“La terra degli altri” di Ambra Mattioli: la fuga dell’umanità da se stessa
Mi soffermo sul titolo: a chi appartiene la terra? A chi l’ha saputa calpestare. Dopo un’intera esistenza trascorsa a tentare di farlo, lo si possiede senza manco accorgersene, quando as vèd l’erba dala pèrta dal raisi, quando solo le radici si possono intravedere ormai.
Essa non appartiene neanche a se stessa: prima o poi svanirà. Lo stesso capita a tutti gli oggetti, non solo umani: appartamenti, vestiti, diamanti. Tutto decadrà: anche il protone, dicono, anche se nessuno lo può garantire. Tutto è vanità.
Il romanzo di Ambra Mattioli è del genere fantascienza, ma non è del tutto distopico. Non esistono distopie inconcepibili. Nell’immaginare il futuro, si fa sempre mente locale sul presente. E cosa c’è di più attuale di una fuga dell’umanità da se stessa, in cerca di sé?
“Alex Byrne è l’unico sopravvissuto allo schianto del suo vascello sul turbolento pianeta Considjar, dominato da razze aliene differenti…”. Pare che l’umanoide sia l’unica specie che considera le proprie sottorazze come aliene, diverse da sé, tanto da volerle estirpare dalla propria esistenza.
Chi ha vissuto per un certo periodo in Africa prova una specie di male, per cui gli occorre sempre tornare, prima o poi, in quelle terre selvatiche. Ora quel continente oscuro sta restituendo tanta gentilezza, facendoci visita. E noi gente di quell’altro colore iniziamo ad avere paura. Cosa vogliono da noi, questi spettri neri e bisognosi?
Si può intendere il romanzo di Ambra come un tentativo di risposta. Intanto potremmo passare il tempo canticchiando la canzone Gli altri siamo noi di Umberto Tozzi.
Chi sono gli altri, se non dei nemici da cui difenderci, oppure da perseguitare? Parrebbe che non siano concepibili soluzioni alternative.
Adinké Al Afrem Sohkeen, membro dell’equipaggio, non è, come potrebbe parere dal nome, un maghrebino, ma “un under-dooesdor, ovvero un incrocio ibrido dooesdor-umano…”, dove è la parte umana che provoca il sotto-stare.
Okki è un “Kodimar delle terre di fuoco.” – da notare la K maiuscola. Questi tipi sono noti “per la loro innata capacità di confondersi con l’ambiente.”
Whap 202 “è una phantasmine, una razza umana ibridata dai phantasm per poterli servire.” – nulla va gettato, ma ogni cosa deve servire alla bisogna. La sua gente aveva “un vocabolario di termini davvero esigui”, ma Whap “cominciava a mostrare, via via più evidenti, i suoi attribuiti femminili”, che l’avrebbero forse aiutata nella vita sociale. Perché Whap? “Whap 202 apparteneva al sito Wiir, area HAlhan, zona Pevas, nata nella 202esima nidiata”: praticamente il suo nome era un codice fiscale.
Prowo Callister “è un umano di discendenza mista…”; più specificatamente “un arlokk, originario della zona del Kislamabath, presso il lago Falas, nel terzo continente detto Jalami.” – per lui vale il detto dimmi da dove vieni e ti dirò chi sei. “Tutti gli arlokk sono notoriamente conosciuti come vagabondi opportunisti, che vanno e vengono lavorando per chiunque offra compensi a causa della loro avidità.” Prowo era proprio così, però: “da quando aveva incontrato a Sillashe Alec e i suoi compagni, aveva iniziato a riconsiderare le capacità umane…” – altro detto che gli si addice, vagamente più possibilista: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.
Poi viene anche da dire: “Un mondo di uomini… che assurdità!”
Alec è l’uomo umano intorno a cui gira il romanzo. Non è un io narrante, anche se forse lo meriterebbe. Il suo scopo è semplicemente quasi impossibile: tornare a casa.
Lo scopo degli altri componenti dell’equipaggio dell’astronave è “il viaggio verso il lontano mondo degli umani.” – non solo un viaggio, ma un sogno.
Un mito simile ad altri: “… originariamente il Divorante Famelico aveva deposto due uova, una delle quali, rotolata alla luce del sole, era diventata la razza eletta dooesdor e l’altra, rotolata nell’ombra, aveva originata gli under-dooesdor.” – mi auguro di assomigliare a quest’ultima genia.
