“55 giorni a Pechino” di Nicholas Ray: un film storico sulla rivolta dei Boxer
“Quando vi troverete faccia a faccia con il nemico, sappiate batterlo. Nessuna grazia! Nessun prigioniero!”
Pellicola di ambientazione storica realizzata nel 1963 dal regista Nicholas Ray, 55 giorni a Pechino è una pietra miliare della cinematografia hollywoodiana.
Considerato fra i film più rappresentativi del panorama filmico internazionale è racconto della battaglia di Pechino durante la rivolta dei Boxer. Fatti storici realmente accaduti nella Cina d’inizio Novecento, i quali hanno ispirato il regista per la realizzazione di una pellicola aderente alla realtà.
Il film gode, inoltre, di un aspetto squisitamente romantico che si esplicita nella struggente storia d’amore scaturita dall’incontro dei due protagonisti, il cui esito finale non rispetta il canovaccio dei film a lieto fine.
Ma, prima di illustrare brevemente la trama, è opportuno un rapido excursus sugli eventi storici che hanno suggerito la realizzazione del film.
“Allo stesso modo voi dovete imporre in Cina, per mille anni, il nome ‘tedesco’, di modo che mai più in avvenire un cinese osi anche solo guardare di traverso un tedesco”[1]
Correva l’anno 1899 quando la Cina versava in un grave stato di prostrazione a causa di vicende alterne.
Mentre la dinastia Manciù era in piena fase di decadenza il paese subiva un’aggressione nipponica (1894-1895) che la indeboliva in maggiore misura. Era quindi inevitabile che le potenze straniere, riunite in una coalizione, intervenissero sul territorio suddividendo la città di Pechino in diverse zone d’influenza.
Ma l’ingerenza straniera nelle questioni interne del paese non era ovviamente gradita alla popolazione. Anche perché l’intervento degli occidentali non determinava un miglioramento della situazione a causa anche della forte siccità, la cui drammatica conseguenza fu una gravissima carestia. Da qui ecco nascere perciò un maggior risentimento verso gli stranieri, ai quali si attribuiva il malessere sociale ed economico della popolazione.
Un ulteriore motivo scatenante dei disordini fu il mancato rispetto delle tradizioni da parte degli occidentali, agli antipodi rispetto a quelle dei residenti, che si declinava in un’accesa aggressività contro le proprietà straniere. Iniziati nel 1899 i disordini si protrassero fino al 1901, traducendosi in vere e proprie azioni violente da parte dei Boxer.
Raggruppati sotto l’egida dei Boxer erano contadini senza terre, artigiani e i ceti meno abbienti della popolazione, i quali aderirono alla protesta per rivendicare diritti e una dignitosa qualità della vita. Che non fosse al limite della sopravvivenza.
L’obiettivo di tanta ostilità che si trasformò poi in un feroce odio contro gli stranieri, furono i massacri di missionari cattolici e protestanti; l’uccisione di un missionario inglese che diede il via a ad accesi scontri. Cui seguirono attacchi rivolti alle legazioni straniere che, complice l’imperatrice Cixi, appoggiata anche dall’esercito regolare, si trasformarono in un assedio.
Incapaci di gestire la situazione, che si faceva di giorno in giorno più grave, i diplomatici occidentali presenti sul territorio al fine di porre un freno alla gravità della situazione, richiesero l’intervento di un numero maggiore di truppe.
Iniziativa, che all’arrivo degli aiuti militari, inasprì il comportamento dei Boxer, i quali, inferociti, attaccarono la città di Pechino e diedero fuoco ad alcune persone.
La situazione, sempre più difficile e incontrollabile, degenerò in scontri con i soldati a protezione delle legazioni, i quali risposero al fuoco uccidendo un Boxer.
Il governo in carica apparentemente condannava le azioni, nei fatti, invece, i responsabili di questi gesti scellerati non venivano affatto puniti e neppure perseguiti.
La criticità della situazione, a quel punto, giunse a un punto di non ritorno.
L’entrata a Pechino di un corpo di spedizione internazionale spinse l’imperatrice, che aveva sollecitato la rivolta, a fuggire dal palazzo imperiale lasciandosi dietro una battaglia che infuriò per ben 55 giorni. Periodo durante il quale il quartiere delle legazioni fu assediato, e poi liberato.
