“Essere natura” di Andrea Staid: cambiare il nostro rapporto con l’ambiente

Scrive l’autore, nell’Introduzione de “Essere natura: “Il nostro è uno stile di vita che non ha voluto accettare compromessi e relazioni con le altre specie viventi e con l’ambiente circostante.” – la specie a cui appartengono Andrea Staid e il suo lettore è fatta così.

Essere natura di Andrea Staid
Essere natura di Andrea Staid

La domanda è: potrà mai cambiare? Se essa è oziosa, in tal caso l’ozio, il padre di tutti i vizi, dura da svariate migliaia di anni. E ogni risposta, finora, è stata viziata da errori.

La madre di quei vizi, chi sarebbe? La credenza di essere al di là del bene e del male?

“Lupus est homo homini, lupus est homo homini, non homo”, scriveva Plauto, concetto che sarà poi ribadito da Hobbes. Però, talvolta spunta un umanoide che dice: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, ma poi alcuni esegeti decidono di fare confusione del suo messaggio, mischiando con alcune volontà di potere e di sopraffazione su quel prossimo.

Gli homines Pissarro e Cortes portarono nelle Americhe un frainteso messaggio cristiano, devastando, oltre che quel messaggio, i loro simili che abitavano da secoli in quel nuovo territorio, senza riconoscerli come tali. Il territorio era nuovo per loro, non per chi lo abitava da millenni.

Ma lo sa il Canis lupus linnaeus quanto è stato diffamato da chi, nella notte dei tempi, lo adottò?

“La natura non è un luogo, ma un organismo vivente, e noi come specie ne facciamo parte.”

Ho appena letto due opere scritte da femministe nere, e ho compreso come quelle pensino che noi bianchi siamo tutti d’accordo a crederci un’unica specie, i cui maschi s’illudono di essere i primi rappresentanti.

Questo può sembrare un inizio off topic, e può darsi che lo sia, ma non del tutto. Quel che comanda l’uomo è il suo egoismo, che è il sentimento che impedì a quei governanti di sottoscrivere vari accordi per la tutela dell’ambiente, avendo degli interessi economici che giravano energeticamente dalla parte opposta. Il discorso, però, non è mai cambiato quando è stata al potere una donna. Il problema è dunque la specie in sé e le sue false credenze.

“… l’evoluzione culturale ha inizio quando quella organica non è ancora conclusa, e la stessa variabilità culturale affonda le sue radici nella biologia dell’uomo.” – e tutto scorre, ma chi è in

testa alla corsa, illudendosi ogni volta di essere sul punto di tirare la volata, non pensa che a sgomitare e non più ai gregari che l’hanno aiutato.

“Non ci sono più culture di quanto ci sia una natura universale…” – concetto tanto semplice quanto arduo da inghiottire, quando non sai staccarti dalle ragnatele fondate sulla fede ultima, che t’impedisce di scorgere quel che si sta avvicinando, per cui badi solo a non muoverti per non strapparle.

“L’antitesi umanità-natura si è così configurata nei termini di un’irriducibile spaccatura ontologica tra soggetto conoscente e oggetto della conoscenza.”

Diceva il fisico Bohr che l’atto di misurazione causa una perturbazione fisica, e, finché non viene compiuta una misurazione, né l’elettrone A né l’elettrone B hanno uno spin preesistente in nessuna direzione. Esistiamo misurando ed essendo misurati. La connessione è misteriosa, ma c’è. Occorre soltanto prenderne coscienza.

“Una razionalizzazione che vede la natura nelle parole di Descartes come res extensa, una materia inerte, separata dal pensiero e che il pensiero può manipolare.”: la più grande scoperta della scienza, connessa alla meccanica quantistica, è stata nell’accorgerci che non si può accertare, ma soltanto approssimarsi a una nozione della realtà, rendendo il più possibile accurata il conato della de-finizione, che non sarà mai certa, eterna e illimitata, ma sempre vaga, occasionale e ristretta. Nella misurazione è insito e irrisolvibile un errore di determinazione: nulla vi è di assoluto, tutto è relativo, come si deduce dalla teoria einsteniana, che per non farci mancare nulla, contrasta con quella quantistica.