Forse solo i cani hanno una difformità maggiore della nostra: un chihuahua si differenza da un mastino inglese in modo più vistoso di quanto un pigmeo si distingua da uno serbo, un tutsi da un hutu, un correggese da un carpigiano.
“L’esserino parve a Okki la caricatura di un essere umano.” – anche Okki potrebbe destare dei dubbi. Forse anche io.
“I dooesdor, non sanno riconoscere un hombre desde otro hombre, ma me, sì che mi riconoscono…”
Personaggio atipico è MKJ, amichevole software in grado di finire tutte le informazioni di cui si necessita. In me esiste una tendenza all’animismo, che coinvolge gli oggetti che gli altri definiscono inanimati. Oggi la tecnologia diffusa tramite i cellulari permette di interloquire con delle anime atarassiche che, qualora tu apposta le provochi con delle male parole, ti sanno rispondere che non meriti alcuna risposta. Quando Ambra scrisse il romanzo “sul finire dell’estate 1983”, questa intelligenza quasi biologica era solo immaginabile. Ambra è musicista, pittrice, ebanista e scrittrice, inevitabilmente immaginifica e irriducibilmente sinestetica.
MKJ, “l’unità, come una potente spugna, assorbiva ogni episodio personale, anche il più insignificante, vissuto da Alec Byrne, durante il periodo stabilito, anche a livello inconscio.” – la cosa dapprima terrorizza. Poi, d’incanto, ci si abitua.
Altri sono i problemi: “centinaia di under-dooesdor e in minor numero di dooesdor, assistevano allo spettacolo, con l’espressa intenzione di provocare dei disordini.” – la follia si mischia, finendo a volte per unire le etnie.
“La gabbia fu collocata a un paio di metri da terra, in maniera che tutti potessero ammirarvi la bestia rinchiusa. Dopo diverse ore di insulti ininterrotti, nella piazza gradatamente gli schiamazzi si andarono attenuando, finché non vi fu che un religioso silenzio”: è quello che più preoccupa.
“Siamo in guerra contro il nemico di sempre, gli odiati whooro. Esulta popolo di Droshedhe!” – questa parola, sempre, necessita l’urgente creazione di un dio.
“Byrne si sentì scrutare da un’onda d’odio quasi tangibile. Su centinaia di volti vide disegnarsi un ghigno collettivo.” – si dice bestia che soffre e con quest’espressione parola s’intende la fiera che dev’essere affrontata e eliminata dal gladiatore, che è l’eroe acclamato dalla folla.
“… e di nuovo iniziò la solita cantilena di insulti.” – una specie di litania, di canto augurale.
“Tu sei Alec Byrne, la bestia di Considjar.” – tutti fummo bestie un giorno e tali. Prima o poi, ritorneremo. Ogni Greco fu Barbaro, ogni Barbaro Greco, Panta rei.
Il nemico (che si chiama Ariel Tr’s Metzar e che si autodefinisce “il Press”, ma anche “un dooesdor dotato di senso pratico”) rinuncia a distruggere il prigioniero di guerra, per convertirlo alle sue mire: “Apri la tua mente e segui, se ti è possibile, il mio ragionamento.”
Da sempre sono state inventate numerose balle cosmiche, che promettono una rivalutazione quando sarà sarà. Vi sono degli under-dooesdor che “non credono affatto alla trasmutazione dooesdor dopo la morte e preferiscono complottare alle nostre spalle e riunirsi in sudicie confraternite.” – chiamali se vuoi idealisti senza pietà, oppure terroristi volti al sacrificio.
Una frase del Press, buttata lì per caso: “Siete biologicamente inferiori, mentalmente instabili; l’unica specie, a parte i Maald di K4 Albis e i Proxigeenie di Merchantis IV, che uccida il suo simile per tornaconto personale. Anche tu sei così, Alex Byrne e mi fai rabbrividire.”
Quindi non siamo gli unici maledetti stronzi dell’universo!
Alec pare accettare e intanto studia alcune strategie alternative. Chi vivrà, tradirà. E ne avrà motivo. Il romanzo si dipana nervosamente e l’allegra brigata si divide, per poi ricongiungersi, per lo più miracolosamente. La trama meriterebbe un serial: è semplice ed emozionante. Per aspera ad astra è il motto che ricorre nel testo e che dà l’idea della storia.
