente svolto da Cuma nell’area del Golfo, esercitando il controllo di punti cruciali per la navigazione e i traffici…” – una svolta decisamente epocale.
“L’interesse di Atene per Napoli nasce dalla necessità di garantirsi gli apporviggionamenti di grano di cui ha bisogno…” – è per il grano che si stringono alleanze, più che far la guerra (che a quello ci pensa l’argente).
Altra perla, per cui ringrazio la studiosa: “Nola è un nome indigeno e in dialetto osco significa la ‘Città Nuova’ come in greco Neapolis.” – e in un nuovo mondo ci si si trova tutti, più o meno, affratellati. Le due città sono ora entangled, correlate in “un rapporto di integrazione fondato su una stretta cooperazione che doveva legare i due centri all’interno di un circuito produttivo unitario.” Oltre che nodo commerciale, “Neapolis è anche un vivace centro artigianale” – e qui, allo scopo di far sorridere Daniela, antifrasticamenteaggiungo che quella città novella sta diventando come una piccola Regium, che, un paio di milleni dopo, stupirà Montesquieu, il quale, girando per la mia città, notò come le sue vie erano più spaziose di quelle di Modena, tanto che gli pareva che girasse più aria, e dove potè ammirare l’intensa attività svolta presso alcuni filatoi locali.
Il dodicesimo, sempre di Daniela, è Le Necropoli: Neapolis è sempre più “proiettata verso la sfera delle attività artigianali e degli scambi e, dunque, aperta alla viabilità e all’inclusione.” – anche “verso il mondo indigeno” – non più solo il greco – “riconoscendo nel centro sannitico di Nola il suo interlocutore principale”: il connubio con la madre patria stava entrando in crisi.
Il tredicesimo, di Emanuele, è Neapolis e i Romani: “Strabone ha indicato efficacemente le ragioni, che a lui stanno a cuore, per la sua formazione culturale e per la sua adesione allo stoicismo…” – per cui la grecità va e torna, ma più spesso va, “perché di fatto sono tutti Romani”, e non più ex greci, e non più, fra un po’, delle variegate etnie italiche. Anche gli emigranti italiani divennero gradualmente nord o sudamericani, cessando d’essere principalmente gente del paese natio, di cui mantenevano però le lontane radici. Questo vale per tutto il territorio, “tranne Taranto, Rhegion e Neapolis” – a cui è poi viene aggiunta la mia “Elea-Velia”, che ho visitato innumerevoli volte e che mi fa sempre uscire dal tempo, come pochi altri luoghi che conosco. Di Taranto ho un gran bel ricordo e un’acuta dolenza: la visitai di lunedì, giorno di chiusura del rinomato museo.
A pagina 154 scopro d’ignorare che Neapolis producesse in maniera quasi industriale (l’iperbole è mia) sacerdotesse di Cerere.
Sul finire del capitolo l’autore parla delle ville romane: “che danno vita al movimento lontano dalla città che, da ‘villa’ abbiamo preso l’abitudine, dal Rinascimento in poi, di chiamare ‘villeggiatura’”.
Scappandomi l’ennesimo autobiografismo, non so tacere il fatto che un’impalpabile sindrome di Stendhal la patii a Piazza Armerina, nel visitare la Villa Romana del Casale, uno dei luoghi in cui più vorrei tornare insieme a chi amo. Il quesito successivo è: quanto pagava di IMU quel Patrizio Siculo e perché fece costruire quella straordinaria Cattedrale nel deserto ennese? Che certamente non era tale, illo tempore.
Il quattordicesimo e, ahimè, ultimo capitolo è La città con due nomi: Parthenope e Neapolis, sempre di Emanuele. Fra un’oretta mi dovrò destare e, temo, disincantare. In esso l’autore sintetizza la storia fin qui narrata. Gli elencati algoritmi sono: i “Greci”; “un insediamento con scalo marittimo”; “Parthenope”, “distrutta e poi rifondata (con lo stesso nome?) in un’area corrispondente al centro antico di Napoli” – e quel punto interrogativo duole assai; “e poi rifondata ancora” grazie a “coloni aggiunti (epoikoi)”, diventata “Neapolis”, “con l’arrivo di nuovi abitanti, tra cui Ateniesi”, denominazione che Augusto decise poi di mantenere.