“Comportatevi secondo la tradizionale fermezza prussiana! Dimostratevi cristiani affrontando con gioia i pagani! Possano onore e fama accompagnare le vostre insegne e le vostre armi. […] Non si concede perdono, non si fanno prigionieri! Come mille anni or sono gli Unni, sotto il re Attila, si fecero un nome che li fa apparire ancora oggi formidabili nella tradizione e nella leggenda, possa così il nome di “tedesco”, in Cina, per mezzo vostro, acquistare per mille anni tale reputazione, in modo che un Cinese non osi mai più nemmeno guardare di traverso un tedesco.”[2]
Ma, per tornare alla pellicola, emozionante e coinvolgente come alcuni film di stampo hollywoodiano sanno essere.
A raggiungere la Cina, nel momento di maggior criticità della rivolta, è un gruppo di marines guidati dal maggiore Matt Lewis in forza all’esercito americano, interpretato dall’attore Charlton Heston.
Incaricato di difendere la legazione statunitense si trova ad affrontare una situazione militarmente assai complicata e resa difficile dalla protesta dei Boxer che non intendono sottostare alla presenza di forze armate di paesi stranieri, massacrando i cristiani con ferocia inaudita.
A coordinare i rappresentanti delle legazioni straniere è l’ambasciatore britannico, interpretato dall’attore britannico David Niven, che raggruppa gli uomini in una formazione per difendere le diverse ambasciate dall’attacco dei Boxer.
Ed è nel contesto della battaglia di Pechino che si consuma la storia d’amore fra Lewis e la baronessa russa Natalie Ivanoff, ruolo ricoperto da Ava Gardner, attrice fra le più dotate del cinema d’oltre Oceano.
Impegnati a difendere se stessi e la causa in cui loro malgrado si trovano coinvolti, i due protagonisti vivono momenti idilliaci, seppur attraversati da un conflitto che non permette loro di vivere un amore che avrebbe avuto necessità di tempi e luoghi diversi per manifestare il sentimento che li aveva legati. Storia d’amore, che come già detto, non rispetta il lieto fine che avrebbe meritato.
Quindi, vinta la resistenza dei Boxer le legazioni sono svincolate dall’accerchiamento dei facinorosi.
Conclusione che mette fine a quella che viene definita la battaglia di Pechino: non diversa da altre battaglie animate da una crudeltà oltre misura.
Senza né vincitori né vinti, perché le responsabilità dei gravi misfatti vanno divise equamente fra Boxer e occidentali.
“Ogni nazionalità dà la palma all’altra nell’arte del saccheggio, ma in realtà ognuna e tutte vi s’immersero a fondo”[3]
Trascorso un lungo arco temporale dalla realizzazione del film, è possibile di esso darne una rilettura oggettiva e distaccata. Che permette di sottolinearne alcune criticità.
Seppur la pellicola si presenti come un prodotto di qualità, dovuto anche alla presenza di protagonisti eccellenti: tutti di alto livello interpretativo.
Criticità che si evidenziano, ad esempio, nell’atteggiamento degli occidentali, i quali giustificano la loro presenza sul territorio cinese in nome di una pace da ristabilire fra la popolazione. Concetto assai discutibile, a causa di interessi economici delle varie potenze prevalenti sugli equilibri interni del paese e sul benessere della popolazione. Fatto questo che non viene enfatizzato nel film come si dovrebbe.
55 giorni a Pechino è dunque da etichettare come un bel film di stampo hollywoodiano dal sapore patriottico, e neppure tanto velato. Comunque, pellicola da apprezzare quale opportunità per conoscere vicende che hanno fatto la storia della Cina e dei suoi colonizzatori.
“A seguito della presa di Pechino, truppe della forza internazionale, eccetto italiani e austriaci, saccheggiarono la capitale e persino la Città Proibita, così che molti tesori cinesi trovarono la loro via per l’Europa”[4]
Written by Carolina Colombi
Note
[1] Citato in J. Osterhammel, Storia della Cina moderna. Secoli XVIII-XX, Einaudi, Torino 1992, pagina 321.
[2] Kaiser Guglielmo II, Porto di Bremerhaven, 27 luglio 1900.
[3] Citato in Peter Fleming, La rivolta dei boxers, Dall’Oglio, Varese 1965, pagine 344-345.
[4] Kenneth G. Clark. The Boxer Uprising 1899 – 1900. Russo-Japanese War Research Society.