Dice ancora MKJ: “A quale scopo centinaia di tecnici avrebbero lavorato, assegnandomi capacità che vanno al di là della semplice elaborazione, se non per quello di rendermi autonomo, di intervenire a mio giudizio. È tempo che io faccia qualcosa che giustifichi i loro sforzi in questo senso. Finora, ho immagazzinato miliardi di dati nelle mie memorie. Da anni osservo e analizzo l’evolversi della storia umana, in ogni sua deviazione e ramificazione, senza interferire minimamente, eccettuati i processi eliminatori, contro le orde corisarck e dooesdor, resisi necessari per salvaguardare la segretezza dell’intera installazione.” – un filosofo di nome Karl similmente affermò che i filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo, ora si tratta di trasformarlo.
Auguri.
“Clemson sorvolò la terribile distesa di cadaveri corisarck, che si estendeva per miglia e miglia nel deserto e una nausea indicibile gli strinse lo stomaco.” – ogni trasformazione richiede un passaggio da materia a energia, e viceversa.
“Uccidere, uccidere… Uccidere! Quella era l’unica informazione che riusciva a penetrare il fitto dhimmir della sua mente.” – povero Ariel, che tante anime whooro aveva annientato: un Sommo Padre della Patria!
“Il popolo è in festa, Inesorabile Forza, acclama il Tuo nome. Sarà impossibile riuscire a trattenerlo.” – scoppierà inevitabilmente.
Ariel subodora un inganno: il nemico non si era quasi difeso. Cos’era successo?
Di tutto. E di nulla. Nulla di nuovo sotto il sole. Solo macerie, morti, disgrazie, variegate umanità.
E tanta miseria.
“Dopo mesi di lontananza forzata, otto creature, in parte umane, in parte no, più un’unità olografica, si erano finalmente ricongiunte in orbita, a bordo della spazio-nave Progeny.”
C’è un qualcosa che accumuna i viventi: “anche se diversissimi tra loro, gli esseri che incontrò avevano nello sguardo la stessa angoscia, comune a coloro che spartiscono la prigionia.” – il che vuol dire che siamo tutti sulla stessa astronave.
Le vicende narrare nelle ultime pagine sono dense di momenti tragici che trascinano il lettore penosamente alla fine della lettura del romanzo.
“Quale era il vero significato della frase ‘Vale la pena di morire per un mondo di uomini’. Come poteva saperlo lui che non era un uomo…” – ma qualcosa non va sempre nel verso sbagliato, a volte succede il miracolo: “… qualcosa nella sua testa non aveva mai funzionato a dovere, impedendogli di uniformarsi all’imperativo biologico imposto dal suo corpo metà uomo metà dooesdor. Combattuto tra le due diverse genie, aveva finito per soccombere a quella che gli avrebbe creato minori problemi.” – il desiderio di normalità esigeva il sacrificio. Ma ora? il meticcio Alecswee, quasi un cucciolo, metà una cosa e metà un’altra, deve ora decidere; Aut Aut. Ora, non prima o poi.
Forse però ignora che, per tutta la vita, dovrà ogni volta compiere una scelta definitiva.
Dice il saggio: “… la vita non è che una condizione puramente fisica dell’esistenza…” – che è una frase senza senso, ma incredibilmente saggia.
Nel frattempo “migliaia di dooesdor si ritrovarono ad annaspare nell’improvvisa gelida morsa del pianeta. La morte era preceduta da violenti spasmi, da irrigidimento muscolare e da oscene contorsioni, che duravano solo pochi spasmi.” – una vergogna di breve durata, per fortuna.
“La supremazia” di qualcuno “non sarà più tale. La loro sconfitta sarà ricordata qui e altrove.” – bene. Un’altra Festa della Repubblica.
Il miglior scambio di battute del romanzo?
Alla domanda che prende talvolta gli umani, cosa faremo?, la risposta è quella giusta:
“‘Vivremo.’ Rispose Whap. ‘Ricominceremo daccapo.’
‘In che modo?’
‘Da soli.’
‘Ma come?’
‘Evitando di fare domande idiote!’”
Ecco quel che si augurano gli emigranti:
“‘Da qualche parte, laggiù.’ Whap indicò l’orizzonte vaga – ‘Ci sarà pure una casa che ci accoglierà, d’ora in avanti.’”
Nell’ultimo dialogo si assiste a un tentativo di cogliere l’impossibile, per cui ogni domanda resterà sospesa ad interim, anche questa: “Allora abbiamo già oltrepassato la soglia?”
La risposta non può essere che: “Non ha più molta importanza… ormai.”
Almeno fino all’eventuale sequel, che giudico (e mi auguro) inevitabile.
Written by Stefano Pioli
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Ambra Mattioli, La terra degli altri, Printed by Amazon