Conclude Emanuele che il termine Partenope rimarrà, in quanto la mitica donzella sarà per sempre “l’eroina eponima di una città che, pur rinnovandosi e cambiando nome, non ha potuto e non può fare a meno di lei.” Miglior chiusa non poteva esserci; anche nel senso di riparo protettivo intorno a un terreno.
Senza attendere la loro eventuale reazione alla mia reazione al saggio, avendo preso confidenza con questi due serissimi (e m’auguro non seriosi) studiosi, prospetto loro un problema personale.
Reggio Calabria era Rhegion (com’è indicato a pagina 154). La mia città era detta Regium Lepidi, in onore di Marco Emilio Lepido, che la fondò e che diede il suo nome alla via Emilia, la maggiore fra i plateiai delle città dell’Emilia, che recava da Arimini a Placentia e ora fino a San Giovanni Milanese, funzionando da decumanus: a Reggio, via Roma è la sua principale stenopòs.
Rhegion deriva da regere, da cui si ha anche regione. Viareggio viene da via regis, di colui che regge la polis; Correggio da corrivium, corridoio; Reggiolo da riviolus, rivo strozzato che gorgoglia, di montaliana memoria.
La mia domanda appare oziosa a me stesso: Reggio Emilia deriva da quell’Emilius, senz’ombra di dubbio, ma perché egli era detto il regium? Agli storici l’ardua sentenza!
In attesa, temo vana, della risposta, vorrei giocare un po’ con la Bibliografia.
“B. D’Agostino, Recensione a V. Bellelli…” – a Reggio abbiamo via Arturo Bellelli, deputato socialista; da zio Google, colgo un Vincenzo Bellelli, e dal contesto mi pare possa trattarsi di lui; non esiste però uno studioso con quel nome nella bibliografia del presente volume. I cognomi degli autori indicati iniziano con tutte le lettere dell’alfabeto, fatta eccezione per la W, la X e la Y, mentre l’iniziale più frequente è, stranamente, la G. Per la cronaca sono indicate più opere di Giampaola che di Greco.
“Guidobaldi 2019” mi commuove: i siti indicati (fra cui l’emozionante “Stabiae”) le ho visitati tutti almeno un paio di volte.
“Napoli 1997” è autore di “Napoli greco-romana”.
Il gioco è l’attività, ancora Vd. Tomasello 2022, che differenzia noi mammiferi dai rettili, e con cui ho cercato finora di pazzia’ nu poco (il trastullo è tipico dei pazzi, mentre il lavoro, Vd. Marx 1867, riguarda gli alienati). Immagino che se non ci fosse anche un’intenzione ludica nella loro professione, gli archeologi sarebbe gente assai inguaiata. E lasciatemi divertire, Tri tri tri/fru fru fru,/ihu ihu ihu,/uhi uhi uhi, cantava Aldo (Palazzeschi). Diversamente, ve lo giuro, non ce l’avrei fatta a sopportare sulle mie gracili spalle tanta massa di in-formazioni che voi è stata offerta in questo fantastico saggio.
Un’ultima amenità. Daniela è sempre talmente precisa che mi fa quasi soggezione, ancor più di Emanuele, ma a pagina 139, nella nota 5, ha compiuto un puntiforme errore. E sono certo che la stessa, con la sua proverbiale e onesta schettezza, ne converrà sorridendo, ma potrebbe anche riuscire a falsificare la mia falsificazione.
Daniela ed Emanuele, grazie alla vostra scrittura ho compreso quanto le pietre siano, come le parole, funzionali alla comunicazione che si vorrebbe imperitura, e lo stesso vale oggi per gli algoritmi scritti in un linguaggio elettronico. È un continuo entanglement che si spera non abbia mai fine, un alternarsi di Grave Singolarità e di Allucinata Entropia. Per ricordarmi i tre tipi di file eseguibili, inventai a suo tempo il seguente rem: BATman è un COMunista che EXEgue gli ordini. Era come dire: Eschilo, che si Sofocle, ma sta accorto ai gradini, che sono Euripide.
La parola, come la pietra, non è solo il frutto di un casuale gioco. È segno di un’aspra necessità!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Daniela Giampaola, Emanuele Greco, Napoli prima di Napoli, Salerno editrice, 2022