“In queste cosmogonie indiane, Dio, il principio vitale, non è peculiarità solo umana ma pervade tutti gli esseri viventi, sia piante che animali, e l’esistenza dell’umanità sulla terra dipende dalle piante e dagli alberi.”e in tale mistica, che non è scienza, alberga una minuscola e vitale verità.

“L’uomo occidentale invece si sente e si è sentito il padrone e possessore della natura, perché si è sempre considerato superiore al mondo che lo circonda, smettendo di concepire il mondo come un tutto.”quando guarirà da tale follia?

Dovendo scegliere tra le quattro “visioni culturali” che, tu, Andrea attribuisci a noi bipedi implumi, io mi sento di meritare la prima: “animismo: in cui non c’è divisione netta tra umani e non umani”.

Ma anche un po’ “analogico”: “in cui ogni essere umano e non umano è diverso da tutti gli altri”.

Ognuno ha il destino che si merita e che s’immette in quello universale, duri quel che duri, cessi quando cessi. Gli altri, “naturalismo” e “totemismo”, li lascio a chi crede nelle gerarchie e nelle opportunità di natura ontologica: io valgo più della tua Pseudemys scripta elegans, poiché posseggo un’anima; entrambi valiamo meno di quel totem che ci rappresenta, e a cui dobbiamo rendere grazie, nonché vittime da sacrificare.

Ringraziare è una forma di educazione, ma è un segno che va donato a chiunque ci doni una parte di sé.

Sacrificare non so cosa mai significhi, lo chiederò a Mircea Eliade, quando lo incontrerò. Non so se mai riuscirò a essere grato a chi mi sta facendo del male. Né a chi vale la pena di servire. Però il tutto forma un concetto affascinante. Ma che sia logico, lo ignoro…!

“… l’uomo medievale vedeva se stesso all’interno della natura…” – poi “l’invenzione della prospettiva” rovinò tanto candore, “separando soggetto e oggetto della visione”.

Non so se la prospettiva aerea, epocale invenzione dello scienziato-artista Leonardo, cambiò di molto la questione: è vero che le cose lontane sono più piccole e che si vedono meno nitidamente di quelle vicine.

Forse basta esserne consapevoli, senza farsi deformare da esse da tali acquisizioni culturali.

“Quello che stiamo vivendo oggi è il risultato di una modernità che si è basata sulla morte, sull’asservimento delle comunità indigene e sulla sottomissione degli altri esseri viventi.”e da tale scempio ci si può curare, forse solo gradatamente.

“Natura, estrattivismo e colonialità sono tre concetti importanti per analizzare la sottomissione dell’ambiente in una prospettiva critica e contemporanea, tre elementi che sono stati necessari e funzionali nel dispositivo coloniale.”

Non ho consigli da dare, o forse me ne sta scappando uno: agire politicamente, parlare, scrivere, leggere, divulgare, dialogare. Di sicuro questo non obbligherà in tempi brevi alcuna superpotenza a obbedire ad alcun protoccolo ecologista… fino a quando l’elettorato non deciderà che non è giusto votare chi protegge i propri interessi economici, stimandoli più cogenti della sopravvivenza del pianeta.

“Le montagne, gli alberi, le paludi e i fiumi sono villaggi o città.” – e qui mi va di estrapolare un brano tratto da Le rose di Orwell di Rebecca Solnit, in cui si narra di quella “foresta di 10 acri di pioppi tremuli dello Utah in cui circa quattromila alberi hanno in comune un unico apparato radicale…” – e questo è anche la scrittura: d’ora in poi George Orwell, Rebecca Solnit, Andrea Staid e il sottoscritto siamo uniti nell’omaggiare quell’altro Jorge (Borges) e chi sta leggendo il mio articolo, un macrocosmo assai popolato ormai.

Quando parli dell’intelligenza dei polpi e di tutti quei neuroni (mezzo miliardo!) mi fai pensare a com’è morbida la sua carne, e forse anche la tua, la mia, e quella dei quasi otto miliardi di persone. Esiste un detto pixuntiano: quannu su muortu tinni fai nu tianu, il tianu è un tegame. Così dice l’avo al suo erede (e anche lui fu giovane e antropofago). Chi non ha avi cannibali getti al prém piât ed caplêt in brôd ‘d capòun e mânş!

“Ci possono apparire sorde, mute e cieche, ma non c’è alcun dubbio che le piante siano esseri estremamente sensibili in grado di percepire anche i sentimenti umani…” – una mia amica, Ivonne I., che mai fu mamma e ne poteva parlare lucidamente, diceva che coi bimbi bisogna comportarsi come con le piante, vigilando su di loro, senza stargli addosso.

Andrea Staid
Andrea Staid

Andrea, tu proponi un’“etologia cognitiva” che non consideri più, cartesianamente, gli animali “come fossero delle macchine mosse da fili, stile burattino.”: che testimonia l’anomala grandezza dell’uomo, che riesce a essere stolto anche se è un genio.

“Solo attraverso una sistematica messa in dubbio della nozione di certezza, verità e totalità possiamo rompere il muro di cemento armato che appiattisce il nostro possibile avvenire su un eterno, allucinato presente.”dubito ergo supersum.

L’ultimo capitolo riguarda la coltivazione del proprio orticello, al fine di limitare al massimo l’acquisizione di merci alimentari che siano prodotte chissà dove, in che modo e con chissà quali sperperi di risorse, inquinando a più non posso.

Anch’io ne ho coltivato uno. Era un poco più grande di “duecento metri quadri”, quant’è il tuo. Amavo vangare e zappare (risvegliando, con tale atto, tante di quelle endorfine che ogni volta mi pareva d’essere rinato), ma dopo qualche anno ho smesso. Non amavo prendermi cura di lui, avendo altri interessi. Mi tediava il devastare la malerba, a cui talvolta dicevo: dai, tranquilla, ci sarai ancora che non ci sarò più io, se non te, almeno i tuoi semi.

Il fatto è che io sono devastato dall’amore per la lettura. C’è un proverbio arşân che ti fa capire il perché finii per smettere d’atteggiarmi a colono: tót i cajòun a gh ân la só pasiòun! La mia era sfogliare i manufatti di cellulosa.

Ti vorrei chiedere: tu semini o pianti? C’è così la differenza che intercorre tra un hobbista e un professionista. Io piantavo pomodori, zucchine, cetrioli e melanzane. Seminavo solo l’insalata, ma veniva buona!

“Eco-ansia” si chiama la paura che il mondo vada dove non si potrà mai dire.

Tu proponi un’alternativa a essa e al “modello della crescita infinita”: “Prendere gli altri sul serio significa aprirsi all’esperienza altrui.” – e fin qui tutto bene, sono d’accordo, ma poi non capisco: “È necessario conoscere il mondo e lo si può fare in due modi: in modo epistemologico, quello che riguarda la conoscenza e in modo ontologico, quello che riguarda l’essere.”

Ti chiedo: si può essere senza conoscere o viceversa? Ha senso, per te che ami l’unità, proporre questa frattura? Sto pensando a Krishnamurti, e al suo saggio Libertà dal conosciuto, per cui la realtà deve essere affrontata senza pregiudizi, come si fa con un cobra, con un bastone nella mano. È a questo che alludi? Io mai compresi del tutto il buon Jiddu, per cui, quando capita, lo leggo ancora.

Per il pensatore francese Bruno Latour occorre “retrogredire, scoprire un nuovo modo per sentire lo scorrere del tempo”: impresa ardua come risalire uno scivolo. In Ora, scritto prima del 2020, Aurélien Barrau suggeriva di non prendere più l’aereo per recarsi in vacanza in remoti paradisi, onde evitare inutili inquinamenti.

Un mio condomino si vantava ‘d èser mai andê in nisûn sît, di non essersi mai recato in vacanza da nessuna parte. Per lui il sît abituale non era quello archeologico, ma quello da coltivare (così si dice in dialetto il terreno agrario).

E Ulisse? Che ne penserebbe se fosse ancora tra noi? Se ne starebbe in casa a guardare la moglie che tesse la tela, magari tenendo la tivu accesa? Queste domande non sono troppo intelligenti, ma qualsiasi risposta rischia di essere stupida.

“… bisogna uscire dal circolo vizioso del comprare affinché la società possa continuare a produrre e garantirci quel lavoro che ci è necessario per pagare quello che abbiamo comprato.”anche i libri? Chiedo per il mio più intimo amico.

Nell’Appendice proponi “esperienze autonarrate di chi vive in modo differente la propria relazione con il concetto di natura”. Provo a reagire anche alle loro parole.

Tina: “La natura mi ricorda continuamente, e nello stesso momento, la vita e la morte: io la osservo e resto in ascolto.” – e io pure ci penso, ma non so spiegarmi perché l’andare al cimitero mi dona una sorta di folle allegria. Quegli scomparsi mi paiono così vivi e ammiccanti, in quelle effigi!

L’innominato gestore della “biblioteca tra i boschi”: “… quasi nessuno si è mai tenuto un libro preso in presto senza riportarlo.” – ti confesso di aver rubato due volte nella mia vita, e in entrambi i casi si trattava di animali di cellulosa. Restituirei i libri non letti, ma per gli altri simulerei un furto. La motivazione l’ho indicata poche righe sopra.

Francisco: “Nel bosco sto bene ma sono consapevole che sto fuggendo da qualcosa…” – e allora pensa di essere un Felix Milani, e sappi che solo partendo si giunge da qualche parte. Felix è un amico che potresti un giorno incontrare in quel bosco.

“Sembra che la natura agisca proprio per dissolverti, o meglio, per dissolvere l’ego, quasi fosse un mezzo di Dio”: non credo (verbo che non amo) che la natura debba credere (mannaggia!) in dio, semmai è il contrario, essendo la sua negletta e inquinata mamma.

Un indigeno del Golfo Paradiso: egli auspica “un rapporto di uguaglianza tra le specie”.

Dico la mia: ci si può arrivare soltanto trovando un rapporto di uguaglianza tra l’homo pauper e l’homo dives. La vedo dura.

Marika: quando è là, dove la natura le sorride, dice che “in quelle situazioni, è più facile diminuire le contraddizioni.” – a volte capita anche in quelle gabbie di “cemento”, ma non è facile. Il bello delle contraddizioni è che cessano allorché è consumata l’energia che le sostiene. Non sono certo di quel che ho appena scritto.

Michele: per lui è errato “considerare la natura come fuori dalla nostra casa” – e la frase è banale nel senso che dev’essere subito, etimologicamente, urlata da un banditore, e di questo se ne farebbe garante Salvatore Patriarca, autore di Elogio della banalità.

Roberto Cecconi si chiede: come faccio ad abitare in armonia?” – dipende soprattutto dall’equilibrio interiore.

A volte penso a quel vecchio documentario in cui era mostrato un condominio di Macao, in cui le stanze erano divise da gabbie-inferriate, e in ognuna alloggiava un onesto operaio che, detto arşân che dà l’idea: a gh avìva gnân gli ôc per piânşer, non aveva neanche gli occhi per piangere, facendo di necessità virtù. Allora mi dico che mi posso accontentare del mio grigio appartamento!

“… mi sono reso conto che il mito della velocità è fasullo, è molto più potente costruire il mito della lentezza.” – idea affascinante e pericolosa: si rischia un’entropica immobilità.

“Il capitalismo è una droga, una malattia, quello di cui invece abbiamo bisogno sono tempo e relazioni.” – il tempo forse non esiste, ma serve ogni volta che si compie un’azione.

Ora Roberto vive in una casa veleggiante. E sa che, in tempo di tempesta, ogni pertugio è un porto.

Riuscirà mai il nostro sapiente eroe ad attraccare in un mondo ragionevolmente sicuro?

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Andrea Staid, Essere natura, UTET, 2022

 

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